Marzia Biondi - Poesie e Racconti

A NARICI APERTE

 

Il respiro, fonte di vita e di morte.

 

Respirare è una delle svariate azioni alle quali non si pone attenzione, ed è considerato un fatto scontato, uno dei diritti acquisiti.

 

In questo periodo storico, si è immersi in una situazione di distruzione, di annichilimento umano e sociale, nel quale il “respiro” legato alla libertà ed alla progettualità di vita è letteralmente sfumato.

 

Le problematiche sanitarie, sociali ed economiche collegate con il Coronavirus hanno messo l’uomo “in ginocchio”, ma ancor più di fronte alla propria condizione umana di “essere polvere”, con la dimostrazione di insignificanza delle situazioni di potere, interessi economici, sfruttamento delle risorse naturali, corsa agli armamenti, disuguaglianze sociali, xenofobia.

 

“Insignificanza” nel senso di situazioni alle quali l’uomo ha erroneamente attribuito la predominanza di valori, rivelatisi vuoti.

 

Si sono perse le radici della propria esistenza, del perché si poggiano i piedi su questa terra, del perché ogni giorno si aprono gli occhi e la mente inizia a dire: “Oggi, inizio la giornata e devo andare a lavorare, devo dire la tal cosa, devo, devo, devo…”.

 

Un pensiero aeroso che dona il vero respiro è riflettere sulle origini umane: “Dal libro della Genesi (2, 7-9) Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.”

 

Il mio respiro diventa affanno alle vibrazioni riemergenti nel percepire, riflettere su tali parole, quali verità e concreta rappresentazione del seme di vita spirituale nella medesima materia umana, a completamento e motore di essa.

 

Il “soffio” quale respiro vivo, forte, vero, amore allo stato etereo che in maniera naturale trova accesso nelle narici, parte materiale dell’uomo, per giungere al restante di esso e riempirlo di forza; la forza che ci fa rialzare quando ci si trova “senza fiato”.

 

Il verbo “plasmò” rende quasi tangibile la Mano che ha operato tale miracolo, come Essa sia una delle radici della quale dobbiamo fare memoria ogni volta che la mente decida di compiere o non compiere azioni, comunque dare avvio ad una decisione.

 

In caso contrario, qualsiasi risultato raggiunto rischia, quando non è scontato che accada, di sgretolarsi di fronte alla prima difficoltà nel raggiungerlo, o di divenire “polvere” in breve tempo. Oltre tutto gli obiettivi raggiunti con, oserei dire, “il delirio di onnipotenza” sono quasi sempre accompagnati da affanno, frustrazione e “mancanza di respiro” per la fatica.

 

Una fatica che non dona un appagamento vero, pieno.

 

Continuando la lettura del Libro della Genesi: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi…..”

 

Fra le riflessioni possibili su questo brano, sottolineo il parallelismo con quanto accade anche ai giorni nostri: la presenza del libero arbitrio dell’uomo di decidere se seguire lo spirito ed il cuore, oppure di appagare il bisogno di sentirsi superiore al restante della natura;  la distorsione del significato di “saggezza”, vista come una maggiore conoscenza delle cose nel confronto con altre persone; saggezza come dominio sugli altri.

 

La disobbedienza e la mancanza di umiltà nei riguardi della Mano che ci ha generati, sta alla base.

 

Il risultato è sotto ai nostri occhi; neppure lo sviluppo tecnologico, scientifico e culturale hanno potuto nulla contro la distruzione dell’uomo e all’arretramento della civiltà.

 

Sì arretramento. Non si può parlare di “sviluppo e progresso” quando uno strumento creato dall’uomo, sia esso materiale, intellettuale o scientifico, viene utilizzato con distorsione del motivo della sua composizione ed a danno di altri. Questo accadeva nell’Era del Paleolitico.

 

L’essere umano non ha guardato più ai propri limiti.

 

Nel scrivere quanto sopra mi si “accorcia il respiro”, con la sensazione di oppressione, come di trovarsi di fronte ad un “paesaggio con sterpaglia” al posto di un prato verde ed ondeggiante al soffio di una brezza primaverile che dice “ciao” allo sguardo di un bambino.

 

Mi permetto di riflettere sulle parole di Papa Francesco udite nell’Angelus del 15 marzo u.s. quando, a proposito della parabola della Samaritana ci ricorda: “Acqua viva, senza di essa si è in piena siccità spirituale, senza fiato……Acqua viva come testimonianza e come bisogno di raccontare la conoscenza di Cristo, la vita e la speranza che sono in noi. Il bisogno di respirare come quello di bere sono necessari alla vita vera”.

 

Come tutto il Vangelo, anche tale parabola può essere “traslata” ai giorni nostri: tutti siamo chiamati a raccontare la conoscenza di Cristo, la vita e la speranza che sono in ciascuno di noi.

 

Con ciò il bisogno di respirare, il soffio spirituale che continua ad entrare nelle narici, che come quello del bere, è fondamentale alla vita vera.

 

Nel pensiero comune il bisogno di bere viene messo fra quelli primari, con ansia e paura di non sopravvivere se dovesse venire a mancare il bene “acqua”; certo senza acqua non si vive a lungo, il limite del corpo umano non ce lo permette, ma è altrettanto vitale soddisfare il bisogno di riempire l’interiorità con “soffio dissetante”, altrimenti anche l’acqua perde la sua essenza.

 

Tante persone camminano, parlano, si guardano vicendevolmente, ma non hanno “respiro”. Sono morti viventi.

 

Riprendo le parole del Papa udite in questi giorni in un’intervista, le quali ci invitano a “Conoscere che il dono di sé stesso è ciò che conosciamo dello Spirito Santo. E’ un soffiare per fare crescere la Chiesa. Lo Spirito è l’autore della diversità nella Chiesa, ma è anche l’autore dell’unità, l’armonia senza annullare l’originalità. Per fare l’armonia e soffiare sulle ceneri che coprono le miserie nostre per farci prendere coscienza di sé stessi e ti porta alla vergogna.

 

La vergogna è una grazia.”

 

Ed ancora, dalle parole del Papa udite il 7 marzo u.s. a proposito della Parabola di Ezechiele: “Il Signore ha detto: Ezechiele, per la tua vergogna ti salverò. La consapevolezza di essere salvato va sempre con la vergogna.”

 

La Chiesa siamo noi credenti singolarmente e riuniti in una comunità, a partire dalla famiglia. 

Il respiro spirituale donato con lo Spirito Santo ci fa stare saldi alle radici, con le ali nel cuore e la luce nella mente, in un’armonia interiore a testimonianza divina con i fratelli in Cristo.

 

Come Eva nella Genesi, anche oggi ciascun uomo si scopre “nudo” cioè emerge la nostra miseria, le nostre incapacità, il lato non cristiano celato in ogni cuore umano.

 

Accogliere il respiro di Cristo, aprire il torace a braccia aperte, lo sguardo rivolto verso l’alto, in un cielo azzurro immenso, ci predispone a lasciarci abbracciare da una Mano che avvolge penetra, accarezza, sa tenere la nostra ben salda e ci accompagna nel nostro cammino, senza perdere la grandezza del dono dell’unicità donato a ciascuno, non si sostituisce.

 

La vergogna, nata dalla consapevolezza dell’errore commesso, è forza nell’umiltà di ri-chiedere perdono e la fede con la quale viene chiesto ci salva. 

 

Il cammino continua, si diventa ciò verso cui si va.

 

Una sorta di “esodo”, cioè uscita da una condizione. E’ la nostra storia di oggi.

Cito le parole di Papa Francesco scritte nel libro “Amici del Signore” Ed. Piemme pag. 49: “….Il libro dell’Esodo – il secondo libro della Bibbia-, che narra questa storia, rappresenta la parabola di tutta la storia della salvezza, e anche della dinamica fondamentale della fede cristiana. Infatti, passare dalla schiavitù dell’uomo vecchio alla vita nuova in Cristo è l’opera redentrice che avviene in noi per mezzo della fede. Questo passaggio è un vero e proprio “esodo”, è il cammino dell’anima cristiana e della Chiesa intera, l’orientamento decisivo dell’esistenza rivolta al Padre”.

 

Che respiro!

 

La storia si ripete, ma l’uomo non ha ancora imparato ad apprendere da essa. Non so se ciò sia una prerogativa umana o se dipenda dalla mancanza di volontà nel “divenire uomo” con la “U” maiuscola, amato così com’è, cioè vero uomo.

 

Il principale esodo è l’uscita da sé stessi, dal proprio io, per rivolgersi al fratello riempiti di acqua viva e donarla a lui, divenire amore per effonderlo agli altri, una “Chiesa aperta”; temo che tale principio sia ancora uno scalino tagliente per alcuni, troppo alto per altri, tuttavia per tutti raggiungibile in quanto chiamati alla santità.

Quanti “vitelli d’oro” sono stati creati nelle diverse generazioni che si sono succedute; oggi quale “vitello d’oro” è di moda?

 

A tal riguardo richiamo le parole di  Papa Francesco dal  libro succitato, scritte a pag. 60: “Aronne non sa opporsi alla richiesta della gente e crea un vitello d’oro. Il vitello aveva un senso duplice nel vicino oriente antico: da una parte rappresentava fecondità ed abbondanza, e dall’altra energia e forza. Ma anzitutto è d’oro, perciò è simbolo di ricchezza, successo, potere e denaro. Sono le tentazioni di sempre! Ecco che cos’è il vitello d’oro: il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della liberà e invece schiavizzano, perché l’idolo sempre schiavizza. C’è il fascino e tu vai. Quel fascino del serpente, che guarda l’uccellino e l’uccellino rimane senza potersi muovere e il serpente lo prende. Aronne non ha saputo opporsi.”

 

Di fronte all’attesa di ricevere i Dieci Comandamenti, Aronne ha ceduto alle perplessità ed ai dubbi che il popolo sottoponeva. 

E’ stato più facile “dirottare” l’interesse in qualcosa di immediato e tangibile.

 

Ognuno di noi può essere “Aronne” quando non rimaniamo saldi nelle certezze che il respiro dentro al nostro cuore ci dice con voce sottile; saper attendere è una delle capacità donate dalla Fortezza ed essa è data dallo Spirito Santo.

 

Lasciarsi travolgere dalle apparenze, la potenza del dominio, la paura delle “regole” dettate nei Dieci Comandamenti porta l’uomo con un sol fiato a crearne delle proprie per sentirsi libero!

 

Il serpente striscia anche sull’asfalto e dentro le scarpe di molte persone! Non solo donne!

 

A mio avviso il primo Comandamento “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro dio al di fuori di me” è il tutto. Gli altri Comandamenti sono necessari all’uomo per comprendere e sapere come giungere a dare compimento al primo.

 

Il respiro diventa pesante, a tratti lungo, il percorso per giungere alla pienezza nel cammino di vita, ma ad “ogni boccata d’aria” il cuore si espande, la gioia invade ogni cellula, la mente pare appartenere al mondo intero, gli occhi brillano di luce spirituale e si compiono opere buone per il prossimo, prima inimmaginate. 

 

La Mano continua ad accompagnare…..il corpo si fa Respiro!

 

Basta guardare quante persone semplici ed umili sono state beatificate, negli ultimi tempi, ad esempio Benedetta Bianchi Porro di Meldola (FC), oltre ad altre persone riconosciute a livello internazionale.

 

Desidero porre in evidenza che fra i componenti per giungere a tale respiro di libertà ve ne è uno che “è alla portata di mano” di tutti, ma non sempre preso nella giusta considerazione: il dialogo.

 

Anche nelle famiglie non sempre il dialogo fra padre e figlio è facile, così pure quello fra i coniugi. Ci si pone sempre a diversi livelli di comunicazione, quindi l’ascolto non parte dallo svuotamento di sé stessi per fare entrare l’altro con l’accoglienza ed amore, per comprenderlo senza giudizio, per poi trovare quali sono gli elementi in comunanza e crescere insieme.

 

Guardare all’altro con lo sguardo di Dio, in quanto a Sua immagine, e specchio della nostra.

 

Così è per il dialogo con Cristo: è necessario farlo entrare, svuotare sé stessi dalla propria saccenza , viversi come figli ed avere fiducia nel Padre, il quale “conosce anche quanti capelli si hanno sulla testa”. 

 

Se si giunge a tale libertà di respiro, allora lasciarsi prendere per Mano diventa una beatitudine.

 

Paradossalmente, proprio il grande bisogno di amore, ci fa avere paura di esso. Com’è difficile lasciarsi amare!

 

Pietro, uno degli apostoli di Cristo, ne è il grande testimone; forse egli non ha mai voluto farsi amare fino in fondo da Egli, per questo ha fatto fatica a credere che lo avrebbe amato fino a morire per lui e per noi!

 

Quanti “Pietro” …….

 

Riprendo alcune parole di Papa Francesco dal libro “Amici del Signore” pag. 189: “…..Quando Gesù parla della sua morte e risurrezione, della strada di Dio che non corrisponde alla strada umana del potere, in Pietro riemergono la carne e il sangue: “si mise a rimproverare il Signore:…questo non accadrà mai” (16,22) E Gesù ha una parola dura: “Va dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo” (v. 23). Quando lasciamo prevalere i nostri pensieri, i nostri sentimenti, la logica del potere umano e non ci lasciamo istruire e guidare dalla fede, da Dio, diventiamo pietra d’inciampo.”

 

Oltre al proprio cammino, si ha la responsabilità di quello di chi si incontra nella stessa strada: sono opportunità di carità cristiana, d’illuminare il cammino altrui con l’esempio del nostro, di fratellanza nella fede. Tutto questo in reciprocità.

 

Come dal sorgere della vita umana, anche oggi esistono “segni” che ci indicano qualcosa d’importante, giunto dalla fonte. 

 

Ogni volta che si accoglie un bambino, sono segno di speranza di vita, un respiro nuovo all’umanità.

 

Oggi più che mai l’umanità ha bisogno di “aria nuova” di rigenerare la propria, ormai imputridita da pensieri maleodoranti, progetti divenuti detriti e staticità nella cecità di fronte alla distruzione del “giardino del quale siamo stati generati come suoi custodi”.

 

Ho iniziato il mio scritto con l’ossimoro vita-morte.

 

Così come nella vita si vive tante volte, così pure si “muore” tante volte. Nei rapporti umani capita spesso di trovarsi a vivere il sentimento di rancore nei confronti di un’altra persona per una delusione ad un’aspettativa, o per maldicenze ingiustificate. Ed ancora i dubbi e le perplessità sull’affidabilità nei riguardi di una persona vicina o su di un fatto “nutrono” il cuore e l’animo di “anidride carbonica” anziché di “ossigeno”, ingrigendo il desiderio di donarsi ed offuscando la mente nella capacità di ascolto reciproco, di una valutazione il più possibile obiettiva su quanto si deve decidere o credere.

 

Tutto questo porta alla “morte” anche spirituale; non si respirano più i colori della vita in mezzo al grigio.

 

Accettare gli accadimenti con l’occhio della fede, la quale porge nel proprio sentire la chiave di lettura delle cose e delle persone a partire da sé stessi, in pienezza, cioè al di là di sé è una grande boccata d’ossigeno che ci fa riempire del respiro divino.

 

Ciascuno ha il proprio respiro, ed uno delle missioni nella vita terrena consiste proprio nel scoprilo  a “pieni polmoni”.

 

Ancora una volta per riuscire in questa fatica è necessario “lasciarsi fare” prima ancora di essere noi a credere di prendere nelle mani il proprio destino nell’azione.

 

A tal riguardo pongo l’attenzione nella figura di Maria di Nazareth: il suo “Sì” è stato un totale abbandono interiore allo Spirito, pur non conoscendo intellettualmente né l’inizio né la fine di tale azione. Quest’ultima ha avuto inizio con la generazione del corpo del Dio uomo, ma Ella ha continuato a rimanere attenta, silente, in atteggiamento interiore attivo.

