Maria Rosaria Virgallita - Poesie

Straniera

Straniera a te appaio. Non riesci a
Trattenermi nell’ordinaria vita.
Resto per te l’
Autostoppista di una notte. Non ascolti le mie
Novelle, raccontate in una lingua non
Giusta.
Elemosino tutto per
Rigenerarmi e non essere più a te straniera.

 


 

Nello Specchio: me

Momenti
Artificiali
Ruotano
Intorno
Alla
Rara
Oscurità. Nello
Specchio
Ammiro
Rombanti
I miei
Astratti.

 


 

Perdermi

Potrei perdermi a guardare il mare,
sarebbe un perdersi vano
nell’infinito e senza ritorno…
Potrei perdermi nell’odore del bosco,
sarebbe un darsi per vinti
e restare intrappolati nella bellezza della terra…
Potrei perdermi dentro di te,
sì, lì mi sono già persa
e ritrovata;
ritrovata accanto a te,
ritrovata me.
Mi perdo e mi ritrovo qui,
tra pensieri e ricordi,
su fogli da riempire in rime.

 


 

Maledizioni

Maledetto quel fortunato giorno in cui ti vidi in mezzo a tanti,
distanti con i tuoi occhioni penetranti.
Maledetto quel primo giorno che sentii la tua voce rivolgersi a me,
così vicina e sacra,
maledetta quella stessa sera che parlammo per ore
con le spalle rivolte al mondo
e il primo sogno insieme.
Maledetto quell’amore che pian piano è nato in noi,
vicini con lo sguardo nella stessa direzione.
Maledetta la nostra prima cena,
piatti legati a Venere, fragole
e i nostri sguardi insostenibili,
quell’attesa e quelle lacrime sulle nostre fragilità.
E maledetta pure quella parola non detta
e conosciuta nella nostra intimità.
Maledetta la sera in terrazza,
i nostri sogni,
gli sguardi indiscreti,
il brachetto e quella distanza più vicina.
Maledetto il gelo intercorso tra noi,
la fine di tutto,
flagellazioni e tradimenti,
isterismi e svenimenti.
Maledetto il tempo del ritorno
più uniti che mai,
riguardando nella stessa direzione.
Maledetto quel cavaliere che non mi rapì
nella gelida sera di dicembre,
lungo il fiume che silenzioso ci ascoltava,
ci accarezzava
proteggendo i nostri sogni dalle illusioni.
Maledetto il nostro amore maturo
che non si è accontentato di essere taciuto,
voleva essere vissuto.
Maledetti i nostri sguardi in mezzo alla gente,
maledetti i nostri segreti sussurrati all’orecchio,
maledetti i nostri abbracci infiniti,
maledetto il tuo respiro col mio
e il mio arrivarti fino al cuore.
Maledetta la nostra ultima sera insieme,
le lacrime e le scuse per quello che siamo.
Maledette le promesse e i per sempre,
i nostri ripetuti abbracci
e i nostri sogni ormai infranti.
Maledetti i nostri occhi negli occhi,
le nostre labbra bramanti
e quel tempo fermato che incalzava a dividerci.
Maledetto chi ha osato dividerci,
la mia pazienza e la tua vigliaccheria,
maledetta la vita che ci ha fatti incontrare,
maledetto quell’amore che voleva restare,
maledetto il silenzio sopraggiunto tra noi
e maledetta la forza di andare avanti.
Maledetto il respiro interrotto nel sonno,
maledetto il sapere senza parlare,
maledetta la nostra unione sopravvissuta allo spazio e al tempo.
Maledetto il mio sorriso triste
e quello sguardo perso nel vuoto senza di te,
maledette le mie soddisfazioni.
Maledetti coloro che sono stati tra noi.
Maledetti noi, maledetto tu, maledetta me.

 


 

Stasi

«Prepara una valigia! A mezzanotte passo a prenderti in auto. Partiamo!» recitava il messaggio inviato. Arrivò puntuale e iniziò il lungo viaggio. Viali alberati, un profumo intenso di tiglio entrava dai finestrini; il color rossastro di un tramonto di fine estate incorniciava il tutto. Erano felici e spensierati pronti a godersi quei tre giorni di svago tanto agognati. Si fermarono in un bar per un caffè prima di proseguire il loro viaggio verso quel luogo lontano.
Di colpo una fortissima luce esplose nel cielo all’imbrunire, poi notte e poi subito mezzogiorno. Si guardarono attoniti, ma proseguirono per la loro meta. A destra una distesa di papaveri adornava un ruscello che pareva incantato, a sinistra ninfee armonizzavano le dune del deserto. Era tutto troppo strano, ma allo stesso tempo meravigliosamente affascinante per farsi domande. Ancora qualche chilometro e attraversarono una cittadina, tutto immobile e vuoto. Scesero dall’auto e fecero per entrare in un negozio; non c’erano persone, ma solo statue, resti di statue e persino i loro stessi calchi. «Ma dove siamo? Dove stiamo andando?» disse lui in maniera concitata; «Da nessuna parte, andiamo in un posto che non esiste!» sghignazzò crudelmente lei.
Si svegliò di soprassalto, terrorizzata e madida di sudore. Era un incubo. Le mancava l’aria e andò alla finestra. Entrava un silenzio assordante uguale alla sera prima, al pomeriggio e all’ora di punta. Una calma che aveva l’odore di morte. Non c’era più spazio per niente, l’unica certezza era l’incerto e l’unica presenza l’assenza.
Era il diciassettesimo giorno di quarantena. A metà mattinata prese il telefono e lo chiamò; «Pronto! Ciao!» rispose lui con voce triste, «Come stai? Dimmi come stai?» chiese lei incuriosita; «Non lo so! Davvero non lo so come sto!».