 

Ha saputo essere, prima di fare. 

 

Pur non comprendendo le parole di suo Figlio, il perché di numerose ingiustizie a Lui inferte, dell’abbandono dei genitori da parte di Gesù per andare a predicare nel Tempio, Maria ha tenuto il “fiato sospeso” ma il respiro dell’anima aperto alla grazia.

 

Testimonianza umana e al contempo divina è il silenzio e la sofferenza di Maria durante la Passione di Cristo. Per una madre lasciare che al proprio figlio siano inferte sofferenze disumane, sputi e oltraggi, tradimenti e la distruzione del corpo, parte del proprio, è una condizione indescrivibile, lacerante nelle viscere, il fiato dolorante nel petto, morto.

 

La forza interiore in un corpo materno che si lacera con quello del figlio, è la dimostrazione divina dell’amore infinito e del totale abbandono ad esso nella certezza della verità nascosta fino alla vita vera.

 

A tal riguardo ecco una mia poesia estratta dalla prima silloge “Ogni istante”:

 

MADRE NOSTRA

 

Un abito lungo col viso abbracciato

da vesti calde e serene

 

occhi profondi che vedono lontano

dolci che dicono “ti amo”

al mondo…quello che le genti

non immaginano.

 

Un sorriso scherzoso Lo avvolge

e carezza i Suoi lunghi capelli.

 

Labbra carnose, umane ma che sanno

tacere e “conservare” il mistero dell’Amore

Vero

 

Forti, tremanti, griderebbero la gioia di essere Madre

ed il dolore nel trattenere la voce del Cuore che scoppia

 

Mani forti, sensibili, che sanno prendere per farsi ascoltare,

che sanno abbracciare per farsi sentire che sanno accarezzare

la Sua sofferenza, che si fanno umane con un pugno di

sassi…

 

ma la forza infinita le ritrasforma in un calore che solo chi sa

il perché della morte nella quale rimane unita alla vita

può mostrare alle altre madri.

 

Un cuore che La guida al Suo

anche quando le pietre Lo nascondono

e La difende dall’altro, perfido, strisciante,

che attende un minimo tremore.

 

Attende stretta nelle propri vesti, confortando gli occhi

altrui…

ed il cuore grida….a presto!

 

Solo se si è figli del Signore, non solo perché si è stati battezzati, si può essere madre e padre dei propri figli.

 

L’amore è unione, ma lo è nella libertà di lasciarsi amare, respiro di vita.

 

Mai come nella Pasqua di quest’anno da pochi giorni trascorsa, si può dire di aver toccato con mano l’uguaglianza dell’uomo nelle diversità di condizioni sociali ed economiche e come di fronte a un invisibile nemico si sia tutti impotenti, tremendamente umani e fragili.

 

Ma, mai come nei giorni pasquali di quest’anno si è sentito così profondamente ed intensamente il bisogno di tornare insieme a pregare, a chiedere aiuto all’alto, unica fonte di giusta risposta, pur continuando a dover sporcarsi le mani per aiutare materialmente e moralmente le persone impegnare in prima linea nel proteggere tutti, compresi quelli a casa.

 

Proprio perché si è di fronte ad una crisi mondiale si vive la divinità-umanità del mistero teologico della presenza di Dio, come si evince dalle parole di S. E. Mons. Gianfranco Ravasi tratte dal suo libro “Sulle tracce di un incontro” a pag. 26:

E’ per questo che proseguiremo il nostro itinerario di riflessione trattando anzitutto del silenzio di Dio, prima ancora che della sua Parola…..Il verso senso del “mistero” teologico è anzi proprio nel contrappunto di nascondimento e svelamento, di silenzio e parola, di assenza e presenza, di umanità e divinità. Gesù Cristo, uomo e figlio di Dio, ne è l’emblema perfetto; in lui Dio si scopre e si nasconde, è vicino ed è trascendente”.

Così il moto perpetuo del respiro, nella sua umanità e trascendentalità.

 

Quante volte ci si domanda dove sia Cristo, magari incolpandolo della rovina del mondo. E’ un travisamento del significato di avere fede, avendo aspettative e senso del dovuto da parte di Cristo all’uomo. 

 

In realtà, è fede chiedere amorevolmente al Signore di essere illuminati sulla capacità di discernimento delle cose e di quale debba essere l’atteggiamento col quale guardare alle difficoltà e lasciarsi trafiggere dalla voce che giunge nel silenzio ed in preghiera.

 

La risposta arriva.

 

Traslando tale tipo di respiro, pongo riflessione sulla lettura della Parola da parte di lettori durante il rito cattolico cristiano della celebrazione della Messa, e da uno stralcio del libro poc’anzi accennato, a pag. 52 S. di E. Mons. Ravasi , qui da me riportato:

 

“….Il documento conciliare sulla liturgia, la Sacrosanctum concilium, notava che è “Cristo stesso a parlare quando le Sacre Scritture sono lette in chiesa” (n.7). Se è, dunque, “Dio stesso che indirizza la parola al suo popolo”, attraverso la voce umana – come si osserva nell’introduzione al Messale romano (n. 33), quanto serie, rigorose e rispettose devono essere sia la proclamazione della Parola sia la sua interpretazione….”.

 

Leggere la Parola è un dono immenso, per giungere al cuore come “vapore d’amore” per espanderlo nel ricongiungersi a quello divino.

 

Tale azione breve, intensa e vera è quasi disumana, ma ancor di più disumano è il fatto di non essere totalmente consapevoli della forza del fiato che sta uscendo dalle proprie labbra mentre si è di fronte ad un comune microfono e ad alcuni credenti.

Troppo spesso ci si dimentica che alle spalle, custodito nel Tabernacolo, c’è il Padre che ascolta la propria voce tramite quella del lettore. 

 

Rimango senza fiato.

 

Nell’andamento del respiro, inspirato, trattenuto e poi donato, non posso non inserire la Preghiera, quale dialogo con Dio, il cui ascolto porta alla risposta come un incrocio fra la Parola divina e quelle umane.

 

Il teologo Ives Congar nella sua opera “Il Dio vivente” ribadiva: “Con la preghiera riceviamo l’ossigeno per respirare. Con i sacramenti ci nutriamo. Ma prima del nutrimento, c’è la respirazione e la respirazione è la preghiera.”

 

Sempre dal mio primo libro “Ogni istante” – Gruppo Albatros Il filo – una poesia:

 

PREGHIERA

 

Ciò che si è…

Difficile misura

Eterna ricerca

 

Ogni flusso è una risposta

per Chi lascia che i propri occhi

si rispecchino nel movimento del Vento

che avvolge ogni essere

 

Forza necessaria per questo coraggio

è racchiusa nella semplicità che è sussurrata

a Chi è immensamente presente…Amen!

 

Bisogna solo ascoltare…..solo così c’è risposta”.

 

L’ascolto silenzioso, bianco ma non vuoto, accogliente e gioioso è l’azione-non azione principale per essere attraversati dal flusso divino nella preghiera.

 

Dal libro “L’incontro: ritrovarsi nella preghiera” S. E.Mons. Ravasi scrive a pag. 152:

“…Dio si è rilevato con la misteriosa parola del silenzio, simile al “sussurro di una brezza leggera”….Il nome di Dio, insegnerà la tradizione giudaica, è fatto di quattro consonanti impronunciabili, eppure è un nome personale che si rivela, opera e salva”

 

Dalla mia seconda silloge poetica “Soffi di vita” – Risguardi Edizioni-  una poesia:

 

“la brezza salata

di luce calda e avvolgente

giunga sull’onda della vita

 

baciata dal mare”

 

Durante le Kermesse  a Fonte Avellana nelle quali ho partecipato come relatrice ho conosciuto un grande poeta, Massimiliano Bardotti, e dal suo libro “Il Dio che ho incontrato” ecco due  bellissime poesie esplicative dei concetti suddetti:

 

Il Dio che ho incontrato è aria sottile

Che non so vedere.

La oltrepassiamo, senza mai essere oltre.

 

Nell’immobile suo manto, tutto si muove.

La foglia, la vedo vibrare.

 

**************************

Il Dio che ho incontrato attende

senza rivolte

custodisce segreti.

 

E’ estremamente tangibile ed umana l’incapacità di guardare, ma di non vedere, ciò che veramente ci circonda, dando per scontato che ogni giorno sia sempre la stessa cosa, dovuta.

 

Il fatto più grave è che in realtà nulla ci è dovuto in quanto tutto è nella vita stessa e la vita è dono.

 

Altrettanto grave è che non si ammetta questo limite umano, per tutti uguale.

 

Ma il respiro che è in noi, se noi stessi lo accogliamo, ci sa far stare a bocca aperta e col fiato sospeso al vibrare di una foglia, nel mistero della sua creazione, come della nostra, in una similitudine divina.

 

Quando ciò accade, c’è la morte di una consapevolezza vecchia “non più di misura” della nostra essenza, per lasciar spazio a nuova vita in un respiro nuovo.

 

Contemporaneamente il Signore nella sua attesa del nostro respiro insieme al suo, c’insegna come superare gli inciampi del cammin di vita e nell’affanno per raggiungerlo, cioè senza gesti eclatanti e rivolte di dominio saccente nei confronti di altri, ma nel tacitare attento e meditato.

 

Dialogare con Dio: nella ricerca incensante di un “contatto” in senso umano; con il fiato della disperazione per la solitudine che avvolge il cuore in certi momenti; quando le persone care non riescono ad andare oltre ai tuoi vestiti e a ciò che di te si vede; non di meno per chi ha sentito la chiamata di consacrarsi a Cristo come scelta di vita ma la titubanza, il dubbio, inquinano il cammino. 

 

In tutte queste condizioni il respiro, pur in vita, ha abbandonato l’anima e la speranza.

 

Nulla di nuovo sotto al sole, ed alcuni di questi stati d’animo ed altro sono stati meditati da un frate cappuccino, teologo, biblista, poeta e pittore, sto parlando di Padre Venanzio Reali di Sogliano al Rubicone nella provincia di Rimini.

 

Per una ulteriore riflessione dal suo libro di tre raccolte di poesie “Primaneve”- Book Editore 2002 uno scorcio:

 

FAMMI PARLARE A TE

 

Ti cerco, mia luce,

non voglio appartenere alla notte.

Mi vien dietro la morte

quando tu sei via

e nel silenzio l’anima

si tende all’ascolto

come sposa sola.

Non siano le tue labbra mute,

tu che desti una voce a ogni cosa;

dischiudimi la mente alla preghiera,

allungami il cavo della speranza,

tu che pendesti alla croce per me.

Volgendomi alla mia traccia 

tremo come locusta

in un esausto sole di stagnola.

Oltre la soglia amata

la luce delle colline

la rugiada dei pleniluni

i miei occhi ti aspettano,

non paghi di simboli

sul diaframma del mondo.

 

E’ quando ci si mette in ginocchio, privi di ogni speranza e di ogni certezza dell’oggi e del domani che il Signore mostra la potenza del suo amore e la sua sottile presenza. Persino il sole diventa come  “stagnola”, riflette un raggio non pieno, illusorio nel suo riscaldare.

In un susseguirsi d’invocazioni il contatto interiore viene cercato fino allo “stiramento” del cavo verso la speranza con la forza della preghiera.

La stessa forza che fa guardare oltre alla natura, nostra sorella, per camminare insieme verso l’origine.

 

Speranza-certezza che la Croce ci mostra nel costato trafitto, nei chiodi di una condizione d’assoluto amore, a braccia aperte per accogliere il mondo nella sua rinascita.

 

Guardare alle cose con sguardo divino, oltre le colline, gli occhi attendono una visione altra; uno sguardo assetato ed affamato d’immensa indefinitezza carpita e racchiusa nell’aria, nella natura, quale polmone che respira e “diaframma” che si espande e si propende verso e con l’uomo.

 

Guardando a ciò che ci circonda ed alla sua bellezza divina mi soffermo sull’arte, anch’essa frutto dei doni intrinsechi all’uomo e alla natura.

 

Arte quale chiave di lettura della bellezza, dell’essenza delle cose, del celato agli occhi, ma non all’anima.

 

La poesia attraversa ogni altra tipologia d’arte ed estirpa da ciascuna di essa la sostanza fondamentale, aerea o materiale per far andare oltre ed al di là delle cose, un vero e proprio “Soffio di vita”.

 

Michelangelo, artista d’eccezione, quando si esprimeva nella scultura diceva di dover estrapolare dal masso di marmo ciò che in esso era contenuto; questo esprime la poesia che in tal gesto  guida la mano dell’artista.

 

Il bisogno dell’arte e della bellezza è un costituente delle necessità umane, a mio avviso, non a caso.

 

Tramite la ricerca del soddisfacimento di tale bisogno l’uomo percepisce, perfeziona e mette in atto le competenze, le intuizioni, le esperienze artistiche per una sorta di restituzione al mondo del dono dell’arte stessa.

 

Alla sua visione, per l’artista, è naturale tirare un sospiro dopo il termine di una fatica intellettiva ed emotiva, o quando l’ispirazione ha acceso la fiamma del “poiesis”, cioè del fare dal nulla.

 

Non di meno è l’appagamento dell’anima per gli occhi esterni all’autore che si posano sull’opera, alla visione della bellezza nell’armonia delle forme, nei colori, nei giochi di luce, nella consistenza o aerosità della materia stessa; il respiro dell’anima ne è la sostanza.

 

Negli spazi vuoti di un’opera, ma non inconsistenti, vi abita la poesia più piena.

 

In ogni pennellata che si adagia su di una tela, cosa si lascia al di là del colore, della pressione o del riempimento della trama? La tela stessa cosa diventa? Che cosa restituisce al mondo?

 

La risposta a queste domande è una sola: amore.

 

Ma, tutto questo non è sufficiente ad un appagamento pieno. La ricerca continua insieme a quella del contatto con il Signore, da cui tutto deriva come dono ricevuto con la vita.

 

A proposito  di arte S. E. Mons. Ravasi, continuando con gli scorci dal libro “L’incontro – Ritrovarsi nella preghiera” a pag. 117 scrive: “Con le parole di Benedetto XVI davanti agli artisti giunti da tutto il mondo nel 2009 nella Cappella Sistina……..l’arte è “movimento e ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente, mentre lo attraversa”.

 

L’arte come tensione verso il punto massimo della bellezza, così come lo è quella della ricerca dell’amore assoluto nella pienezza di essere in simbiosi col Creatore.

 

Il denominatore comune di tali due tensioni è la preghiera e la poesia, una forma di preghiera, di cui i Salmi sono una grande testimonianza e strumento.

 

L’arte creativa espressa nella scultura, nella pittura ed in tutto ciò che genera una forma materiale, dal punto di vista psicologico, può essere interpretata come un oggetto transizionale del proprio corpo nello spazio. Tutto prende un altro “sapore” se a tale chiave di lettura di unisce lo Spirito. A quel punto  nello stesso oggetto si può percepire e “vedere” l’opera divina in noi e portata al di fuori di noi stessi.

 

Per quanto riguarda la poesia, il poeta  R. M. Rilke diceva che siamo “Le api dell’invisibile”; ai posteri l’ardua sentenza.

 

Non da meno si può dire del respiro che ci regala, ci sollecita o ci trattiene l’ascolto delle note musicali.

 

Come per la poesia anche nella musica la bellezza dipende dall’armonia fra il silenzio-suono delle pause e il suono; diversamente si tratta solo di rumori. Il collante che miscela i due componenti e fa sorgere la musica non è nelle dita dell’artista, ma nella sua anima. 

 

La voce-silenzio-poesia che guida il corpo.

Metaforicamente: voce-silenzio-poesia quali “membra del corpo”, ed il corpo quale “corpo delle membra” in un livello antimateria ed invisibile ed impercettibile nella sua essenza.