 


 

Impara ad amarmi

È arduo amarti.
Cerco di donarti
infiniti frammenti fraintesi,
invitandoti a concupire la mia stessa brama.
Nel nostro iato incessante
lambisco emozioni abiurate
malgrado sempre presenti.
Amo te,
rendendoti così inetto ad amare,
e non rinuncio a innamorarmi costantemente.
È ancora più difficile che tu mi ami…
Abietta appaio ai tuoi occhi,
e non mi onori partecipando al mio convito,
piuttosto ne prendi parte,
ma rinnegando il tuo amore per me
lasciandomi dissetare alla tua sorgente per pochi istanti.
Pretendi di non provocare piacere,
impaurito di fronte ai miei silenziosi gemiti, uditi sul mio viso.
Sarebbe meglio che ti lasciassi andare
e non perdurare nel ripudiarmi
malgrado il tuo amore per me.
Amami perché lo senti,
mostrami per una volta a te stesso.
Riguarda nei miei occhi
e cerca di trovare le risposte.
Concedimi di donarmi a te
e prova a sentire ciò che tacitamente sono.
E guardami negli occhi!

 


 

Nebbia

[…] Questa sera c’è la nebbia. In verità c’è nebbia già da questo pomeriggio. Ho uno strano rapporto con la nebbia: a volte mi sembra di vedere più chiaro quando tutto è offuscato. Ho impresse nella mente le volte che la nebbia mi ha parlato.
Era una sera di fine settembre, la scuola era cominciata da poco e nei giorni precedenti era piovuto molto – come spesso accade all’inizio dell’autunno – e io potevo avere su per giù diciassette anni. Intorno alle diciannove, io e mia cugina Carmen andammo a fare due passi per le vie del rione in cui abito; quattro chiacchiere sul mio flirt di turno, qualche preoccupazione per le prime interrogazioni dell’anno e qualche progetto sull’immediato futuro. Per terra iniziava a stendersi quel primo manto colore amaranto di foglie cadute e la città era avvolta da una discreta coltre di nebbia, non così fitta da non vedere, ma abbastanza per diluire i contorni di ciò che era attorno. Tutto risuonava di una strana atmosfera dai toni rosa, rosa cupo delle sere di autunno dopo giorni di pioggia e umidità. Mi ricordo che ad un tratto esclamai “Che bella la nebbia! Rende tutto molto magico”. Quella frase, tuttavia, non rispecchiava affatto il mio stato d’animo, quella doppiezza di sensazioni ed emozioni contrastanti tra loro, quasi ambigue. Malinconia, incanto, perdizione sono solo alcune delle parole che possono dare a mala pena l’idea del caos che quello spettacolo mi provocava. Quella nebbia mi provocava una diplopia interiore, un vedere doppio, al tempo stesso confuso e distinto, come quando nello stesso istante timore e coraggio sono alleate e tristezza e gioia sono amiche per la pelle.
Avevo poco meno di trent’anni, era un pomeriggio di inizio dicembre e l’angoscia veniva a farmi visita quasi tutti i giorni, mi trovavo a Parma e dovevo preparare l’esame di storia medievale. Era venerdì pomeriggio e mi accorsi che non avevo a disposizione il manuale per studiare. Vivevo ancora in via Bologna e per andare dal libraio presi l’autobus numero otto; non conoscevo ancora bene la città e fuori era tutto murato da una fitta nebbia che non lasciava vedere oltre un metro. Ero sola. Scesi alla fermata di fronte piazza Ghiaia, attraversai il ponte di mezzo e percorsi quasi tutta via D’Azeglio, a testa china per non cadere, per non andare a sbattere. Non si vedeva nulla oltre un metro. Di colpo l’angoscia lasciò spazio alla libertà. In quella città ancora per molti versi sconosciuta, dove i miei sogni si scontrarono con la realtà più dura e in cui conoscevo ancora pochissime persone, mi sentii accarezzata da quella nebbia che mi occultava la vista e non mi permetteva di riconoscere quella via che percorrevo tutti i giorni da oltre un anno per andare all’università. Questa volta non c’era quel dolce e malinconico color rosa cupo a far da sfondo alla città; era talmente tanta quella nebbia che sembrava color incenso nella notte di Pasqua, ma senza odore, senza quel sublime profumo. Era la prima volta che camminavo nella nebbia così fitta, mi era amica e mi dava forza e il mio sguardo sulle cose irriconoscibili era cristallino. Quella sensazione così centrata e quella consapevolezza di chi si è e dove si va la ricordo ogni volta che prendo in mano il manuale di storia medievale e ultimamente accade spesso di rileggerlo.
Due anni fa, invece, la nebbia mi ha messo paura. Ero insegnate di italiano per stranieri presso un centro di accoglienza in località Rifreddo; milleduecento metri dal livello del mare e a quattordici chilometri di distanza da casa mia. Finivo di lavorare quasi sempre intorno alle diciotto e a partire da novembre a quell’ora è già buio. Molto spesso ho dovuto guidare nella nebbia per quella via di montagna e molto spesso ero sola: io, la nebbia e la striscia di mezzeria. La nebbia era fitta, miei amici erano i proiettori fendinebbia e la mia bussola quella linea continua che mi indicava la strada verso casa. Paura era l’emozione dominante, paura di perdere il controllo in quella strada di montagna stretta e piena di curve; paura di perdermi e di precipitare, paura di scontrarmi con auto che non potevano vedermi. Eppure se mi fermavo in quel niente assoluto e riconoscevo gli alberi ai lati della carreggiata mi sembrava di essere in un mondo incanto, magico. Mi sembrava quasi di vederli gli elfi e gli gnomi a trarmi in salvo e portarmi in una casetta accogliente, di legno, su un sofà di fronte al camino scoppiettante.
Ripensandoci la nebbia ha assunto nella mia vita significati ambivalenti molto tempo fa. Avevo forse cinque anni, non più poiché non sapevo ancora leggere e scrivere e far di conto; mi trovavo a casa dei miei nonni materni a Terranova di Pollino; probabilmente era autunno inoltrato perché indossavamo abiti pesanti. Lo stesso ricordo è ovattato, come avvolto nella nebbia. C’era mio nonno Leonardo e mia nonna Rosina, detta Scinella, e c’ero io, quella bimba dagli occhi grandi e malinconici che sorrideva. Quando penso ai nonni, quando sento discorsi sul valore della presenza dei nonni per i bimbi di oggi, mi ritorna in mente quel pomeriggio. Non so se è stato solo uno poiché a volte mi sembra di aver vissuto quella situazione sovente e nella mia mente riaffiora come una sorta di rituale magico avvenuto più e più volte. Era freddo e c’era tanta nebbia; non si vedeva oltre la casa di mastro Antonio, da un lato, e zia Giovannina, dall’altro e di fronte a mala pena si poteva notare la saracinesca color verde del bar di comare Antonietta – cummà ‘Ndanetta per noi; tutto era chiaro, i contorni puliti e poi pian piano qualcosa discendeva su tutto, strada, muri, case e in men che non si dica un muro grigio e fitto di nebbia avvolgeva il circostante. Ero davanti la porta che aspettavo probabilmente il ritorno di zia Rosa da scuola, faceva freddo e non volevo stare a casa. Il nonno allora mi iniziò a raccontare una storia ai miei occhi spaventosa. Per farsi dar retta il nonno Leonardo era solito narrare di una certa “Sabbelluccia”, una bambina mia coetanea nipote di un suo fantomatico amico; ovviamente quel pomeriggio la sua fiaba del terrore verteva su Sabbelluccia, la nebbia e il lupo. La favola grosso modo è questa: “c’era tanta nebbia come oggi e Sabbelluccia, che non obbediva mai a suo nonno, era uscita di casa e si era persa. Poiché era sola e con la nebbia non si vedeva nulla ha incontrato il lupo – eh sì, nelle storie di mio nonno c’era sempre un lupo in agguato – che voleva mangiarla. Quanto spavento per la bambina e quanta preoccupazione per il nonno – amico del mio – che non riusciva a trovarla. Suo nonno è dovuto uscire a cercarla e per fortuna aveva con sé il fucile, così ha sparato al lupo e messo in salvo Sabbelluccia. Da quel giorno Sabbelluccia non ha più disobbedito e né è uscita di casa da sola”. Che prode eroe l’amico di mio nonno! Le storie di mio nonno sortivano sempre un certo effetto su di me e quella piccola smorfiosa dai capelli rame – me la immaginavo così Sabbelluccia – la detestavo e a tratti ne ero anche gelosa per la grande ammirazione e considerazione che mio nonno ne aveva. Avevo paura del lupo e avevo ancor più paura di perdermi in mondi che non conoscevo e che, se anche avessi conosciuto, per via di quella perturbazione atmosferica non avrei mai potuto riconoscere. E così, impaurita e allo stesso tempo divertita, entrai in casa quieta e obbediente. Ci mettemmo seduti tutti e tre e fu subito calore. Nonna Scinella rompeva le noci con un sampietrino e ce le porgeva e noi, ghiotti, le gustavamo; poi iniziava con le “cosëcusèllë” e io e il nonno dovevamo indovinarle e ci divertivamo tanto. Anche mia nonna, che era sempre triste, rideva e i suoi occhi, sempre spenti, si illuminavano per pochi minuti. Ero felice. Sentivo l’amore dei miei nonni; fuori c’era la nebbia e il lupo in agguato e dentro c’era il focolare che ci riscaldava e per qualche istante scacciava la malinconia di aver perso una figlia per loro e una madre per me. I miei nonni me li ricordo così: nebbia, noci e cosëcusèllë. Le cosëcusèllë mi riportano a loro, peccato che me ne ricordi solo un paio. Le cosëcusèllë sono degli indovinelli attraverso metafore. Credo che la nebbia abbia assunto questo ambivalente valore allora, con i miei nonni.
Questa sera c’è di nuovo la nebbia e i ricordi occupano la mente. Ogni volta con la nebbia presente combatto con le mie emozioni eppure me le gusto. Sì la nebbia mi parla e mi fa assaporare la mia esistenza. La nebbia mi apre i sensi; offusca la vista, ma schiarisce tutto il resto. È tutto appannato e non puoi vederlo, per riconoscere devi servirti di altro, di quello che hai dentro. Sembra contraddittorio, ma quei contorni sfumati prendono vita, come riconoscere un volto tracciando con il dito il suo profilo. È mettere in campo tutto quel che hai, tutto quel che sei. È uno sforzo di memoria.
La nebbia mi riporta ad uno stato embrionale, non cosciente ma che ognuno di noi ha vissuto. L’umidità dello stato nebbioso non è forse paragonabile allo sguazzare nel liquido amniotico? Il vedere confuso e con luci ed ombre non è forse la condizione della vista del feto? Quel calore sublime non è forse riconducibile alla condizione di protezione che ogni bimbo ha nel grembo materno? Freud mi condurrebbe in analisi all’istante.
Questa sera c’è la nebbia e una strana serenità e pace mi pervade. Mi affaccio alla finestra e immagino quei mondi incantati. Mi giro e vedo la mia ombra; questa volta sembra pesante e si muove con me, mi parla eppure non la sento del tutto mia. Avverto una presenza che incombe alle mie spalle, non ho timore e non ne sono rassicurata, sarà mera suggestione dovuta al mio manto incantato o forse qualche elfo è venuto a farmi visita, compagnia. Sono stanca, sono sola. Trasognata mi metto a letto. Domani è venerdì. […]