 

Non è un caso che il corpo umano sia per eccellenza una cassa di risonanza perfetta per fare udire la musica generata dal percuoterlo o per il fiato donato con un canto; la ripercussione nel corpo che si flette al battito o che si contrae nel canto sono “il vivo” del corpo che entra in simbiosi col movimento dell’aria che si muove fuori e dentro di esso.

 

Aria che fluisce verso i cuori e verso l’etereo nel canto,  considerato “doppia preghiera”.

 

Dio lo si incontra nel silenzio, nel suono della voce in esso racchiuso mentre si è in preghiera; è un inno alla vita.

 

Il fruscio dell’erba mossa dal vento su di un prato verde in una collina circondata dallo svolazzare di uccelli variopinti, dopo un lungo peregrinare, adagiati su di una ramo caldo della brezza di profumo di margherite intrisa, accompagnato dal vocio del gioco di bimbi gioiosi….in tutto questo c’è musica.

 

Musica e magia in senso lato sono un grande connubio, si abbracciano ed insieme creano lo spazio per accogliere la beatitudine in un ringraziamento sonoro.

 

Anche nella musica la nota  e lo spirito divenuto parola nel canto si trasformano da un “io” che le ha generati ad un “noi” , reso possibile dall’ascolto e dalla sintonia generate dalle anime in esso incontrate; dimostrazione che la parola antagonista dell”io” è il “noi” e non il “Tu”, in quanto puro dono divino.

 

La poetessa Mariangela De Togni, suora delle Orsoline di Maria Immacolata (Piacenza) in una Kermesse di alcuni anni accaduta a Fonte Avellana, ci ha donato l’emozione di udire la spiritualità che riscaldava i tasti del suo flauto mentre rendeva grazie a Dio.

Dalla sua raccolta “Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie?” ecco una poesia:

 

SETTIMANA SANTA

 

Fu un vento di sole

un soffio appena a soffiare

la fredda pietra

del sepolcro.

Veniva dal deserto del Neghev

in un ago di cielo

a raccontare all’aurora

liquida di luce

il dolore immenso

inchiodato alla croce

ancora per far risorgere noi

dagli abissi della colpa.

 

I pensieri corrono

per i viottoli della memoria

cercando immagini

da fermare in riva agli oceani.

Fotogrammi sospesi,

flutti di silenzio.

 

E un Dio che si fa umano

nell’amare la bellezza

della sua creatura.

 

Il suono del silenzio e del dolore, della morte per poter donare la vita vera alla creatura amata come “buona cosa” creata dalle sue Mani.

 

Il soffio che riscalda la pietra, il soffio che dona la vita, il soffio che dona lo Spirito per essere testimoni di Egli.

 

Il respiro fonte di vita e di morte.

 

I pensieri corrono, spesso di vita propria, incontrollabili e camminano in una parte della memoria umana, quella all’uomo conosciuta, ma come il cielo, è solo come un ago della grandezza reale. 

 

Essi corrono al ricordo del dolore della morte, ma con lo sguardo della luce che da essa sorge. Sarebbe un guaio se il buio del dolore non esistesse, non si potrebbe godere della luce.

 

Musica, poesia, arte come luce e sale; con esse essere e divenire per gli altri, uscendo così da sé stessi e dall’”io”, con lo sguardo nuovo per guardare e vedere il mondo che ci circonda.

A tal punto, lo Spirto ci fa sentire di essere “custoditi”; pertanto è possibile divenire custodi a propria volta degli altri, seguendo la volontà del Signore che ci guida verso un amore fra gli uomini per unirsi al Suo.

 

E’ un’emozione unica, timida, impaurita quella che mi sorge al pensiero di un Dio onnipotente, amore allo stato puro, che per donarlo ha bisogno del “sì” della sua creatura, altrimenti è un amore non donato e ristagnante in attesa di una porta aperta ad accoglierlo.

 

L’uomo non merita tanto. Ma il giudizio spetta al suo Creatore.

 

Concludo la mia riflessione senza aggiungere altre considerazioni personali, che lascio a coloro che vogliano ancora leggere alcune mie poesie dalla terza silloge “L’amaca dell’abbraccio dissetante”, riepilogative di quanto già espresso, e non solo.

 

anima mia grida

fino al suo respiro ti senta

ritorna non volare via

 

poesia”

***************

in un istante, con una folata di vento tiepido

arrivi, le mie ciglia accarezzi

interamente m’illumini

 

da un sottile calore travolto

 

come in un film ti guardo

colori le pareti delle case

i volti della gente

 

le foglie del mio spirito

chiacchierano con il cinguettio

di becchi e ali giocosi

 

seduto su di un sasso una soporosa beatitudine

sopraggiunge confonde desideri certezze

ed il reale

 

la ruvidezza del sasso conferma la mia e la tua presenza

l’impronta, l’assenza ha la pienezza di te

felicità

 

********

una scheggia della Croce

incide la carne

il senso della vita

 

sfida la morte

 

il tempo incatenato incespica

impigliato fra le indefinite ore

di viscerale metamorfosi

 

come pietre fondanti

il pane della fortezza

e il vino della temperanza

 

rinvigoriscono la speranza

 

una nuova vita si alza

a piedi nudi cammina sui sassi

con mani riconoscenti accarezza

 

l’infinita amicizia di spirito e amore intrisa

del sangue del tuo sangue il prodigarsi

di anime amate nel cuore incastonate la presenza

 

della fonte getti d’amore dissetanti

Grazie.


MISERICORDIA DEI VERSI: IL DONO DEL PERDONO

Marzia Biondi

Iniziare a scrivere su di tale argomento,vibrazione profonda dell’animo e solletico alla mente al fine di fonderli per trovare parole sagge da donare al mondo.

Questo è ciò che il mio sguardo poetico fissa nel cuore

 

Credo si tratti di uno degli argomenti sull’umano e la sua complessa poliedricità per i quali siamo tutti chiamati ad essere testimonianza verso le persone e nelle situazioni più svariate incontrate nel cammin facendo, lungo o breve che sia.

 

Già l’etimologia della parola “Perdono” è ricca di senso e significato, ai quali non sarebbe necessario aggiungerne altri: sarebbe sufficiente ascoltare dentro se stessi quali sentimenti, ragionamenti e sobbalzi scatena; non da meno quali incomprensioni ne impediscono il “pieno assorbimento” del valore in essa intrinseco.

 

Derivante dalla  lingua latina essa è composta dalla particella “Per” intensiva ed indicante il compimento e “Donare”, cioè concedere e anche condonare. In poche parole “donare completamente”.

 

Chi non rimane tacito per sgomento di fronte a tale significato!

 

Di sicuro per qualche secondo chi la legge smette di manovrare su di un tablet, non sente più l’assordante musica su pm3, o non avverte in “din din” di un email giunto sul pc: il tutto per il sol fatto che si tratta di una parola dissueta sulla  quale non si è abituati a riflettere; tantomeno a portarcela dietro per strada o durante le riunioni aziendali, o mentre si insegna a cuori bambini come camminare nella vita, istruzioni comprese.

 

Non voglio essere retorica, ho solo creato un “quadretto” inserendo nella cornice dei fermo-immagine di quanto accade nella quotidianità, se solo si vuole vedere e si gira lo sguardo verso quello di un “fratello” volendolo guardare negli occhi.

 

Tuttavia, mi rifiuto di fermarmi a tale visione, direi concreta ma pessimista e ferma alla superficie.

 

La domanda posta da Alessandro Ramberti ad introduzione del tema per questa Kermesse fonte avellanita, cioè: “La scrittura, la poesia, la musica, l’arte possono attivare il processo del perdono, renderlo possibile?” , alla quale non voglio per il momento rispondere, mi ha portato alla radice, quale denominatore comune fra le diverse arti sopraccitate e di qualsiasi percorso relazionale fra esseri viventi: l’umiltà. 

 

Quasi non rendendosene conto, si affronta la giornata e ci si raffronta con le persone già partendo dal punto di vista di essere nel “corretto e nel giusto” rispetto a scelte o decisioni da prendere, sia lavorative e personali.

 

Una sorta di pensiero egocentrico, pretenzioso di compimento e/ o risoluzione a breve tempo con soddisfacimento del bisogno del piacere, a livello primario.

 

Quando per giungere a tale obiettivo ci si deve confrontare con altri punti di vista, derivanti da culture e vissuti molto diversificati e diversi dal proprio, è inevitabile la creazione di un attrito intellettivo e reattivo con l’interlocutore.

 

A mio avviso, l’errore principale che si verifica in tali circostanze è nello sguardo col quale ci si pone nei confronti dell’altro. 

Il ruolo, lo status sociale, la gerarchia rispetto a se stessi, l’origine etnica o il genere di appartenenza sono le prime evidenze che giungono agli occhi e li offuscano.

 

Non si riesce ad andare al substrato “dell’abito”: è una persona! Punto e basta!

 

Derivato dell’educazione occidentale, la quale ci ha creato strutture intellettive e interiori tramite il riscontro di se stessi  nello “specchio”che ne ricaviamo guardandoci nell’altro, lo sguardo “vede” principalmente quello che non ci piace: sia perché meno competente o perché troppo capace quindi un potenziale “competitore” a parità di “performance”; intesa non solo in senso pratico in ambito lavorativo o artistico, ma all’interno di dinamiche relazionali.

 

Uscendo dalla sfera psicologica, mi ricollego al concetto di umiltà.

 

E’ mia esperienza personale la consapevolezza della necessità e della bellezza di tale dote, direi di definirla così, donata da Dio e dall’umano accettata: ogni giorno ha in sé la bellezza d’imparare novità, magari già presenti per altri, di incrementare lo scrigno della conoscenza con pillole di saggezza esperienziale o informativa, comunque costituente il bagaglio da avvolgere con il “fiocco del cuore” e  da donare al mondo per contribuire a renderlo più vivibile a se stesso.

 

Più si diventa colti, informati, aggiornati e assetati di conoscenza, spero proprio siano tanti quelli così “ricercatori della vita” , in primis gli artisti, più non si deve perdere la radice dell’umiltà: rischio di essere ripetitiva, ma tale ancoraggio dà linfa all’accoglienza, alla pazienza, alla comprensione, al rispetto, all’amore e al perdono.

 

Farsi piccoli: la grandezza dell’amore.

 

Non ho inventato nulla, da cristiana ho scritto in parole povere quello che con maggior maestria si può leggere in uno stralcio dalla “Prima lettera di San Paolo ai Corinzi – Capitolo 1, 1-5; 1, 20-21, 1,26-31):

 

1Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, 2alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: 3grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
4Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, 5perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. 6

 

20Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? 21Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. 

 

26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. 27Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 28quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, 29perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. 30Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, 31perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.”

 

Capitolo 2, 1-5

 

1Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. 4La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”

 

Apparentemente tale scritto non ha nulla a che vedere con il perdono, ma a mio avviso, se si riflette onestamente, per la maggior parte delle persone, prima di considerare difficile perdonale, c’è la convinzione di un giudizio, e si presuppone la sua giustezza in base alla propria saggezza e conoscenza, giustificando tale ragione con il vanto di studi acquisiti o di esperienza “toccata con mano”.

 

Si chiude la porta all’ascolto, allo spogliarsi da se stessi, allo sguardo libero per voler e desiderare veramente la comprensione, prima ancora dell’altro, dell’importanza del dono del perdono.

 

Comprensione: secondo scalino per giungere al perdono.

 

Quando si ascoltano parole, proprie o altrui, per facoltà associativa o acuta e profonda elaborazione intellettiva si giunge quasi sempre a capire il senso e l’intenzione del dire altrui.

Da qui alla reale comprensione può “esserci di mezzo il mare” come un saggio detto ci insegna.

 

Ancora una volta l’errore sta nel punto di partenza: la mente.

Per quanto “potente” ha un limite umano, penso dato da Dio per non cadere nella superbia, di non accorpare il tutto.

 

Per poter comprendere occorre accettare l’altro, amarlo così com’è. Cioè consentire all’altro la libertà di essere se stesso, quello che è per madre natura.

 

Mezzo passo antecedente c’è la cortesia, cioè la giusta distanza fra la relazione di antipatia-simpatia. Quindi il riconoscere nell’altro la presenza del bene, pur nell’errore commesso, nel dolore che ci ha causato, nella momentanea cattiveria umana sprigionata.

 

 L’altro è’ sempre a Sua immagine, non dobbiamo dimenticarlo!! Pensiero da portare sempre in tasca!

 

Conseguentemente ogni persona è sempre unica ed irripetibile, sia nel bene che nel male.

Se si continua a guardare al mondo e quindi anche agli uomini che lo costituiscono e lo generano continuamente, concentrandosi solo sul male si dà forza ad esso con la superbia di chi è convinto di fare del bene, alla sola ragione di “sapere di saperlo”.

 

Stoltezza umana.

I quaranta giorni di Cristo nel deserto sotto la tentazione del demonio, sono una delle verità che possiamo far divenire la metafora della vita di ciascuno di noi.

 

A ciascuno accade di non essere soddisfatti per mancanza d’amore, la tentazione di riempire tale vuoto con ogni “ben di dio” come si dice, o con gesti che ne soddisfino velocemente la “fame”, con la gloria e osanna conseguente giunta dal “popolo attorno”.

 

Così pure a tal punto, nella “quarantena” le offese giunte da chi si ama, o da altre persone, quelle inflitte volutamente o anche involontariamente, per le quali non si ammette il dolore causato, tanto meno la responsabilità del proprio agito.

 

L’infantile aggrapparsi alle auto giustificazioni per le più svariate ragioni che danno forza e ragione a quanto causato, quasi come un diritto di rivalsa nei confronti dell’altro o a riscatto di una situazione simile pregressa, mai risolta e divenuta “bomba esplosiva di vendetta” col fratello, non sempre colpevole della vecchia storia.

 

Niente di tutto questo ci fa essere veri figli di Dio, se ci fermiamo nella fatica necessaria per dire “No!”

 

L’”arma fatale” è la preghiera, dialogo diretto con Dio, per chiedere aiuto.

 

Credo possa rinfrancare l’anima e farci sedere un attimo sul cuore per far penetrare nel nostro essere quanto fin ad ora emerso:

 

Di Madre Teresa di Calcutta: “Preghiera di riconciliazione”

 

O Gesù, mediante la tua passione, insegnati a perdonare / per amore, insegnaci a dimenticare come frutto di umiltà. / Aiutaci ad esaminare il nostro cuore e scoprire se c’è / qualche offesa non perdonata o qualche amarezza / non dimenticata. / Infondi in me lo Spirito Santo affinchè cancelli / ogni traccia di rancore. / Effondi il tuo amore, la tua pace e la tua gioia, / nei nostri cuori nella misura in cui ci libereremo / dall’autogratificazione, dalla vanità dall’ira e dall’ambizione. / Aiutaci a portare con gioia la croce di Cristo. Amen”

 

Di Rabindranath Tagore (grande poeta indiano – premio nobel per la letteratura 1913): in occasione della consegna di Indira Gandhi della Laurea ad Onorem  a Madre Teresa di Calcutta

 

“Così ti prego, o Signore, colpisci alla radice / la povertà del mio cuore./ Dammi la forza di sopportare serenamente / le mie gioie e i miei dolori. / Dammi la forza di mettere a frutto il mio amore nel servizio. / o piegare le ginocchia di fronte all’insolenza del potere. / Dammi la forza di sollevare la mia mente al di sopra / delle piccole miserie di ogni giorno. / E dammi la forza di abbandonare la mia forza / alla tua volontà con amore”.