 


 

Notte di neve

Passi solitari avverto sull’uscio silente.
L’edera risale attraverso la mia anima.
È notte ormai.
Inizia a nevicare.
Trattengo i miei tetri pensieri
e intanto la mia notte passerà.
Volerti avvertire addosso
ha uno strano gusto
e le sensazioni appaiono ebbre.
Resta la tua alma immagine
nel lago incantato
con ancora i suoi confini intatti
e ombrosi.
Continua la notte
e continua a nevicare
e cerco di fuggire
da questo uggioso e silente incanto.
Ora è notte e presto passerà.

Alba. Il sole stenta a levarsi.
Ho ancora il sapore dei tuoi baci impresso in mente
eppure il ricordo è restio ad affiorare.
Il fogliame, ormai spento, sprigiona passioni
e attonita oso far versare la mente
in quelle distese incantante.
La luce diventa penombra
e io continuo ad abituare la mente a restare qui
e il tuo ricordo comincia a svanire,
ma riscalda il mio gelido guscio.
Alberi innevati
immobili
da cui si sprigiona un nuovo gioco…
il tuo lieve ricordo prova a riscaldarmi.
È alba ormai.
Vicino è il tuo volto
e qui continua a nevicare.

 


 

La trappola

Parole scorrono come vortici. Segni indistinguibili, note in una stanza vuota. Stanza calda dove il gelo riempie tutto. Ordinario. La scrivania vuota, luce soffusa e tutto intorno è immobile. Sì, nulla si muove. Arancione. Il verde del copriletto. Guardo intorno e non vedo niente, nello specchio nessuno si riflette. Luogo sterile. Eppure c’è un’aria insopportabile. Nausea. Forse sono in bagno a vomitare, ecco perché non ci sono. Non odo nulla al di là dell’uscio. Forse sono sparita per sempre. Forse non esisto più. Eppure in quell’aria insopportabile e soffocante avverto una presenza. Non è la mia. Ma allora di chi è? Ma solo io sono in grado di sostenere un vuoto così tangibile per cui è la mia. Sullo specchio incollato un disegno. Il ritratto di uno squarcio di quella stanza: un’ombra alla scrivania che si interroga nella penombra. Ma io non vedo nulla. Si apre la finestra. Albero di natale e fumo di camino, ma l’aria non entra in quella stanza vuota. Tutto è ancora più irrespirabile. Tutto m’opprime e non riesco a respirare. Vago. Vago fino ad arrivare ad ogni finestra della casa, ma non c’è aria, neanche uno spiraglio. Apro le finestre, non entra niente. Gelo. Mi manca l’aria e non so come fare. Dove scappare? Ma se io non c’ero come mai ora sono lì e non riesco a trarmi in salvo? La porta è serrata e nessun soccorso vi è. La gola ormai è arsa e la lingua si blocca nella gola. Paonazzo. Livido. Urlo, ma sono senza voce. Deserto. Aiuto. Non c’è nessuno che mi senta o mi veda. Mi agito. Cerco di uscire da quella trappola mortale. Ormai sono piegata in due in cerca di un respiro vitale. Cerco di scrivere un biglietto. Scrivo, ma dalla penna non esce inchiostro. Esce solo un liquido oleoso e inconsistente. Non ho più via di scampo. Le altre porte sono anch’esse serrate. Capisco che è la fine e che da lì non uscirò viva. Ancora nello specchio non v’è riflesso, solo quello schizzo fatto da un bambino. Aiuto! Ora non c’è più nulla da fare. Cado riversa sul letto. Smetto ormai di respirare. Ora mi vedo lì su quel letto. Un ultimo spasmo prima di morire.

 


 

Chiamatemi Lete

Chiamatemi Lete, questo è il mio nome.
Lete è la dimenticanza che ti porti dentro, quel magazzino, quel deposito di emozioni, odori, sensazioni e vibrazioni che non ti sai spiegare, che senti e che dimentichi nella tua memoria.
Lete è una pulsione che ti trascina come un fiume in piena, che ti prende come un orgasmo velato nel sogno dal sonno.
E’ camminare nella nebbia e riconoscere le cose attraverso gli odori. E’ l’odore del vuoto, del silenzio, di fumo e vaniglia; è l’odore dell’inconsistenza; è l’orlo del precipizio e il precipizio stesso. E’ la libertà intrappolata nel corpo, è il corpo che parla dell’anima.
E’ la punizione del tuo esistere vano. Lete è un inno alla vita che si libera dalla vita stessa cantando i suoi silenzi.
Lete è il fiume della dimenticanza, se ti disseti dimentichi…trascina via tutto.
Lete è colei che

Lesina le
Eterne
Taciute
Emozioni

 


 

Nata donna da donna

Nacqui da donna un po’ di tempo fa,
in un’alba piovosa d’autunno.
Nacqui desiderata,
amata,
avuta
e poi abbandonata.
Sono nata donna,
non come la Venere dalla testa del dio,
non per uno sguardo che preannuncia l’amore,
sono nata donna dal soffice manto nebbioso.
Sono nata ancora da te,
o madre amata
odiata
e perduta,
sono nata da te
attraverso lo sguardo su inutili cose,
con il ricordo di quel che non c’è.
Rinasco allo specchio,
o madre guardata,
e rivedo i tuoi occhi nel mio sguardo incantato.
Rinasce con te quel filo impalpabile,
mi riconduce a te,
a quella sensazione di vita ridotta a morte,
quell’ombra sicura
che conosco da sempre e da mai.
Abbandoni i tuoi resti
nel sepolcro gelato
rivivi di colpo
nascendo con me
nell’ombra di donna cambiata.
Ti guardo ammirata in una foto sbiadita,
rivivo il calore di una carezza mancata
e come la nebbia mi avvolgi
nella notte gelata.

 


 

Amore

La pioggia discende
e mi scorre addosso.
Sensazione di negazione di tutto
ed io ascendo al cielo.
Le nuvole sospirano: Amore!

 


 

Punto di origine

Tacciono genti nella notte
E anche il Dolcedorme riposa.
Riverberi di pulsioni scorrono
Riempendo le notti delle genti.
Aurora è ormai. Rincasi e
Nessuno
Osa
Varcar la soglia
Accanto a te, figlio illegittimo…
Dispersa
Inventi i conviti ai quali dispendi
Privilegi
Osandoti unica regina. Nella
Limpidezza opaca di quel costume
Lasci scivolare
Importanti velleità.
Nuda ti sei trafitta.
Ora risali fino alla radice.

 


 

Rivederti

Le ombre del passato
riappaiono nella luce fioca all’imbrunire,
quando le giovani donne si danno
e la passione sprigiona giochi onirici.
Riappari.
Turbata tendo la mia bandiera bianca
ormai consunta
e riappari come un naufrago
nel mio infinito.

 


 

Uomo d’altri tempi

Umili
Ossequi
Mostrati all’
Onnisciente
Delirio.
I miei
Astratti
Levigano
Tumuli di
Ritratti
Ignoti.
Ti sento e i sogni sono
Evocati nella nebbia di
Meriggio,
Pieni dei tuoi
Infiniti orgasmi cerebrali.

 


 

Vertigine

Verità;
Ecco ora
Riappare
Trasparente e
Immortale.
Giunta all’apice
Inizio a tremare paralizzata.
Nessuna speranza, non
Esisto più!

 


 

Madre antica

Torno nel suo paese natio. A lui non importa di guardare verso i monti da un lato o verso valle dall’altro; dorme per davvero arroccato su se stesso. Le poco più delle settecento anime che lo popolano sono chiuse al di qua dei loro usci. Tutto è quiete intorno e io mi aggiro come untore, un untore di ricordi e memoria.
Mi dirigo verso la scalinata che dalla strada principale porta alla “Terra” – il rione più alto del paese; è proprio quella che, da bambina, percorrevo insieme a lei, mia nonna, per andare a casa di sua madre. Ad ogni gradino la mente è rapita. Non le ho mai detto che quel percorso era intriso di antichità e magia e che quella scala è divenuta nostra quando, puntualmente, a metà di essa mi indicava un vecchio palazzo sulla destra, una volta la scuola. Lì il tempo si fermava e la immaginavo ragazza; alta, fiera, dritta che con gambe affusolate e i suoi lunghi capelli ebano sparsi al vento percorreva strade e sogni. La guardavo, ma in realtà il suo corpo era già segnato dall’età e dalle ossa malandate, ma risuonava rispetto e stima a chiunque la incontrasse.
Torno indietro verso casa sua, una casa che non è più come prima e che allo stesso tempo conserva traccia di lei e di tempi andati. I suoi lunghi capelli sono raccolti, come sempre, in due trecce che sembrano accarezzarla e le adornano il capo. Apro un baule in cerca delle lenzuola a me destinate, quelle del suo letto di nozze e insieme ad esse scovo una veste da notte corredata di brache. Rido. Ma in realtà ritrovo lei. Mille domande mi affollano la mente. La conosco madre e nonna, ma quale tipo di moglie e donna è stata? Fedele, mite, regale e tante altre cose che non posso sapere.
Chiudo tutto, prendo la spianatoia con acqua e farina e impasto come lei mi hai insegnato. E imparo ora dopo tanti anni.