 

Non può mancare Mahatma Gandhi con: “Siamo una cosa sola

 

“Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Abbiamo tutti le stesse deficienze e siamo figli dello stesso unico Creatore, in quanto tali, la potenza divina in noi è infinita. / Disprezzare un singolo essere umano è disprezzare questa potenza divina e quindi far torto, non solo a quell’essere, ma, con lui, al mondo intero. /L’amore è la forza più grande che il mondo possiede e tuttavia la più umile che si possa immaginare- L’odio può essere vinto solo con l’amore. / Opponendo odio a odio, non si fa che aumentare l’estensione e la profondità della cattiveria. / Il cuore che ama segue anche chi è errante, e ama a costo di restare ferito. / Il mio obiettivo è l’amicizia con il mondo intero, e io posso conciliare il massimo amore con la più severa opposizione alla giustizia”.

 

Ad ulteriore riflessione aggiungo, così come Papa Francesco ha esortato la Chiesa e noi singoli testimoni e discepoli, occorre “uscire ed annunciare”, cioè mettere la persona al centro delle situazioni, in modo che non siano quest’ultime a travolgerla ma siano al suo servizio perché ella possa compiere quanto il “disegno” prevede, la gioia di vivere infonde e l’amore fertilizza.

 

Il tutto nella quotidianità e nella semplicità degli accadimenti, ovunque, a partire da quando la mattina si sale sull’autobus, si arriva a scuola o si scende per andare al bar per godersi la colazione, o si sale in ufficio per “provvedere agli obiettivi ed investimenti”.

 

Grande “investimento” per se stessi e per la società è affrontare ciò che ogni giorno ci riserva, mai in realtà uguale a quello precedente o seguente, con l’apertura al fratello, al bisogno che si ha di lui e Lui per costruire insieme la giornata e disinnescare la miccia della guerra, discordia, divisione diabolica.

 

Per tutto questo occorre stare in mezzo alla gente, non per proselitismo ma per farsi proposta di unione e di condivisione d’amore, nei piccoli gesti, nel sorriso.

 

Se qualcuno ci ha offeso brutalmente, magari davanti a testimoni, la migliore “offesa”  e risposta è il silenzio, lo sguardo nell’occhio dell’altro ed andare via con un sorriso. Dentro di sé pregare e dirsi “Padre perdona”.

 

Nella mancanza d’amore, nell’offesa ricevuta, nel “fango giunto addosso” c’è tutta la miseria e la debolezza simboli della fragilità alla quale nessuno è “esente”.

 

E’ vero, la dignità richiede anche il farsi rispettare, ed il lasciarsi offendere pare sia contraddittorio a tale concetto. Tuttavia la concitazione emotiva impedisce l’ascolto e la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprendere le ragioni di gesti non positivi.

 

Continuare lo scontro verbale mette benzina sul fuoco. La pazienza e l’attesa del tempo debito sono alcuni dei componenti “antidoto” alla discordia.

 

Saper attendere implica riconoscere la grandezza che è nell’altro, visibile o invisibile ai nostri occhi, ed accettare anche la risonanza del nostro essere piccolo; diversamente non costituirebbe un motivo di scontro. Goethe affermava che di fronte alla grandezza “esiste una solo autodifesa: l’amore”

 

Nel “renderci fratelli in Cristo” ci è stata data l’opportunità di saper riconoscere i reciproci bisogni e le reciproche difficoltà, debolezze. Nel renderci unici e diversi, ci è stata data la possibilità e l’esigenza, nel libero arbitrio, di aver bisogno l’un l’altro per completare sinergicamente la beatitudine in questa vita a “antipasto” di quella futura.

Nella fatica dell’incontro, nel rispetto reciproco, nell’uscire dall’io egoistico, nella forza della temperanza, è la scala per giungervi. L’amore è il collante del “puzzle umano”.

 

L’amore implica il rispetto. Dio per primo ce lo ha insegnato creandoci liberi di seguire i suoi insegnamenti o meno.  Pur nella Sua potenza, può salvarci solo se lo vogliamo.

Fino all’ultimo fiato ci accoglie e ci libera.

 

La nostra libertà, la cui massima espressione è il perdono, è accogliere Dio.

 

Dal Libro “5 minuti con Dio”  (ed.Piemme) di Enzo Bianchi fondatore della Comunità Monastica di Bose alcune piccole “schegge di fede”

 

Prima scheggia: (pag 8) Il tuo volto io cerco

 

Dal Salmo 27, 8-9

“Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto” / Il tuo volto, Signore, io cerco. / Non nascondermi il tuo volto.

 

Credo che se in tasca, oltre a tenere “L’altro è a Sua immagine”, mettiamo anche le parole appena citate, il calore dell’amore inizia a diffondersi in tutta la persona e solleticarlo anche nell’incontro con l’altro noi.

 

Seconda scheggia: (pag. 69) L’amore per i nemici

Dal Vangelo di Matteo: 5, 43-45 

“Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e /odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del /Padre vostro celeste.

 

Aggiungo un ulteriore passaggio, fuori “scheggia” , da me ritenuto pertinente

 

Dal Vangelo di Matteo: 5, 25-26

Mettiti d’accordo col tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!

 

L’invito alla riconciliazione prima di accostarsi alla Eucarestia, fonte di rinnovamento spirituale, richiama la nostra onestà di anima e coerenza di cuore col Padre.

E’ riconoscere il nostro bisogno di essere perdonati, innanzitutto dalla fonte dell’Amore, solo così riusciamo a fare lo stesso con gli altri.

 

Si potrebbe scrivere una relazione solo su questo concetto, mi fermo qui.

 

Ritornando sul silenzio ed il suo uso nei momenti di diatriba, oltre all’aspetto di fortezza ed intellettuale, desidero sottolinearne quella spirituale, quale forma di Parola Alta.

 

Ecco la terza “scheggia”: (pag. 79) Confidare nella Parola

 

Seconda lettera a Timoteo (2, 3-10)  stralcio

“………Cerca di comprendere ciò che voglio dire; il Signore  certamente ti darà intelligenza per ogni cosa. Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.”

 

In pratica ci ricorda il silenzio della Croce di Cristo.

 

Penso possa far risonanza, in base a quanto condiviso fino ad ora, la mia poesia “Croce di vita” in prossima uscita:

 

CROCE DI VITA

 

“Una scheggia della Croce / incide la carne / il senso della vita / sfida la morte / il tempo incatenato incespica / incatenato fra le indefinite ore / di viscerale metamorfosi / come pietre fondanti / il pane della fortezza / ed il vino della temperanza / rinvigoriscono la speranza / una nuova vita si alza / a piedi nudi cammina sui sassi / con mani riconoscenti accarezza / l’infinita amicizia di spirito e amore intrisa / del sangue del suo sangue il prodigarsi / di anime amate nel cuore incastonate la presenza / della fonte getti d’amore dissetanti.”

 

A proposito di ascolto, parola e silenzio, desidero fare omaggio  Katia Zattoni, amica e poetessa forlivese, ancora giovane quando è salita al Padre, con sue due poesie estratte da “Bucare la polvereed L’Arcolaio

PAROLE ASCOLTO

 

Parole sulle pareti rimbalzano / e io in mezzo mi siedo / a gambe incrociate; / aspetto / ascolto./ Ascolto le parole che più forti / rimbalzano / e che strapiombano / al centro / dove mi trovo / dove mi trovano / col viso tra le mani / in ascolto / in attesa. / Ascolto le parole che più forti / rimbalzano / e che mi feriscono / come unghie di feroci dottrine. / Non riesco a fluidificare i flussi, / – non posso lenire i graffi / profondi schizzi di suoni / lacerazioni di sillabe / al centro dove mi trovo / dove mi trovo seduta / con gli occhi chiusi -. / Anche questa mattina / parole sulle pareti rimbalzano / al centro della cucina / dove mi trovo, / dove mi trovano / seduta preda pentita / ad occhi aperti /, muovo0 le mani per trovare / parole che ascolto / per bloccare / le parole che ascolto / A stento muovo passi: / esco e col silenzio mi riparo.”

 

Emerge fortemente la violenza e la mancanza di rispetto, nel luogo reputato più protettivo e rassicurante quale è la propria abitazione o nucleo familiare; è uno dei tanti esempi, credo i più taciuti, presenti nella quotidianità di molte persone, senza differenza culturale.

A testimonianza della comunanza dell’umano alle diverse debolezze dalle quali sorgono soprusi, ed altro per i quali l’anima del ferito e quello dell’accusato necessitano di perdono.

 

Molto spesso l’artefice dell’atto maldestro ha il cuore più ferito della vittima stessa, vittima a propria volta di mancanza d’amore.

 

Altre considerazioni, e ce ne sono a diverso livello, le lascio al lettore.

 

Un flash positivo a scuotimento di dal pensiero di divisione: dal medesimo libro di Katia Zattoni “Bucare la polvere”

 

QUELLO CHE CI UNISCE

 

Perfidia degli esercizi di felicità:/ quello che ci unisce. / L’accoglienza d’ogni delusione”

 

E’ un invito a continuare con fiducia e pazienza ad accogliere l’altro così com’è e anche le situazioni che la vita ci riserva, un esercizio quotidiano al quali ciascuno è sottoposto per giungere a compimento e completamento della propria strada terrena.

 

Ulteriore invito all’amore

 

Oso utilizzare la stessa irruenza dell’aggressione, normalmente vista solo dalla parte negativa, parlando della potenza dell’amore e di donarlo proprio ad antidoto contro lo spargimento di sangue, il terrore e la distruzione presenti sempre più spesso nelle strade di città, in precedenza vissute come bellezza da ammirare, cultura da conoscere e diversità da condividere.

 

Sono molto contrariata sulla modalità mediatica con la quale si riportano fatti ed accadimenti o presunti tali circa le circostanze collegate a fondamentalismi islamici o a ribelli contro il mondo intero.

 

Desidero riportare il pensiero degli operatori della comunicazione e di chi li governa al dovere morale e deontologico della propria professione in esecuzione della “mission” sottostante al loro operato; mi riferisco al trasmettere fatti ed immagini nel massimo della coerenza ed adesione ad essi stessi e con un linguaggio trasparente sull’evento ma con la modalità comunicativa dei messaggi che tenga conto di  non esacerbarne l’enfasi, creando così discrepanza fra i fatti ed il vissuto che di questi ne giunge a chi ascolta.

 

La negatività di fatti di violenza e di guerra, non è solo in essi, ma nel pensiero che si genera su di essi e la distruzione di prospettive future di un possibile cambiamento, togliendo agli ascoltatori la volontà di mettersi in gioco perché ciò accada e dare fiducia alla nuova generazione e a ciò che di positivo esiste.

 

Tutto questo è nel rispetto di chi pone fiducia sulla realtà e veridicità di ciò che ascolta oltre all’educazione alla popolazione tutta, non solo i giovani, in considerazione che tale diritto è valido fino all’ultimo fiato disponibile.

 

Credo che faccia parte dell’aspetto deontologico  riportare, anche pur  per uno solo, fatti di solidarietà umana, di tentativi di aiuto, di coraggio da parte di coloro che non hanno voce perché non “fanno odiens”.

 

La conoscenza è un diritto civile che dona la libertà alla persona permettendole di scegliere da che parte stare, quale possa essere la strada migliore per “sapere da che parte va il mondo” e dove invece si ha progettualità di vita perché possa essere migliore.

 

Conoscenza, come dono d’amore, aiuto per poter poi perdonare, comprendendo le ragioni prima non conosciute, la cultura di appartenenza ed il conseguente diverso valore attribuito a quelli che sono i capisaldi del buon vivere comunitario.

 

Così facendo ciascuno ha la possibilità di conoscere meglio anche se stesso, imparando poi a sapersi perdonare.

 “Amore Kamikaze” inserita nel prossimo libro “L’amaca dell’abbraccio dissetante:

 

“ora, adesso, in questo attimo/ sfodera il tuo amore dal petto / guarda vibra sobbalza zampilla/ sui volti da sibili di morte sbigottiti / colora di azzurro e di rosa / la loro linfa / speranza per l’anima di persone attonite / spezzate alla ricerca del respiro di parte di sé / nel frastuono di voci omologate, atone / nella sopravvivenza corrono / le anonime spalle urtano nell’indifferenza / i corpi non veduti inermi nel terrore congelati / fuggono inciampano in schizzi di morte, di vite stroncate / ora, adesso, in questo momento / puoi annientare tale nefasta onnipotenza, malignità / porgi la vera arma dal petto / da niente scalfita, la tua dignità / la certezza della libertà / anima sempre viva nell’Amore / nella poesia, pietrifica la violenza ignorante / di kamikaze morti nella loro essenza / polvere putrida alla Sua presenza / la forza di cuore-mente nascente si fa esplodere / nel mondo come fuochi d’artificio / irradia fratellanza, conoscenza pace / nuovi respiri d’amore”.

 

E’ impossibile modificare il corso degli eventi la conversione dei cuori senza saper attendere, avere la pazienza necessaria perché il seme dell’amore continui a dare frutti, con i tempi non nostri. 

 

Il crederci perché la certezza nasce da verità interiore resa salda da esperienza, testimonianza altrui, è l’acqua con cui annaffiare i semi, la preghiera è l’humus.

 

Nessun essere umano nasce col cuore arido, kamikaze o con la voglia di uccidere; in un certo senso si è un po’ tutti responsabili della negativa metamorfosi accaduti ad alcuni, meno forti nella fede, quando non del tutto lontani da essa, o mal amati per non dire vissuti nell’indifferenza.

 

E’ difficile avere il coraggio di chiedere ai genitori dei ragazzi uccisi poco tempo fa a Manchester di perdonare chi ha commesso tale terribile gesto. Forse questi ultimi hanno la stessa età dei loro defunti figli.

 

Tuttavia ci sono testimonianze di altri situazioni datate di qualche anno, dove il perdono è stato possibile, trasferendo l’amore di madre non solo sul proprio figlio, ma su chi ha commesso il delitto, cioè uscendo da se stessi, grazie alla fede e pazienza.

 

Ogni persona ha tempi diversi per giungere ad un reale cambiamento, ha la necessità di ricadere più volte nei propri errori prima di saper “reggersi sulle proprie gambe” perché la stampella l’hanno nel cuore.

 

Occorre un profondo amore per la vita, che paradossalmente la si ha quando la si sta perdendo, e questo non accade solo quando le membra sono lacerate, ma anche quando cammini per strada e l’abbandono ed incomprensione sono l’unico “pane” per nutrirsi.

 

La maturità dell’uomo inizia quando si accetta se stessi così come si è, certi che anche Dio ci ama allo stesso modo; se i genitori terreni o le persone del cerchio intorno a noi non possono fare altrettanto, non sempre è per non amore, ma semplicemente per un loro limite. Accettarli così come sono, con la speranza e pazienza necessari perché il seme dell’amore germogli, sono i primi passi per giungere al perdono.

 

Una testimonianza, da me ritenuta importante, è possibile viverla tramite le parole di Suor M. Faustina Kowlska. Fu canonizzata Santa da Papa  Giovanni Paolo II il 30 aprile 2000. ecco uno stralcio dell’omelia del Santo Padre dal “Diario” Editrice Libreria Vaticana:

…..Dalla Divina Provvidenza la vita di questa umile figlia della Polonia è stata completamente legata alla storia del ventesimo secolo, il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. E’, infatti, tra la prima e la seconda guerra mondiale che Cristo le ha affidato il suo messaggio di misericordia. Coloro che ricordano, che furono testimoni e partecipi degli eventi di quegli anni e delle orribili sofferenze che ne derivarono per migliori di uomini, sanno bene quanto il messaggio della misericordia fosse necessario.

Disse Gesù a Suo Faustina: “L’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia” (Diario pg. 132). Attraverso l’opera della religiosa polacca, questo messaggio si è legato per sempre al secolo ventesimo, ultimo del secondo millennio e ponte verso il terzo millennio……….. il Vangelo della Pasqua, per offrirlo come un raggio di luce agli uomini e alle donne del nostro tempo…..”

 

Si può dire a pieno titolo che ancora ai giorni d’oggi nulla è cambiato, siamo di fronte ad una terza guerra mondiale a pezzetti; oggi più che mai il mal uso delle tecnologie e il desiderio di onnipotenza stanno distruggendo il buono dell’uomo.

 

Ma per chi crede in Cristo nulla è impossibile, quindi…

 

Esorto ad ascoltare col cuore  due stralci dal “Diario”:

 

“……- L’anima: “Signore, le mie sofferenze sono così grandi, diverse e durano da così lungo tempo, che lo sconforto si è impadronito di me”:

 

 

  • Gesù “Bambina Mia, non bisogna lasciarsi prendere dallo sconforto. So che confini in Me illimitatamente, so che conosci la Mia bontà e Misericordia, perciò potremmo parlare dettagliatamente di tutto ciò che ti pesa maggiormente nel cuore”
  • L’anima: “Signore, ecco ancora un altro impedimento ed un ostacolo sulla strada della santità. Mi perseguitano perché Ti sono fedele e per questo motivo mi fanno soffrire”
  • Gesù: “Sappi che siccome non sei di questo mondo, il mondo ti odia. Ha perseguitato anche me. Questa persecuzione è il segno che segui fedelmente le Mie orme”
  • L’anima: “Ancora una cosa, Signore. Cosa fare quando vengo disprezzata e respinta dalla gente e specialmente da coloro sui quali avevo diritto di contare e ciò nei momenti di maggiore necessità?
  • Gesù: “Bambina Mia, fa il proposito di non contare mai sugli uomini. Farai molte cose, se ti affiderai completamente alla Mia volontà e dirai: Avvenga di me non come voglio io, ma secondo la Tua volontà o, Dio. Sappi che queste parole, dette dal profondo del cuore, portano l’anima in un attimo sulle vette della santità. Per una tale anima ho una speciale predilezione, un’anima del genere Mi rende una grande gloria e riempie il cielo col profumo delle sue virtù. Sappi anche che la forza che hai per sopportare le sofferenze, la devi alla santa Comunione frequente, perciò va spesso a quella fonte di Misericordia ed attingi col recipiente della fiducia tutto ciò che ti serve”

 

 

Inoltre in una delle preghiere della Santa: “…….Non diminuire affatto le mie pene, ma dammi la forza di sopportarle. Fa di me quello che vuoi, o Signore, dammi solo la grazia di saperTi amare in ogni caso e in ogni circostanza. Non ridurre Signore, il calice dell’amarezza, ma dammi la forza di berlo fino all’ultima goccia”.

 

E’ una grande testimonianza di comunione col Padre e di cosa ciò significhi, a conferma che nulla ci è impossibile se ci affidiamo. Questo vale anche per poter giungere a perdonare prima di tutto se stessi e i nostri nemici.

 

Mi sembra un “seme” importante in tal senso riportare lo stralcio delle parole del Santo Padre emesse durante l’omelia del 23 aprile 2017,  domenica della Misericordia:

 “La Misericordia apre la porta del cuore e lo riscalda, lo rende sensibile alla necessità dei fratelli con la condizione e partecipazione,

Impegna tutti a essere strumenti di giustizia e di pace

Misericordia chiave di volta nella vita di fede e forma concreta con cui diamo visibilità della Risurrezione di Gesù

Maria madre di Misericordia ci aiuti a vivere con grazia tutto questo

La Misericordia è la porta che apre la mente e aiuta a  comprendere la vera conoscenza anche se la conoscenza la possiamo fare anche in altri modi: tramite i sensi, l’intimità l’intelligenza.

Le prime parole di Cristo risorto sono state:: Il perdono – le ultime che ha detto in crocifissione: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”

 

Su quanto citato si potrebbe scrivere un libro; mi limito a sottolineare un aspetto al quale nessuno è sottratto: per poter perdonare un fratello è necessario prima comprendere e perdonare se stessi, esperienza liberante. 

 

Rifletto su entrambi i verbi: “comprendere” se stessi, fatto non così scontato. Ciò che si crede essere parte di se stessi è il riflesso ed il costrutto di come vorrebbero gli altri che noi fossimo.

 

 Tale meccanismo sorto agli esordi della nascita, se non debellato da un vero e profondo amore avuto dalle figure di riferimento, è un “compagno di vita” per molte persone.

 

Chi ne è esente, e ci sono persone in tale senso, normalmente vengono vissute come inflessibili e di una speciale profondità e ricchezza interiore. 

 

In base alla mia esperienza queste caratteristiche sono “raggiungibili” per chiunque desideri conoscersi per conoscere, partendo dall’umiltà di essere sempre persona in divenire e dono; riconoscere i propri talenti e metterli a frutto fra cadute e risalite è un modo per prendere maggiore consapevolezza di sé. Il tutto condiviso ed arricchito con altri fratelli altrettanto dotati di talenti, apre la porta alla comprensione e, umilmente perdonare.

 

Perdonare se stessi: mi riallaccio all’ultimo mio concetto di umilmente perdonare. Infatti perdonarsi significa prima di tutto riconoscere di aver sbagliato qualcosa o fatto del male a qualcuno o non dato amore. E’ un giudizio dato a se stessi, per alcuni molto lacerante, sia perché è necessario dire “mia culpa”, sia perché si deve ammettere che ha avuto ragione qualcun altro: la superbia e l’egocentrismo non sono certo “gli aiutanti” per giungere al perdono.

 

Tuttavia, siamo stati creati con assoluto Amore così come siamo, anche in quegli angoli a se stessi conosciuti: questo è il comprendere di fondo al quale attingere per dirsi: “Padre perdona, non so quello che ho fatto. So che tu ci sei, prendimi per mano, sussurrami la via e sarò un raggio di Te”.

 

Spesso lo sguardo ed il giudizio negativo altrui hanno fatto perdere l’affetto verso se stessi e guardarci bene dal credere nella relazione con l’altro, la diffidenza entra in campo.

 

Accettiamo il fatto di essere amati incondizionatamente e prima delle opere da ciascuno compiute, sostenuti e stimolati dalla Sua parola. Se si accetta tale amore incondizionato allora abbiamo lo strumento per fare altrettanto rallegrandoci per il bene dell’altro, stimandolo per le sue capacità e le buone opere.

 

E’ importante sottolineare che nell’uomo la forza di perdonare non toglie il ricordo del fatto precedentemente accaduto. Dio perdona e dimentica. 

 

In assonanza con quanto scritto dalla mia prima raccolta poetica “Ogni istante” vi leggo la poesia “LONTANO SIBILO”:

“Parole, parole, parole /Orecchie ascoltano ma non capiscono / credono di essere verità / Il Tempo sembra tornare indietro / anche se il presente “vede” il futuro / Incredulità e Forza “nutrono” il cuore / che ogni giorno mostra sempre più la sua Grandezza / Aspettami, non abbandonare la strada. / Dentro c’è la certezza che lo  Spirito dona / Sapere / che Tutto è più grande di quello che è./ Solo il Dopo farà da testimone di ieri e di oggi: /odio, potere, perfidia, ipocrisia, “libidine usata”/ colpiscono l’Anima nel desiderare il suo scoppio. / Queste “armi” non sanno di essere “ubriache” della loro “sporcizia” / La Luce dissiperà il fango della menzogna / di “loro” non resterà che / un lontano sibilo / Signore perdonali.”

 

Il concetto di perdono implica anche un aspetto, quello di giustizia.

 

Nella visione laica la giustizia è “amministrata” da leggi, regolamenti e consuetudini atte a dare tutela e garanzia di iniquità per tutti di fronte a simili situazioni.

 

Nei tribunali queste sentenze sono spesso altisonanti di perfezione, ma chi gode dell’esito non è pienamente soddisfatto. C’è sempre qualche aspetto della situazione non valutato a pieno, o dai possibili diversi risvolti.

 

Regna l’insoddisfazione nelle pene e condanne inferte ai  colpevoli, o presunti tali, di reati.

 

Il fatto di apportare cambiamenti alle leggi ne alleggerisce o appesantisce la gravità del gesto commesso, crea un dato di opinabilità della giustizia. Umanamente parlando è necessaria una categorizzazione dei fatti in modo da poter avere parametri e legislazione abbastanza adeguate per farvi fronte.

 

Da quanto acquisito da esperienze vissute da altri non mi pare che i cuori di entrambi le parti coinvolte in giudizio abbiamo, il più delle volte, la risposta attesa. Il denaro modifica i tempi, la tipologia di condanna o di non condanna.

 

A mio parere è una consuetudine che non merita parole.

 

Ritengo importante spendere due parole anche su un altro tipo di religione, molto presente anche nella nostra realtà, per darne spunto ad una riflessione su quella normalmente presentata tramite ideologismi e notizie mediali.

 

Rimane sempre attuale il detto “Tutto il mondo è paese”.

 

Anche nella seconda religione monoteista, quella musulmana, il Perdono e la Giustizia hanno una rilevanza importante per i suoi credenti.

 

Il Corano, base e fondamento dell’Islam, è al tempo stesso un trattato teologico e un codice di Giurisprudenza.

 

Il senso di giustizia è quindi strettamente connaturato al senso religioso.

 

Riporto un estratto di un intervento del 28/10/2014 del Maestro Sufi, Gabriele Mandel Khan Vicario generale (khalifa) per l’Italia della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti fondata a Istànbul nel 1704.

 

I Sufi sono parte integrante della Storia delle religioni; i Sufi sono i Puri. Se chiedete a uno di loro se è un Sufi non sentirete mai dire di sì, perché chi lo é, per modestia non lo dice.

 

IlSufismo o Tasawwuf  è la forma di ricerca mistica della cultura islamica. Il sufismo viene a volte definito come l’unione antica del Cristianesimo e del neoplatonismo, che diede vita ad una forma di ricerca interiore, il misticismo dell’Islam, è la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, anche se il sufismo utilizza concetti derivati da fonti tanto greche come persiane antiche e indù.:

 

“IL PERDONO – …..Il Corano insiste particolarmente sul fatto che il peccato (2^, 4^ e 71^ sura) può ottenere misericordia da Dio. “Secondo il mio ardente desiderio, dice Abramo, Egli perdonerà i miei peccati nel Giorno del Giudizio (Sura 26). Dio accetta il pentimento e assolve ai peccati; e li perdona del tutto. Uno dei 99 nomi di Dio il 60° è il Perdonatore (Colui che torna al peccatore); il 15° è l’Indulgente, ossia il Perdonatore che non cessa di perdonare); il 35° è il Clemente, cioè è il Perdonatore benevolo..

Ogni azione del musulmano inizia con l’invocazione “nel Nome di Dio, Colui che è Misericordioso, Colui che fa misericordia”.

 

Nelle cinque preghiere canoniche quotidiane il federe si prosterna toccando il suolo con la fronte (e il naso) e in questa posizione pronuncia per due volte la formula Tawha: “Signore, sono stato gravemente ingiusto verso me stesso, e nessun altro che Te può assolvere i miei peccati. Assolvi i miei peccati e fammi misericordia. Tu sei il Perdonatore e il Misericordioso per eccellenza”.

 

Inoltre, in un altro stralcio del medesimo testo…..”Il peccato è una violazione (per una causa terrena e quindi effimera, quale la sensualità, l’interesse egoistico, ecc) d’una legge istituita da Dio e quindi eterna. Commesso da un essere finito ha una gravità infinita poiché offende Dio che è infinito. Ma Dio nella Sua onniscenza, nella Sua misericordia, nella Sua saggezza e nella Sua bontà lo può perdonare. ………Il Corano precisa nella 4^ sura: “Spetta a Dio accogliere il pentimento di quelli che fanno il male per ignoranza, e a volte si pentono; ecco: da loro Dio accoglie il pentimento”. Ancora (39^ sura) “Non disperate della misericordia di Dio. Sì, Dio perdona tutti i peccati, perché Lui è il per donatore, il misericordioso”.

……due peccati comunque non otterranno il perdono: l’idolatria e il suicidio consapevolmente voluto.

 

Mi fermo qui, l’argomento è molto ampio; ho tentato di darne una visione focalizzata su alcuni aspetti dei quali nella quotidianità se ne sente parlare in maniera diversa, spesso con enfatizzazione negativa, ciò in funzione della poca conoscenza di chi ascolta.

 

Penso sia giunto il momento di rispondere alla domanda di Ramberti di cui ho accennato in precedenza, cioè: “La scrittura, la poesia, la musica, l’arte possono attivare il processo del perdono, renderlo possibile?”

 

La mia risposta è sì.

 

In tutte le arti succitate c’è l’espressione di un’epoca e del vivere dell’uomo, anche il non vivere. La parola è lo strumento dell’uomo per esprimersi, ma non sempre è quello più efficace a far penetrare il messaggio.

 La parola poetica, in quanto mistero in se stessa, è potente in tal senso e la ritroviamo anche nelle altre arti figurative o artistiche.

 

Queste ultime a loro volta sono espressione di un’essenza che fa risuonare dentro alla mente e al cuore le parole non dette. Le icone nelle chiese ne sono esempio.

Le sculture, i dipinti sono rappresentazioni di una miscellanea fra soggettività, realtà, immaginazione, tecnica artistica, esperienza, visionarietà, urli taciuti, progetti di vita.

 

Esprimersi tramite di essi è una modalità comunicativa e di relazione che pone la bellezza in senso lato come prima parola, la quale fa sfumare i vapori della bruttezza di alcuni pensieri, intenzioni di inimicizia anche fra popoli di diversa cultura.

Il secondo livello è quello di riportare l’uomo ad assaporare, toccare con mano quanto di culturale e di simile in tale ambito con la propria possa esserci; l’arte come specchio di se stessi nel proprio mondo.

Questa conoscenza aumenta la comprensione, si inizia a dialogare, con parole poetiche si dice la realtà delle cose e dell’essenza di esse, per tradurla con la pienezza della sua essenza parlando della vita, di valori e dei bisogni dell’uomo, per primo l’amore.

 

Dove c’è amore c’è misericordia e perdono.



la pienezza della tua impronta

nell’acceso ricordo

di parole intimamente sentite

 

in silenzi eloquenti



tanto tempo fa, 

forse ieri, un figlio è nato

parole perdute

 

felicità non posseduta

dono ricevuto

per il mondo


Mia lettura del romanzo “IL CONTAGIO DELL’AMORE” della scrittrice e poetessa Lucrezia Lerro – Edizioni San Paolo 2016

 

La prima sottolineatura al testo dell’opera “Il contagio dell’amore”, il cui spunto in parte nasce da vita realmente accaduta alla protagonista, è la bellezza racchiusa in uno scorcio di vita, apparentemente normale, in un contesto di guerra, di morte e mancanza di un progetto di vita. 

 

Tale ritaglio di un momento altro della quotidianità, con una trama importante per una lettura positiva degli attimi di vita nella vita, fa sì che di essa venga sottolineata la pienezza di senso.

 

I protagonisti della storia sono: Etty, una ragazza ventisettenne, di salute cagionevole, timida, riservata e profonda, che vive con i genitori in un contesto familiare contraddittorio fra amore, forti litigi e incomprensioni. Il secondo protagonista è Julius Spier, un terapeuta ebreo cinquantaquattrenne, due innamorati.

 

Lui piuttosto introverso, tace l’amore intenso per lei; di lei gli piace la schiettezza del suo dire senza preoccuparsi del giudizio altrui; inoltre egli gradisce il fatto che Etty ”avesse messo al centro della vita l’amore, un sentimento che viveva come slancio verso gli altri, come intuizione di fondo dell’esistenza” (pag. 37). 

 

Ed ancora di lui a pag. 38: “Etty aveva mani bellissime, mani che raccontavano una storia d’amore e di guerra. Avrebbe voluto portarle al suo viso, alle sue gote, alle sue labbra. “Dolci mani, dolci labbra” pensò tra sé”.

 

Si tratta di una storia d’amore molto particolare.