 


 

La casa

Non era la prima volta che saliva quelle scale e varcava quella soglia, tuttavia ogni volta era come se fosse la prima. Dentro di lei convivevano emozioni contrastanti e molto forti. Notava sempre la disinvoltura con cui l’uomo la invitava ad entrare e come egli si districava tra quelle mura familiari; questo la destabilizzava poiché lei, invece, era come paralizzata.
Le piaceva molto respirare l’odore che emanava quella casa, un odore indefinibile, ma che avrebbe riconosciuto e distinto sempre; era dolce e pungente, forte e blando, ma soprattutto le permeava l’anima.
Si guardava intorno con curiosità e attenzione, non era attratta né dai mobili, né dalle suppellettili, né dall’ordine in cui tutto era disposto, cercava solo di entrare nell’anima di quell’uomo, ma era riuscita solo a vedere ciò che a lui più interessava. Voleva di più. Voleva capire cosa c’era dietro quella disinvoltura e quel gelo che spesso lui frapponeva tra di loro. Di una sola cosa era certa: quel gelo l’avrebbe inglobata e sopraffatta e allo stesso tempo l’avrebbe immobilizzata e resa incapace di tirar fuori tutto quello che aveva da dargli.
Attimo di tranquillità. L’odore della casa le aveva pervaso i sensi fino a non avvertirlo più e allora lei si sentiva a suo agio e toccava le sedie, il tavolo o quanto c’era lì intorno, quasi a voler imprimere se stessa in quegli oggetti. La tranquillità la inondava quando, dopo il pasto, riordinava e poi andava ad accucciarsi accanto a lui alla ricerca di quel qualcosa di così profondo che lui, inconsapevolmente, già le dava.
Attimo di terrore. In quei momenti avrebbe voluto raccontarsi, dirgli il suo punto di vista, spiegargli perché era in quel modo piuttosto che in un altro; ma le parole affollavano solo la sua mente e si fermavano in gola per poi scendere, come un peso, nello stomaco; al massimo le si riempivano gli occhi di lacrime e allora allungava una mano in cerca della sua oppure gli accarezzava un piede o una gamba quasi a trasmettere attraverso il contatto quanto aveva dentro. Lui la baciava e, nuovamente, dentro di lei un susseguirsi di emozioni contrastanti.
Quell’uomo non la capiva affatto, tuttavia sapeva ogni cosa di lei senza che lei proferisse parola alcuna; temeva di comprenderla perché così avrebbe compreso se stesso.
Quella sera lei si accostò alla finestra dandogli le spalle e un brivido le percorse la schiena… iniziava a nevicare e a terra andava formandosi, man mano, una coltre bianca; all’improvviso lei si girò verso di lui con un’espressione preoccupata, gli sorrise e disse: «Andiamo a dormire!».
Le lenzuola erano, naturalmente, fredde, ma lei aveva dentro di sé un nuovo tepore e quando l’uomo l’abbracciava prima di abbandonarsi al sonno lei ne capiva il perché. Gli apparteneva. Era l’unico che di lei aveva tutto, l’unico a trasformarla, proprio come quando il ghiaccio sublima; non aveva solo il suo corpo, ma ne possedeva l’anima e i pensieri più reconditi. Era questo possesso che le permetteva di fidarsi di lui e allo stesso tempo le impediva di parlare.
In piena notte lei si svegliava e restava lì, immobile, a guardarlo dormire. Si emozionava. Osservava ogni muscolo del suo volto, arrivava persino a respirarlo mentre ne ascoltava il respiro e ad ogni rigonfiamento del petto sussultava.
Si fece giorno e un sole splendente aveva già disciolto tutta la neve caduta nella notte. L’uomo l’accompagnò in stazione e dopo pochi minuti il treno era lì a portarsela via. Su quel vagone colmo di passeggeri, come accadeva di consueto ogni qual volta che lo salutava, le lacrime le solcavano il viso e pensava che non l’aveva baciato abbastanza, che non gli aveva parlato abbastanza, che non lo aveva amato abbastanza; subito, però, si rassicurava dicendosi che il suo silenzio valeva più di mille parole e mille gesti perché lui era dentro di lei e sapeva già tutto; e fin d’allora aspettava la volta in cui l’avrebbe rivisto e pensava: «la prossima volta farò meglio.».
Qualche tempo dopo varcò nuovamente la soglia di quella casa e lo stesso timore era lì ad accompagnarla. Questa volta lei si presentava in maniera diversa. Indossava una gonna a tubino nera, una camicia color rosso accesso, un cardigan anch’esso nero; era molto curata: capelli in ordine, del leggero trucco sul viso, labbra madide, orecchini pendenti che le davano luce al volto. Soprattutto, indossava delle scarpe con il tacco molto alto che le donavano una sicurezza che non aveva. Supponeva che con quelle scarpe, alte e rosse, sarebbe riuscita a distaccarsi, a svincolarsi da quella paura mostrandogli così il suo vero valore. Quel valore lui lo conosceva già. L’uomo, sicuro di sé, assecondava il suo gioco e ostentava il suo dominio attraverso una strana indifferenza, lasciandola fare. Poi di colpo l’abbracciava e la stringeva forte quasi a non farla respirare; diventavano in questo modo evidenti le loro proprie debolezze, camuffate dall’ostinazione di voler negare un legame vivo e probabilmente indissolubile. Persa in quell’abbraccio lei capiva che ogni distacco, ogni meticolosa e razionale freddezza erano vani, inutili, inconsistenti e inesistenti. Si levò le scarpe, le mise via riponendole nell’immondizia.