 

Ad incipt del romanzo, dal diario di Etty Hillesum viene estrapolato: “I fatti esterni non bastano per capire la vita di una persona: bisogna conoscerne i sogni, il rapporto con la famiglia, gli stati d’animo, le delusioni, la malattia e la morte”. 

 

Si tratta di una frase molto intensa, di forte impatto emotivo,  fa riflettere sull’opportunità di  fermare un attimo il passo del correre quotidiano e guardarsi meglio intorno, i volti e le persone con le quali  si condivide parte del prezioso tempo, compreso quello trascorso con se stessi.

 

Il lettore viene trascinato in un’anteprima del romanzo, come con un avvertimento circa la chiave introspettiva del romanzo stesso e di come tale chiave possa essere utilizzata da chiunque s’immedesimi in esso e nella propria vita.

 

Il testo è ricco di particolari sui luoghi e gli oggetti presenti nelle diverse scene o fuori da esse, spesso utilizzati per creare maggiore tensione fra la descrizione di un’emozione, un pensiero e l’azione conseguente, oppure per interromperla prima di rispondere  ad una domanda impegnativa di uno dei personaggi.

 

Il linguaggio è semplice ma ricco di aggettivi, verbi transativi ed esplicativi del senso profondo di uno stato d’animo; le frasi hanno la brevità necessaria per un’incisiva immedesimazione nella trama.

 

Le emozioni più intense, quali, ad esempio, la paura vengono rese palpabili e al contempo esorcizzate descrivendole tramite il sogno, esternandole così da se stessi per acquisire maggiore forza su di essa. 

 

Un esempio lo si può leggere a pag 23 del testo quando Etty scrive a margine di un foglio di un sogno e la sua paura della seconda Guerra Mondiale, come un segno divino col quale dimostrare che il popolo ebreo (al quale ella appartiene) è “l’espiazione del peggior giudizio umano”:

 

 “Le labbra erano vicinissime, le mie e le sue si sfioravano. Ci siamo baciati. Ai piedi di lui una sacca di libri. Aveva degli occhiali bellissimi di una forma mai vista. – Mi ami? – aveva domandato arrossendo.- Si, ti amo, – avevo risposto aprendo la sacca di libri. Balzac, il nome sulla copertina del libro che stringevo tra le mani. Ho aperto il libro a caso e ho detto “de Rastignac. Il sogno è finito così, una volta sveglia ho pronunciato a voce alta il nome del personaggio di Balzac. Che cosa vuol suggerirmi l’inconscio? Perché quel personaggio del romanzo di Balzac? Che cosa rappresenterebbe per me de Restignac? Indagherò. Buonanotte.”

 

Il suindicato testo è anticipato dalla paura di Etty per i nazisti, sentiva le minacce del nemico, aveva bisogno di sicurezze che a volte si trovano nell’abitudinarietà delle cose e dei gesti. Le domande sul sogno, sul personaggio e sul bisogno di amore ricambiato sono una analisi introspettiva a tutti gli effetti.

 

Ed ancora a pag. 24: “ La strada era deserta, da diverse ore non c’era anima viva in giro, Un silenzio totale riempiva la stanza e gli spazi circostanti, lei si avvicinava in punta di piedi alla sua notte. Nell’oscurità che aspettava avrebbe potuto riflettere su cose che durante le ore di luce le sarebbero sembrate insignificanti, mentre il buio era la lente d’ingrandimento dell’esistenza. Il buio la copriva dalla testa ai piedi. Intorno a sé ogni cosa sembrava sparire dalla stanza e poi sarebbe riemersa man mano che l’oscurità si fosse dileguata con l’arrivo inevitabile del giorno. Ma nel frattempo intorno al suo corpo disteso, prima che la luce opaca di Amsterdam balzasse alle sue finestre, tutto era preda di una speciale sospensione. Lei in carne ed ossa, le pareti della camera, la sedia, la scrivania, i fogli. La preghiera appesa al muro che diceva: “Dio è al centro della vita. Dio si trova, io lo troverò”.

 

Dello stralcio suindicato si potrebbe scrivere un libro, data l’intensità emotiva che da esso traspare messa in evidenza con i dettagli quali “Prese il foglio tra le dita, lo rilesse con attenzione. Lo piegò in due e lo ripose sotto il cuscino”: la descrizione del movimento, la specificità del luogo, il cuscino, nel quale riporre l’oggetto che rappresenta un pensiero, una parte di sé, forse quella più insicura piena di paure e di sensazione d’abbandono da parte della sicurezza nelle circostanze e situazioni di vita; si potrebbe parlare di oggetto transizionale?

 

Inoltre la modalità di scrittura molto attenta ai particolari ha fatto sì che anche un “oggetto” naturale quale il buio possa avere movimento nel suo essere presente nel mondo, tanto da divenire “lente di ingrandimento”, con un’azione molto attiva ad amplificazione della percezione corporea in funzione dello spazio col quale viene circondato. Sentire più profondamente e vedere meglio, in un’ossimorica visione della realtà interiore ed esteriore. La vita in “rilievo”.

 

Il richiamo alla ricerca di Dio ed agli aspetti di speranza legata alla sfera religiosa è molto forte in numerose parti dell’opera. Nella frase a chiusura dello scorcio suindicato “Dio è al centro della vita. Dio si trova, io lo troverò” è contenuta la speranza, la certezza della verità della propria affermazione, la voglia di vivere nella ricerca divina, l’unica assoluta certezza che solo Dio non l’abbandona. 

 

Inoltre, il dettaglio della preghiera appesa al muro è in evidenza per essere ricordata nei momenti di disperazione, così come in quelli di gioia, di grazia.

 

Direi che la descrizione stessa nel testo è a propria volta una preghiera.

 

La trama dell’opera mette in risalto alcuni dei valori fondanti la coerenza e la lealtà sentimentale nel rapporto di coppia ed anche in quello genitoriale. 

 

La litigiosità dei genitori di Etty viene percepita e vissuta dalla protagonista come coerenza con un vero pensiero divergente fra i coniugi e non come una meschina bugia o modalità di aggressione tipica di chi sa di aver intenzione o già provveduto al tradimento del proprio partner con uno “di passaggio”.

 

A mio parere, il messaggio “letto tra le righe” del libro di purezza di sentimenti, di ricerca di Dio, delle debolezze umane ma non per questo rassegnazione ad esse ed altro ancora sono  molto importanti: il libro ha una vita propria e non si conoscono gli occhi che vi poseranno le proprie emozioni e la lettura della propria storia.

 

Si può dire che nella scrittura del testo si sia tenuto conto anche di questo non secondario aspetto letterario.

 

Un altro scorcio interessante a pag. 33 e 34: “La musica era per lei quanto di più vicino potesse esserci a Dio. Il silenzio, le note, la luce e l’ombra. La musica era per Etty l’aura divina, la penna sul foglio, l’inchiostro, la preghiera notturna. La musica era silenzio, era possibilità di innamorarsi del silenzio. Le note di Beethoven si sollevano al buio, nella mia stanza. Mi ricordano che sono un essere umano fatto di passioni, paure, attese, desideri, sogni. Sono un essere che anella all’amore. Amore è analgesico, preghiera, rimedio, perfezione.”

 

Il richiamo al divino tramite i doni dati al mondo, quali la musica. Musica come vibrazione a quelle interiori, “culla” per le emozioni. Ed ancora, la musica come compagna nei turbini dei pensieri che prendono corpo in autonomia, quando meno ce lo si aspetta, per poi condurli sull’onda delle note e farli andare via. Riamane solo il silenzio, col sorgere della pace e silenzio interiore. 

 

Di nuovo ci si trova di fronte all’uso della metafora dell’ossimoro silenzio-note, luce-ombra ad esaltazione della loro reciproca necessità ai fini della propria esistenza.

Il richiamo agli oggetti per indicare, in realtà, l’uso di essi per giungere a ciò che per la protagonista, e forse anche l’autrice, rappresenta il non plus ultra, la propria essenza, la rappresentazione di sé stessa: la scrittura.

 

L’essere riconosciute persona ed essere amate sono il bisogno viscerale umano. Ma fra i bisogni viene messo anche l’obiettivo di raggiungere l’amore divino, perfetto.

 

Inoltre, ritornando al silenzio, esso può essere il risultato di un profondo ascolto; silenzio del quale ci si può innamorare se esso rappresenta l’ascolto di qualcuno considerato speciale, come si legge a pag. 42: “Bisogna imparare ad amare ascoltando, facendo sì che il paziente possa avere il tempo di innamorarsi del silenzio del terapeuta”.

 

Il richiamo all’introspezione è di sottofondo a tutta l’opera; a pag. 44 si legge:

Etty ripensò ai loro momenti, quando prima di uscire da casa aveva appuntato sul diario “tre strade, un canale e un ponticello mi separano da lui”. L’osservò dalla testa ai piedi e sentì che le mancava l’aria. Lui le piaceva al di là della relazione terapeutica che li legava; lei era lì per conoscere meglio la parte profonda di sé stessa, il suo “Dio”. Ma esplorava e criticava se stessa a partire da Julius o da Etty? Quell’uomo era tutto per lei, le aveva consigliato di leggere l’Antico e il Nuovo Testamento, le aveva detto che tra le pagine avrebbe trovato risposte e fede, amore e accoglienza. Le aveva detto che si poteva guarire da ogni male: dai dolori e dai dispiaceri; dalla malinconia e da qualsivoglia forma di pazzia; perché tutti sono pazzi, e tutti sono sani a modo loro. Lui che non apparteneva a nessuna scuola di pensiero psicoanalitico ma che pur aveva abbracciato il concetto di individuazione di Jung, sapeva che bisognava accompagnare il paziente per un lungo viaggio al termine del quale lo aspettava ciò che era destinato ad essere, e questo destino secondo Spier era scritto nelle linee delle mani.”

 

Tale stralcio dell’opera può essere inteso quale elemento rappresentativo dell’opera stessa con varie chiavi di lettura. 

 

Dal punto di vista letterario, l’intensità emotiva della protagonista viene messa in risalto tramite frasi non troppo lunghe, con un linguaggio sintetico, molto ricco di particolari sia ambientali che di movimento corporeo, con la presenza di alcuni aggettivi diminutivi (ponticello) a evocazione del contesto, ma anche della infantile emotività del personaggio. Il lettore entra nella scena e nello stato d’animo della trama. 

 

Dal punto di vista religioso, si fa richiamo ai testi fondanti la religione cristiana cattolica, alle fondamenta della fede e della conseguenza di essa nel rapporto con gli altri.

 

Guardando al testo dal punto di vista antropologico, vi è la riflessione sulla condizione umana di difficoltà nell’affrontare la vita, il rapporto con se stessi e con gli altri con la conseguente presenza di dolori fisici ed emotivi, e difficoltà di comprensione.

 

Elementi che accomunano qualsiasi essere umano, pur appartenendo a diverse tipologie culturali, tradizioni e mentalità; il giudizio su una specifica appartenenza piuttosto che ad un’altra viene neutralizzato, così pure relativizzando il concetto di pazzia o di salute mentale.

 

Le domande che la protagonista di pone, sia quelle di curiosità, sia quelle di autoriflessione sui propri passi o cadute, così come per quelle mistiche inducono al cammino verso una maggiore consapevolezza del proprio essere e delle persone conosciute.

 

Credo che tale fatto sia un bel percorso o “suggerimento” per qualsiasi lettore.

 

Il tempo, nel senso di qualcosa d’invisibile che scorre accanto, volente o nolente, in totale autonomia, nei confronti del quale nulla è possibile modificare: solo la percezione di esso può variare a seconda dei momenti, degli stati d’animo e delle situazioni.

Ciò è quello che traspare in quanto scritto a pagina 35: “Nel tempo del dolore un’ora vale più di un’ora, nel tempo della felicità un’ora vale meno di un’ora”.

 

Il grande capitolo del tempo, amato ed odiato da molti autori è stato affrontato in maniera semplice, e per questo complessa con una modalità di scrittura, a mio parere, molto diretta, senza troppi “fronzoli”, ma chiara e palpabile.

 

La genitorialità e come essa sia vissuta dai figli è un altro dei grandi argomenti affrontati nell’opera.

 

In uno dei momenti della storia, a pagg. 40 e 41, si legge un accenno di Etty alla descrizione dei propri genitori:  “…Loro sono complicati e discutono per ogni cosa. Non hanno fiducia in se stessi, credo che la mancanza di fiducia sia il loro problema principale. Siamo noi figli che senza rendercene conto teniamo insieme il nucleo. …..E’ vero, mia madre vorrebbe sempre l’ultima parola. E Levi, abituato com’è ad insegnare a scuola, non riesce a risparmiarsi a casa, anche lui vorrebbe l’ultima parola. Non ce la fa ad uscire dal ruolo d’insegnante, io lo comprendo. Sto imparando a individuare le sue fragilità attraverso le mie…..Il problema è un altro, a osservarli attentamente non si capisce se i due assieme facciano un adulto, uno intero.”

 

Riflettere su di un argomento così attuale tramite la trama di un romanzo, a mio parere, è un veicolo emotivo molto intenso, al contempo il lettore può identificarsi con entrambi i protagonisti in maniera alternata, a seconda dell’appartenenza di genere. Così come è stato trattato l’argomento nell’opera vengono messe in evidenza le diverse sfaccettature del tema e il denominatore comune: l’amore nelle sue più svariate manifestazioni celate o meno.

 

Non di meno importanza le espressioni poetiche contenute nel testo, parallelamente alla discorsività prosaica. 

 

L’utilizzo di metafore o di frasi contenenti ritmicità ed armonia sonora sia tramite il lessico, sia nelle pause e suspense, è un secondo denominatore comune nel testo.

 

Metafore che rafforzano lo spessore del messaggio comunicato e della forza dell’amore in ogni sua forma, anche quando esso è celato dietro ad urla ed apparenti assenze, o nel vissuto del personaggio in scena; ad esempio a pag 131: “Spier sembrava d’accordo, annuiva. Non aggiunse una parola. Fuori pioveva. L’acqua veniva giù dal cielo e raccontava a entrambi meraviglie. Pioveva sui tetti inclinati delle case olandesi. Pioveva nei canali e sulle cime degli alberi. Pioveva e la pioggia batteva sui vetri delle finestre dello studio di Spier. Pioveva al tramonto suo suono della sirena tedesca a due passi da loro. Pioveva e tutto sembrava potesse precipitare da un secondo all’altro o rinascere sotto la lente d’ingrandimento dell’amore”

 

In tale testo viene utilizzato il rafforzativo del verbo “pioveva”, trascinando con sé anche il precipitare delle emozioni, prima che le stesse s’innalzino a nuova vita nella “lente d’ingrandimento dell’amore”

 

 

Inoltre la metafora della lente è stata utilizzata, con il testo appena richiamato, tre volte:  la prima a pag. 24: “….Nell’oscurità che aspettava avrebbe potuto riflettere su cose che durante le ore di luce le sarebbero sembrate insignificanti, mentre il buio era “la lente d’ingrandimento dell’esistenza”.

 

La seconda a pag. 57: “…Lui e la sua testa erano tutt’uno e risultavano irresistibili sotto la lente d’ingrandimento delle passioni femminili”. La specificità dell’appartenenza di genere delle passioni mostra un livello diverso attribuito al medesimo valore.