I suoi sensi erano ora intrisi di un altro odore. Apparteneva a lui. Era la prima cosa di lui che le si era impressa dentro, non solo lo riconosceva, ma riusciva a ricordarlo; quando lui non c’era faceva un respiro profondo ed era come se lui insieme al suo odore si materializzassero lì davanti a lei. Ciò nonostante avvertiva l’odore della casa. Sorrise tra sé e sé, poi con la stessa curiosità tornò a guardarsi intorno e tutto sembrò nuovo e distinto: gli oggetti avevano un ordine preciso, tutto parlava di lui; vedeva ora una casa, un rifugio, un posto caldamente familiare, quello che gli inglesi avrebbero chiamato “home” e non “house”.
Poi, come di consueto, si recarono nella camera da letto, si sistemarono per la notte. Lui l’abbracciò con un’intensa tenerezza e cominciò a baciarla; ma lei quella notte non voleva fare l’amore, voleva amarlo.
Lei si distese sul fianco destro dandogli le spalle, riversò indietro il capo quasi a voler scrollarsi di dosso un peso, il peso dell’incomprensione; si girò verso di lui e con gli occhi lucidi e la voce tremante disse: «Abbracciami!». L’uomo con fare guardingo eseguì senza opporre resistenza. Lei guardò nei suoi occhi di ghiaccio, sorrise e lo baciò. Lui, dunque, era disteso accanto a lei, anch’egli riverso sul fianco destro, il suo petto confinava con la schiena di lei ed il ventre con le natiche, le braccia la avvolgevano e le mani erano ferme sul grembo. Lei con il braccio e la mano sinistra si accarezzava il seno gonfio di desiderio mentre con la destra cominciava a sfiorarsi la parte interna delle cosce. La pulsione dentro di sé cominciava a salire e dunque diresse la sua mano dapprima tra le cosce, muovendo da un lato all’altro sfiorando i margini chiusi del suo corpo, poi dal pube discese toccandosi delicatamente, ma con sempre maggiore decisione, fino a quando respiro e battito non fossero gravemente accelerati. Il piacere la invase tutto a un tratto e nel momento del suo culmine strinse forte la mano dell’uomo, lo guardò e con le gote rosse disse: «Ti amo». Lui finalmente aveva compreso e la strinse forte. Adesso sì che avrebbe potuto fare l’amore con lui, adesso ogni distanza era stata abbattuta, ora erano così vicini, intimi, indissolubili, ora lui ne possedeva anche l’essenza oltre che il corpo, ora guardavano nella stessa direzione, ora erano una piena assonanza e ne erano entrambi consapevoli, ora anche lui poteva capire la loro fusione, ora lui poteva penetrarle l’anima. Fecero l’amore. Quella notte fu indimenticabile. Erano un tutt’uno.
Ad un tratto lei si alzò per prendere l’acqua, aveva sete nonostante tutti i suoi sensi fossero appagati; lui era preoccupato, non voleva si allontanasse, temeva che andasse ancora via e senza di lei nulla avrebbe avuto più senso. Le prese un braccio, lo strinse forte quasi a non farla scivolare via, come se andare in cucina a prendere l’acqua significasse svanire nel vuoto. Lei lo guardò con aria rassicurante. Non poteva scivolare via, questa volta era tornata per restare, per camminare di fianco a lui. Quella casa prendeva una forma nuova, era nido, era famiglia, era la loro casa.
Durante la notte lei si svegliò all’improvviso, lo guardò come sempre dormire, ma ad un tratto si sentì soffocare. Un macigno troppo grave le era caduto addosso. Quell’amore troppo grosso e troppo grande la bloccava fino a non farla respirare più. Fondersi con lui poteva voler dire annullarsi. Era nuda, seduta nel letto, si guardava intorno e si sentiva intrappolata. Si alzò di scatto. Si vestì del solo cappotto, riprese le scarpe alte e rosse dall’immondizia, le infilò, aprì la porta e andò via.
Lo amava così tanto da non poter restare. Restando avrebbe finito col distruggere tutto. Quella fusione l’avrebbe sfinita, non si sarebbe più curata; mai avrebbe voluto apparire trasandata agli occhi del suo uomo. Non ci sarebbe stato più quel filo teso su cui restare in equilibrio, quel camminare sospesi che vivificava il loro amore.
Lo scatto della porta chiusa dietro la donna destò l’uomo. Lui si guardò intorno e vide che lei non c’era non più. Pianse disperato. Poi vide che a terra c’era ancora la sua valigia disfatta, si alzò, afferrò un suo vestito e lo strinse forte tra le braccia. Sapeva che non avrebbe fatto ritorno. Riguardò le cose che lei aveva lasciato sparse nella stanza, respirò profondamente e si riaddormentò nella speranza che lei tornasse. Lui e la casa erano lì ad attenderla invano.