 

La metafora della lente utilizzata per far penetrare gli stati d’animo e i sentimenti legati all’amore, alla vita e all’esistenza intera. Ritorna il concetto di profonda trama nei contenuti dell’opera in oggetto, al di là di quella della storia narrata

 

A proposito di poesia, del senso di come essa possa estrapolare l’essenza delle cose visibili ed invisibili e rendere tangibili illuminando la visione della vita stessa, ma per altri poeti può essere altro ancora, ritaglio uno stralcio a pag. 127 tratto dal diario di Etty, che oltre a richiamare il titolo dell’opera, a mio avviso non necessita di ulteriori commenti:

 

“Il contagio dell’amore credo che sia più forte del male che costoro diffondono con spregiudicatezza e odio. La poesia come mi è cara, e come per alcuni è così distante dalla guerra. La poesia: è sulle strade e vorrei celebrarla con la mia piccola vita, è agli angoli della sera, tra i capelli di mia madre, nelle gocce di profumo che si dà al collo, lo stesso che esala ogni qual volta apro il primo cassetto del comò………..La spazzola trattiene residui di capelli, molecole del cuoio capelluto, gli umori e i sorrisi del risveglio accanto a mio padre”.

 

Il corpo è uno degli elementi molto presenti nel testo al quale viene attribuito il ruolo di catalizzatore, contenitore, espressione di emozioni, ricordi, desideri.

Al contempo il corpo è un “traditore” del vero sentire, anche di quello che si vorrebbe nascondere agli altri, a difesa di una sacralità della propria essenza.

 

Alcuni esempi: a pag. 25 “Prima di addormentarsi Etty ripescava dalla memoria i momenti più intensi della giornata…..una scena, una frase, lo sguardo pieno d’amore o di giudizio di uno sconosciuto……Erano dettagli che le permettevano di entrare nella sua notte……Ma il corpo la tradiva, custodiva memorie, impressioni e appena si spostava da un punto preciso del suo letto le gambe, i piedi, le ginocchia, ogni parte del suo corpo riportava a galla un dolore rimosso, un racconto vissuto e ibernato per non soffrire.”

 

A pag. 33: “…Lei abbassò la testa, per pochi istanti ebbe la sensazione che il suo corpo si stesse rimpicciolendo. Socchiuse gli occhi e pensò al tepore della sua stanza e alla sua vita solitaria che si svolgeva nello spazio che amava. Uno spazio sacro dove aveva imparato a inginocchiarsi per pregare”.

 

A pag. 41: “…Etty sentì il disagio che aveva provato fino a qualche attimo prima si stava riaffacciando di colpo sul suo viso, l’avrebbe tradita, avvertì delle vampate di calore sulle guance, lo stesso calore correva sul suo corpo. Iniziò a stropicciarsi i capelli, lo faceva velocemente, come se le dita cercassero d’indovinare una risposta tra i pensieri e i capelli fossero le trame, e in quel preciso momento i soli pensieri che contassero.”

 

Ultimo esempio, a pag. 130: “Poco prima di uscire da casa aveva scritto sul diario: “Lo strazio che sento soltanto il tuo corpo sul mio può cancellarlo”.

 

In tutti gli esempi raccolti il corpo è più eloquente delle parole. L’arte letteraria dello scrivere viene messa in evidenza con il forte richiamo ed immaginazione all’emozione da esso emanate, dato da un linguaggio diretto, vissuto. Un corpo amico e nemico, a tratti può parlare, in altri costringe a tacere.

 

Non da ultimo, il corpo quale espressione di passione ed amore;  l’amore tramite di esso senza termini erotici o la descrizione di atteggiamenti volgarizzanti l’amore stesso; come si legge  a pag 139: “l’emulazione involontaria di una scultura: i corpi s’intrecciano, sono vinti dall’eros e dall’amore. Il marmo vibra, è vivo negli occhi di chi osserva. Nel caso di Etty e di Julius i corpi bianchissimi si fondevano allo stesso modo di una bellissima scultura”.

 

Parlare dell’amore, farlo vivere senza lunghi dialoghi, ma tramite piccoli gesti, mani che si sfiorano o sono baciate, è arte letteraria.

 

La bellezza è uno dei doni a Dio legati.

 

Giungo alla conclusione della mia interpretazione dell’opera “Il contagio dell’amore”, libro molto intenso, che porta a grandi riflessioni sulla vita da qualsiasi angolazione si desideri prenderla in considerazione, senza percepire il tempo trascorso nella sua lettura, della quale si potrebbe scrivere molto altro, congedandomi con uno stralcio di pag. 146 scritto da Etty, richiamo all’amore assoluto, invito a fare altrettanto nel momento attuale del mondo:

 

…I nazisti stanno rovinando la vita di moltissime persone, ma io non riesco ad odiarli. Dopo la guerra cosa accadrà? Le nuove generazioni riusciranno a vivere liberamente? Quali sono le cose che per ognuno contano? Riusciranno ad individuarle? Che Dio possa mutare tutto il dolore del mondo in benedizione. Se tutto ciò non fosse che un progetto divino? Chi può saperlo o intuirlo! Sarebbe bello riuscire a scavare nell’ignoto, avvicinarsi il più possibile alla volontà dell’Assoluto, forse pregando, forse trasformando il corpo in preghiera, questo in qualche misura potrebbe essere pensabile. Ma come si fa a trasformare il corpo in preghiera? Forse recitando, perdonando i nemici interni ed esterni, recitando tutti i giorni e a tutte le ore, il corpo diviene preghiera, si piega alla fede e al perdono dei nemici. Perché perdonare è possibile, è faticoso e lento il lavoro del perdono, ma è vero.”

 

Forlì 20 luglio 2020 Marzia Biondi


Mia lettura della silloge “La casa dei quattro eventi” di Paola Lucarini – Nuova Compagnia Editrice – 1994 e poetica dell’autrice.

 

Paola Lucarini, poetessa fiorentina, scrittrice, critico letterario, operatrice culturale, con laurea “Apolinaris Poetica 2014”.

 

Argomentare sulla poetessa Paola Lucarini è un’emozione molto forte. 

 

Scrivere sulla sua poetica fa toccare con mano il limite intrinseco della parola, in senso luziano, nel descrivere con pienezza la sua sensibilità, l’amore e la profondità nei confronti della poesia e della vita.

 

La sua è una parola che scava nei reconditi del visibile e dell’invisibile, a richiamo di quanto affermato dal poeta Rilke “noi siamo le api dell’invisibile”, oltre alla viscerale necessità di dare seguito alla propria curiosità di scoprire il mondo, di vivere la vita in ogni suo dettaglio, a partire dalla natura, dall’ammirarne la bellezza assoluta e dal silenzio necessario per ascoltare la voce di chi ha donato tutto ciò che circonda l’uomo.

 

L’impronta poetica ruota attorno ad aspetti religiosi, descritti o resi intuibili nelle pause e negli spazi voluti fra parole non sempre di uso comune, tuttavia molto in sintonia col ritmo dei versi, con la complessiva sonorità, rendendole tremendamente espressive del profondo valore contenuto nel loro messaggio.

 

Dal discorso della poetessa preparato in occasione della laurea “Apolinaris Poetica 2014” estraggo il seguente stralcio: “la poesia ci fa poeti, la poesia fa diventare poeta chi l’ascolta ma, a nostra volta, non dobbiamo considerare la scrittura uno specchio nel quale vedere noi stessi, quanto piuttosto una finestra attraverso la quale vedere gli altri.”

Ed ancora: “…Confesso che talvolta ho l’impressione di non essere io a scrivere, piuttosto di essere scritta, per cui accolgo l’ispirazione con un sorriso di riconoscenza.

La gratuità del dono deve donarsi a sua volta, è questo il nostro compito nell’opera del mondo.”

 

La mia conoscenza di Paola Lucarini ha qualche anno,  oltre ad avere avuto l’onore nel 2018 di presentare la sua poetica a Bertinoro (FC), insieme al critico letterario Anna Tamburini,  in occasione della “Giornata nazionale della Dante”.

 

Penso di dire con coincidenza di pensiero dell’autrice, che lo stralcio appena letto, contenga l’essenza della missione celata in ogni sua opera poetica, nella quale non mancano richiami a viva vissuta, al dolore della perdita di persone care o di situazioni sfuggite all’attimo.

 

La chiave di lettura della vita tramite il dono della poesia ha reso gli occhi della sua anima estremamente sensibile ai piccoli gesti, alle piccole cose, al profumo di una rosa, al coraggio di mettersi in gioco nel confronto con altre voci, in sintonia o in disaccordo con le proprie corde.

 

Il coraggio anche di accogliere la voce poetica, di lasciarsi attraversare da essa, la quale ha vita propria; improvvisamente essa arriva, quando meno ci se lo aspetti e si è pronti, per far assaporare più intensamente e profondamente l’attimo, vero tempo di vita.

 

Considerare la poesia un dono evidenzia la finestra aperta ad accogliere la brezza ed il fiato di Dio, in ogni folata di vento, in ogni temporale, nella casa che ripara e diviene luogo di accoglienza, come nido, oltre a farvi entrare la natura e l’altro.

 

I testi da lei scritti sono numerosi, tutti tradotti in diverse lingue e conosciuti a livello internazionale, per fare un accenno: Seme di ulivo (1981),  Dei fuochi la neve ardente (1983) Fiori dallo stagno d’inchiostro (1985); La casa dei quattro eventi (1994); Il pozzo e la rocca (1996); Un incendio verso il mare (2002); Sull’onda della gioiaA San Giovanni Bosco (2015). Nel 2019 è stata pubblicata la silloge “San Miniato al Monte” – Passigli Editore con la prefazione di Carmelo Mezzasalma.

 

Fra le opere accennate ritengo che  La casa dei quattro eventi – Nuova Compagnia Editrice – 1994 sia omnicomprensiva degli elementi simbolici, mistici, lirici e letterari quali aspetti fondanti la voce poetica dell’autrice. 

 

E’ un’opera dedicata alle nipoti Ariele e Alba. Si tratta di un libro di sapienza, leggerezza effuse in scorci di alta spiritualità, in un cammino dal piano terreno a quello divino e celeste. 

La sapienza sorta dalla fiamma spirituale trascende il significato letterale, in una continua creatività poetica ad esaltazione della bellezza racchiusa nel mondo.

 

L’amore, umano e divino, è il denominatore comune di tutta l’opera. 

 

In chiave di lettura introspettiva e psicanalitica si può dire che la poetica di Paola Lucarini sia un cammino continuo verso la profonda scoperta di sé, con ritorni verso il passato per un maggiore slancio verso il prossimo ed il futuro, accompagnata dalla speranza, sorella e faro che illumina la strada.

 

La forma della scrittura diventa esistenziale-lirica con altalenanti incisi forti, sintetici, antitetici ad altri versi più descrittivi, ricchi di particolari legati ai, ai profumi, fiori, ad un richiamo più sul piano emotivo, con la purezza bambina di chi ama il sorriso, fino a giungere con alta maestria alla miscela con simboli remoti, eterni, quali colori, numeri e presenze della natura. 

 

Tra i numeri a simbolo dell’opera vi sono il quattro ed il sette: il quattro che richiama e definisce il piano terreno e terrestre fino alla visibile luna, con un rimbalzo verso la sacralità legata al numero sette evocante la totalità celeste.

 

Inoltre, il numero sette è simbolo per eccellenza della ricerca mistica, così come esso corrisponde al numero dei peccati capitali, o ai bracci del candelabro ebraico; sette sono anche gli attributi fondamentali attribuiti ad Allah, e secondo il Corano, sette sono i cieli creati.

 

Ma altrettanti sono i doni dello Spirito Santo e sette sono i principali Arcangeli nel Cristianesimo.

 

Come si può evincere da tale breve accenno sull’utilizzo simbolico dei numeri, La casa dei quattro eventi è sicuramente una delle prime composizioni poetiche dell’autrice, ma non per questo meno incisiva e completa nella panoramica in essa descritta, sottesa, suggerita e vissuta della realtà umana e del sentire divino dell’uomo, aperta alla lettura da parte di diverse tradizioni, religioni e esperienze culturali.

 

L’opera è divisa in due sezioni: La fiamma delle sette rose e La casa dei quattro eventi, dalla quale l’opera prende il titolo.

 

Ad incipt dell’opera si legge un frase ad omaggio di Paul Valéry: “In principio era la favola / E vi sarà sempre”.

 

La bellezza dell’immaginazione tramite il sogno inteso come lungimiranza e percezione dell’oltre. Per l’autrice è fondamentale non smettere mai di sognare, di sperare, e tramite di esso raggiungere una più chiara e vera visione della vita con la bellezza e la saggezza in essa racchiuse, come in una favola.

 

Ed ancora si legge: “La bellezza fu per me a distanza di fiaba”.

 

La bellezza, dono divino, pertanto irraggiungibile nella sua pienezza, così come quella di una fiaba non, definita solo in essa stessa, ma nell’essenza da essa infusa.

 

Inoltre, per l’autrice, la trascendenza racchiusa in una fiaba è fiamma che illumina tutta la persona e il proprio sguardo sul mondo visibile ed invisibile fino a divenire visione del vero.

 

La prima sezione La fiaba delle sette rose è dedicata alla vita, all’esperienza quotidiana e dei vissuti, dolori e attese ad essa appartenenti.

 

Oltre al simbolico sette, anche la rosa è un fiore mistico, al contempo a simbolo di passione, di purezza qualora il colore sia bianco, di gelosia se esso diventa giallo; tutti significati legali ad esperienze di sentimento di desideri, a specchio del cuore umano. Pertanto esso non può essere esente da spine, da ruvidezze, da dolori.

 

La prima rosa: Rosa del primo sguardo – Selve dell’aspro richiamo

 

Vi è il ricordo dei momenti paterni e della propria adolescenza. Ricordi vivi, presenti nel quotidiano cammino; su di essi un sorriso, uno sguardo, una lacrima, un abbraccio.

 

Così si vive a pag. 21 e 26

 

E’, dunque, ancora in me

così viva la tua maschia avventura,

padre, per cui m’intrigano

gli amari sentori del bosco,

i cuoi della cartucciera ai fianchi

snelli, robusti tempi d’amore.

Selve in cui ammirazione e terrore

-ora so – m’iniziavano all’aspro

richiamo all’uomo.

Il fucile caldo come la preda

gettato a sangue sul tavolo

tra amori d’uve, coppe piene

alle labbra accaldate.

Fumigavano i panni,

gli stivali al camino.

Chiedo vertigine

nell’afrore di una barba fulva,

occhi ridenti di vittoria,

nel gesto imperativo

di chi getta il carniere

rovente di corpi

dagli arcani colori piumati.

Pare quasi possibile immaginare il volto paterno, la forza del suo sorriso dietro ad una barba che lascia intendere un uomo tendenzialmente serioso e forte nel corpo oltre che caratterialmente. Una forza che rassicura ed al contempo intimorisce, così come lo è la paura di perderne la visione.

 

Come fu lontana, ieri, la bambina

che riconosceva l’alba

 

quando scalza lasciava

lo chalet fra cabine verticali

cerulee matite rosee

aste sul primo quaderno, la spiaggia –

 

come è tornata vicina,

oggi, quella bambina.

 

A volte la vita gioca scherzi e pare di vivere, nel qui ed ora, anche momenti di un sé più giovane, bambino.

 

Uno scorcio di un periodo di vacanza, un luogo, una spiaggia della quale è rimasta l’impronta, il colore e la bellezza nel cuore ora divenuto adulto, ma che batte ritmicamente con lo stesso fremito di allora.

 

La stessa purezza di cuore di allora, che ancora ora sente viva l’alba.

 

La seconda rosa: Rosa del sogno – Un’apparenza di donna al suo sole –

 

Immaginare il proprio destino, intuire la strada giusta da percorrere.

 

A pag. 24 l’autrice scrive:

 

Primavera e la sua veste di febbre,

né sai quali tremori e rugiade

disveli nel chiaro avvenire

d’ogni tuo ritorno

 

morte, mia amante

nella teca di cristallo

 

spina di delirio

e rosa del mio canto.

 

Il trascorrere del tempo, delle stagioni, spesso nominate “primavere” sono la spia dei cambiamenti avvenuti nel suo scorrere. Comunque ad ogni ritorno della primavera è trasparente ed evidente il fatto stesso ed i vissuti vividi e incerti.