 


 

Caffè d’attesa

Gli incontri tra i due erano per lo più fortuiti, legati ai luoghi e alle conoscenze comuni; oppure prestabiliti con largo anticipo e troppo spesso in compagnia di altri.
Sperava sempre di incontrarlo. Il solo sapere di stare a pochi metri da lui e non aver, però, certezza di incontrarlo destava in lei un diffuso stato di vigilanza. Più che altro temeva che qualcuno, tra i loro conoscenti, capisse il forte legame che li teneva uniti. Un legame fatto di taciti sguardi che dagli occhi erano soliti arrivare in quei luoghi in cui raramente qualcuno riesce ad entrare. Un luogo dal sapore di mondo incantato dove chi parla sono giochi di luce e ombra, il chiaroscuro dei silenzi, quello sfiorarsi d’anima più profondo di un qualsivoglia tocco. Sì, un solo fugace e leggero sguardo di lui la percuoteva come una cinghiata al sale sulla pelle. Un dolore che ti accende e ti dà il sorriso di sentirti vivo.
In quei giorni lei era solita recarsi in una biblioteca nei pressi – adiacente per la precisione – della sua abitazione e, dunque, le occasioni di incontrarlo erano sicuramente molteplici, sebbene mai scontate. Proprio uno di quei giorni, infatti, si erano incrociati lungo il corridoio dell’edificio. Un solo istante. Nessuna parola. Nessun abbraccio. Eppure i loro occhi si erano incrociati e, nel silenzio della circostanza, si erano detti molte cose. Si può tentare di rinunciare all’amore, tuttavia esso ritorna sempre – pensava lei subito dopo il breve incontro. Lei mai aveva amato a quel modo, intensamente, profondamente.
Troppo spesso, infatti, l’amore si manifesta non come vorremmo o ci aspettiamo; pungola come una spina ardente inflitta nel fianco, ci fa impazzire di desidero rimasto tale, ma emerge; emerge sempre e non si può soffocarlo.
Quell’emozione, così vuota di parole e di tatto, compensava il dolore dell’assenza e la riempiva così tanto da portarsela dietro – o forse è più corretto dire dentro – tutto il giorno e si placava solo con il sonno della notte perché nel sonno diventava realtà concreta. Soli sguardi, mani che rubano un timido sfiorarsi, il desiderio che provoca il caos dentro. Lei soffocava come meglio poteva quel che provava, eppure emergeva sempre; è inutile, era lì.
Il giorno seguente era ritornata alla stessa ora e nello stesso luogo. Sapeva che lui sarebbe passato. Quel giorno per la prima volta si mise ad aspettarlo. Andò al bar e prese un caffè di cui non aveva voglia – ne aveva già bevuti troppi – e davanti a quel caffè che faceva fatica a mandar giù aspettava. Fissava l’orologio alla parete e quei secondi sembravano interminabili, al contempo tendeva l’orecchio verso l’uscio per sentire il rumore della porta. Al bar non c’era nessuno, per fortuna. Avrebbe voluto tentare di guardare dalle finestre, poste ad angolo sulle pareti di fronte, per prepararsi meglio all’incontro, ma, avvicinandosi, l’avrebbero vista dall’esterno e da lì dov’era seduta, un divanetto, non riusciva a scorgere fuori: era troppo bassa. Attesa. Aspettava e sforzava il fioco udito verso i tanti rumori provenienti dall’uscio.
Nell’attesa la mente vagava e ripetutamente le si materializzava davanti il colore verde che, chissà poi per quale assurda ragione, associava a lui. Sarà stato forse perché lei adorava quel colore, o forse per una sciarpa, oppure perché è il colore della speranza, o forse ancora perché le ricordava la natura e niente mai le era sembrato così naturale come amare lui. E intanto dentro di lei cresceva sempre più il forte desiderio di gustarne il sapore.
Vociare. Fu subito destata da un vociare. Sussulto. Calma. È voce di donna, non è la sua voce. La sua voce è inconfondibile. Andatura inconfondibile. Sagoma inconfondibile. Viso che avrebbe riconosciuto ad occhi chiusi.
D’un tratto, fingendo stupore e sorridendo in modo compiaciuto, lo vide. Eccoti qui, sei arrivato finalmente, ti stavo aspettando… – pensava lei.
Lui era alto, bello, latino. Come la vide esplose in un sorriso e lei voleva morire. Una morte lenta era quella che le sembrava di vivere ogni qualvolta era di fronte a lui. Lui che lei trovava di una bellezza disarmante, il cui sguardo l’aveva colpita fin da quando un’amica comune li aveva presentati tre anni prima. Per lei era bello anche quando era segnato dalla stanchezza e dalla preoccupazione o quando indossava quegli orribili camicioni così fuori luogo rispetto al suo modo fine ed aristocratico. Perché di bello, oltre all’aspetto sicuramente piacente, lui aveva l’anima. L’anima di un cavallo selvatico, un purosangue elegante e indomabile, che aspettava solo qualcuno che lo sciogliesse per correre insieme. Quell’anima silenziosa, che continuava incessantemente ad urlarle, l’aveva stretta a sé.
L’incontro durò qualche minuto. Sorrisi.
«Che fai?»
«Vado a studiare.»
«Ok. Anch’io dopo.»
«Ok. Ti scrivo stasera, rispondimi!»
«Ok. Certo. A dopo. Vado.»
«Ciao!»
«Ciao!»
Pochi minuti che l’avevano riempita.
Uno stato di estasi la pervase e solo un folle come loro poteva comprendere. Sì, perché solo un pazzo può amare un altro pazzo.
Le tornavano in mente mille cose come per esempio il suo odore, quello che aveva notato qualche giorno prima quando, un caldo e tardo pomeriggio di primavera inoltrata, l’aveva riaccompagnata, in compagnia di altri amici, a casa. Quell’odore ancora fresco di doccia che nessuno a parte lei sentiva, ma di cui lei, a distanza anche di giorni, si nutriva. Un odore pulito, candido di crema, pulito come ciò che intercorreva tra loro.
Ogni qual volta ne ricordava l’odore il tempo fermava e tornava alla mente uno sguardo d’intesa, il sapore d’amore, le lacrime del tempo d’attesa. La mente era fissa ad un pomeriggio di sole, al suo volto raggiante tra quello di mille persone, alle fughe alienanti restando tra mille persone.
Andò in biblioteca e lei si mise a studiare. Non c’era né lui e neanche l’odore, ma restava quel sapore d’amore.