 

La morte, quale amica per giungere poi alla risurrezione, amante fino al punto di custodirla in una teca preziosa, ma chiara, trasparente come lo è il destino inevitabile dell’uomo della morte corporea. L’ultima porta stretta da dover attraversare per giungere a vita vera.

 

Con la metafora “spina di delirio” l’autrice crea un’immagine forte, incisiva, sintetica in  similitudine con le spine di Cristo nel momento della crocifissione. Dono sublime e supremo d’amore assoluto e gratuito all’umanità, per la sua redenzione. 

 

La rosa, quale dono d’amore col quale innalzare il proprio canto al Padre.

 

Stupenda, intensa poesia scritta dalla poetessa a pag. 40, senza punteggiatura, con un linguaggio semplice, per questo complesso da comporre, con all’inizio della quartina un lemma che richiama il fiato dello spirito.

 

Il “.”  al termine della quartina denota la certezza del suo contenuto e della sua indiscutibilità:

 

Angeli vegliano su di te

finché tu muoia a te stesso

per nascere alla vita

e vegliare sugli altri.

 

La necessità di morire a se stessi, quindi non solo nella carne, ma piuttosto nell’interiorità egoista ed egocentrica, come unico mezzo per fiorire su di un giardino ricco di altri fiori ai quali guardare con accoglienza e premura. 

 

Vegliare sugli altri da vivi, e quando si è divenuti vivi oltre la vita.

 

Ed ancora a pag. 45:

 

Mille campanelli di ghiaccio

attraversano il vento

 

il ruscello taglia la gola d’argento

fora l’orecchio per un sonante pendaglio zingaro

 

la gonna s’intrina di neve

- infiorati, scialle!

 

finchè il cuore se ne va

sempre più nomade più lieve

 

lasciando un’apparenza di donna

al suo sole.

 

Poesia ricca di metafore e di simboli, molo intensa col punto esclamativo a forte esortazione.

Una metrica greco latina di quattro distici e non più suddivisa in quartine rendono la poesia più incisiva, arricchita da pause, nelle quali nasce la poesia più profonda.

 

Pungente descrizione della natura, ed al contempo metafora: i campanelli di ghiaccio come segni tangibili che avvengono in ogni momento, nel divenire delle cose e delle stagioni; il vento quale spirito che parla all’anima attenta e bianca, vuota di se stessa, così come deve essere quella per chi è alla continua ricerca dell’immenso.

 

L’immagine del suono del ruscello…..pendaglio zingaro, simbolo degli uomini pellegrini nella vita.

 

La voce della natura resa immagine con un verbo che agisce sul corpo, lo fora,  per entrarvi e vibrare con esso.

 

Infiorati, scialle!: la virgola crea la pausa, l’assenza di fiato, il sospeso che dona l’onda ed il movimento al verso. Così come la sua metafora invita a fare, a spiccare il volo di uno scialle a metafora delle ali dell’anima.

 

Il cammino continua fino a quando il cuore, nomade, diventa sempre più sottile e leggero fino a quasi trasfigurare la parte corporea della persona, fino a divenire un’apparenza di genere. L’assenza apparente di peso per l’espansione dell’anima al suo sole, fonte di vita, di calore abbracciante il corpo, divenendo, il sole stesso metafora del divino.

Terza rosa: Rosa dell’esperienza quotidiana – Un tempo che non si celebra –

 

I ricordi nella quotidianità, lasciano lo spazio a quelli successivi, così che voltandosi un attimo ci si accorga di quanto si è già percorso del tempo messo nella clessidra della propria vita.

 

A pag. 52 la scrittrice ci dona:

 

Vivida m’accende la gioia del lavoro

fasci luminosi d’energia

reggono gli assalti dell’ora, fino

al serale appassirsi d’ogni passione

all’odoroso capogiro

nella viola della notte quanto – su lei –

si chiude l’erba delle ciglia.

 

La passione per la scrittura, la necessità di mettere sulla trama di un foglio ciò che attraversa l’autrice, l’incendio della propria anima al suo passaggio, fino al perdere il filo del tempo, del trascorrere delle ore e delle passioni ormai divenute inchiostro.

 

Il capogiro  dato dall’intensità di tale lavoro d’animo ha persino profumo, il profumo di vita penetrata nei reconditi meandri del proprio sentire.

 

Non resta che il dissipare della luce e la vicinanza della notte, alla quale offrire il chiudersi delle palpebre, come fa la viola di notte con i propri petali.

Nella ciclicità della vita riappaiono situazioni che lasciano basiti, il cuore incartapecorito, piangente al ricordo di altri stati di sofferenza amorosa, come si legge a pag. 56

 

Quando capita un evento a tradimento

in un’età già corrosa dalla polvere

ti guardo da lontano, adolescenza

 

ho fatto un’erba alta di silenzi

per disperdervi i passi innamorati.

La natura come protezione ed amica in situazioni di solitudine, di abbandono e di massima angoscia, come l’unica a poter comprendere il cuore umano.

 

Il corpo segnato dal tempo, contato dalla polvere, quale metafora della condizione umana, della vera materia della quale il Creatore ha deciso di donare alla sua opera migliore. 

 

Contenitore-scrigno per lo Spirito.

 

Quarta rosa: Rosa della separazione – L’usignolo accecato acceso di dolore – 

 

La terza rosa era già anticipatoria della quarta, nella quale l’abbandono è l’elemento impregnante le poesie in essa contenute. Abbandono non solo in senso di sofferenza e di vuoto, ma con sentire religioso, come strumento per giungere ad una vera crescita per giungere alla gioia, fino a costituirne la prima incarnazione.

 

A pag. 68, la poesia è esplicativa della sezione stessa e non necessita di ulteriori commenti:

 

Quello che gli altri non vedono

è l’argenteo lume

che come lama separa

dalle labbra il sorriso

cl cuore.

 

Sono venuta qui dove 

non è scandalo il pianto

tra le braccia d’una croce,

dove la separatezza

ha finalmente fine

e una rosa terrena

è degna dell’altra.

 

Quinta rosa: Rosa della poesia – Il cerchio illuminato da te, anima –

 

La poesia come dono divino, fonte dalla quale attingere per giungere alla visione in pienezza delle cose. La poesia come ricerca continua dell’oltre, dell’infinita bellezza mai raggiungibile a pieno, così da dover incessantemente ricercarne il suo creatore. Nel cammino i piedi sono nudi, simbolo di umiltà. Passo dopo passo divenire nuova.

 

La poesia di pag. 77 è simbolica di quanto appena accennato. Non manca la metafora delle vestali che con le loro preghiere giungono a nozze col loro Sposo, così come la poesia illumina e giunge a nozze con l’anima e con la conoscenza, da essa derivante. 

 

Il cerchio della lampada

è un anello, a notte

in bianca veste a piedi nudi

le vergini vertiginoso

nozze con la poesia

 

ma ciò che avvenne

deve ancora accadere

 

o mia mai sazia gioia

di conoscerti, al rivelarmi nuova.

 

Sesta rosa: Rosa dell’attesa – Solo per chi crede nell’impossibile –

 

La saggezza dell’attesa per scoprire e comprendere quanto si disperde o non si percepisce nella fretta o nell’immediatezza delle cose.

 

La vita a volte pare tacere, ma se si hanno occhi per vedere e guardare al mondo con l’anima, ci si accorge che contemporaneamente avvengono situazioni, la vita.

 

A pag. 94 si legge:

 

La chiassosa brigata di gerani

che aveva svegliato l’estate

spioveva smorta, stamani,

in un’alba da crepuscolo,

grondante, e grigia

-pure vi traluceva 

qualche accenno di nuovo,

da incoraggiare

 

mentre tu, da giorni,

mia vita, tacevi.

 

I gerani, simbolo dell’estate e della maestosità della bellezza e luce di tale periodo.

Il cambiamento del tempo ha smorzato il loro splendore, o così pare.

Non fermarsi davanti alle apparenze, è saggezza. 

 

Qualcosa di nuovo sta per accadere.

 

E’ interessante che il senso più profondo, l’accadimento vero centro della poesia, sia contenuto nel distico a chiusa.

 

Un breve, intenso, dialogo con la vita stessa; una sorta di rimprovero ad essa per un apparente silenzio e ripetitività di accadimenti, a differenza di quanto invece la natura sa fare pur in un momento di grigiore e di malinconia.

 

La disposizione dei versi nello spazio, la grande pausa prima della chiusa creano poesia nella poesia e donano l’intensità di uno sguardo di se stessi nello specchio della vita.

 

A pag. 95 sono raccolte tre poesie, forte invito alla riflessione di uno sguardo aperto alla vita, non aggiungo commenti:

 

I

Essere nell’esistenza –

poi allontanarsene,

per comprendere la vita.

 

II

Quante pagine del mio cuore nel mondo,

ho dovuto sfogliare

per sapere che avrei potuto leggere

anche solo il titolo, assorta

all’infinito.

 

III

Chi vede alberi e alberi,

chi conosce l’albero.

per me un monte un fiume

e il gallo del mattino

per aprirmi al nuovo.

 

A chiusura della sezione la settima rosa: Rosa di stelle – pagine della nascita –

 

Giunti a maggiore consapevolezza della forza della nostra anima riempita del suo amore, si giunge alla vita vera, rinascita con un destino segnato in un disegno più grande.

Ogni persona ha un compito, il quale ci rende tutti fratelli nella medesima luce.

 

A pag. 101

 

Siamo stelle, luoghi

incendiati di Luce

contro il buio

 

oltre il quale, nella Luce

persiste l’ombra

dell’antica stella.

 

Siamo luoghi , bellissima immagine di un qualcosa che ha il compito di contenere, è definito in funzione di altro valore. Nella battaglia contro il proprio opposto, il buio, si ha un punto di riferimento antico al quale volgere lo sguardo per mantenere la Luce.

 

Non di meno valore Siamo stelle: ogni persona come polvere luminosa, in comunanza di appartenenza fra gli umani e il restante del mondo.

 

Prima della seconda sezione, l’autrice vuole sottolineare la sacralità della bellezza con un’appendice: Sette fiamme – Per una visione della bellezza – nella quale sono contenute due poesie; a pag 108 i versi sono esplicativi del concetto,  oltre a riassumere la seconda sezione, non aggiungo commenti:

 

Le rose del gran fuoco

alte sul candelabro

s’aprono d’incenso

 

in mistica ghirlanda

infiorando la fronte

eletta al recondito sogno.

Al balenante segno.

La seconda sezione: La casa dei quattro eventi.

 

I quattro eventi: amore, vita, uomo, mistero.

 

Si giunge alla comprensione di questi eventi passando per la strada simbolica delle sette rose. 

 

La consapevolezza che ne deriva fa innalzare l’anima ad un livello alto, nel quale si percepisce il profumo di rosa divina.

 

A pag. 115 la poesia rappresentativa della sezione:

 

La finestra

Fra stanza e campagna

Due vetri a sinistra,

due vetri a destra,

per la casa – inimitabile –

dei quattro eventi,

mentre le travi interne erompendo

dalle vernici si rifanno tronchi,

fulgidamente

        foresta.

Si tratta di una poesia forte, con il mistero al centro, pertanto difficilmente dicibile. La metafora della casa ha creato un’immagine avvolgente, protettiva nella quale ci si può finalmente abbandonare nella pace. 

 

I quattro eventi dell’amore e vita, uomo e mistero sono simbolicamente rappresentate nella casa, quali elementi comuni alla vita degli esseri umani. Una casa con le finestre da cui guardare alla vita, all’amore per essa, alla luce che da essa invade la casa, al bisogno insito nell’uomo di essere amato, ma soprattutto di amare con un amore divino. 

 

Tutto è mistero, così pure la vita.

 

Pur mistero, la vita e la “casa” che la contiene sono inimitabili, quali perfezione voluta da Dio.

 

La casa, per l’autrice, è anche un luogo rassicurante, nel quale chiudere il mondo fuori quando vi posa i piedi dopo il peregrinare fra voci poetiche ed incontri umani nei quali seminare l’essenza della vita con le parole, con l’esempio. 

 

La casa, simbolicamente, quale porto su cui approdare, a raggiungimento della propria individualità.

 

La casa, pur elemento statico, solido, è un contenitore aperto alla natura, a trasformarsi e divenire in armonia col mondo facendolo entrare, a volte in punta di piedi.

 

L’immagine della foresta ha una risonanza molto profonda con l’ampiezza della dimensione umana, della vita e del mistero del quale si continua la ricerca nei molteplici, imprevedibili, a volte tortuosi sentieri che si trovano lungo il cammino di vita.

 

Tutto questo, in un certo senso, fa parte della casa inimitabile.

 

Ad inizio di questo mio scritto ho accennato ad alcuni delle opere poetiche della scrittrice Paola Lucarini e nella lettura di esse ho trovato elementi distintivi di peculiarità linguistiche e di maturità artistica, ma al contempo altri sono in similitudine o come denominatori comuni fra alcune opere.

 

Nella silloge “Un incendio verso il mare” Marsilio Elleffe Editore – 2002 si può riscontrare una scrittura con una forte trascendenza della lettera e della parola al di là del senso filologico e semantico, per divenire una poetica della totalità in continua creazione, con la fiamma della bellezza quale dono divino al mondo.

 

Un breve scorcio, simbolico dell’opera e di quanto appena da me accennato; a pag. 50 si legge:

 

Fra il chiaro gelo della finestra socchiusa

E l’atroce bruciore del camino in fiamme

Io con la cenere su sette castagne,

un bicchiere di vino, un giorno di ozio

 

cresce in estasi e vertigine

una vampa di oscuri fuochi,

di dissacrate carezze. Mai consolate.

Se non ora, tra diamante e rubino,

solitudine e respiro.

 

A pag. 74

 

Schiantano gemme

verzicano fronde

s’avviluppano per scoscesi pendii

amplessi d’erbe

su letti di pietrisco

e pure l’ora s’ingrana d’oro.

Con una siepe di biancospino

proteggo da storture

innocenza e cuore –

terra, mi sento zolla,

nell’anima il seme

dell’eternità fiorisce.

 

La poesia stessa, come anche per il testo analizzato in questo scritto, è arte divina.

 

Il richiamo alla natura, con l’uso di parole onomatopeiche, piccoli scorci, cocci, ombre e sciacquio dell’acqua sui sassi, “…mi sento zolla”, respiro di luce e simboli archetipi testimoniano ulteriormente la profonda sensibilità d’animo dell’artista nei confronti della parola poetica, della Parola, della vita.

 

Senza tentennamenti ritengo, nel mio essere polvere, di poter dire che l’opera poetica di Paola Lucarini sia un dono al mondo affinché l’uomo abbia parole, pause e sogni ai quali rivolgersi per entrare, col limite umano, nel mistero della vita e viverla.

 

Come scritto dall’autrice a chiusa del libro La casa dei quattro eventi : La vita è continua preghiera alla vita, / se induce la nostra mano d’acqua e fuoco / a modellare con gesti di terra e d’aria / la Sacra Fontana

 

A completamento della mia lettura sulla poetica dell’artista Paola Lucarini inserisco due mie poesie nate in occasione della presentazione delle opere dell’autrice avvenuta nel 2018 presso il Museo Interreligioso di Bertinoro (Fc), composte con l’estrapolazione di alcune frasi scritte dall’autrice ad incipt delle poesie contenute nel testo “Un incendio verso il mare”.

 

la pazienza dell’albero coincide

con i suoi cerchi, in silenzio

un’arnia di sogni preparò

miele amaro di memoria

 

anima

campo di stelle

fa che il mio stelo cresca

per essere ancor più flessibile

 

*******************************************

 

antichi passi

su giardini di neve

i tuoi, orme in me

 

la sete oscura

cerca l’acqua chiara

se il cuore accoglie il cielo

 

sarà cielo

 

- siamo alla sorgente –

lungo l’esistenza imparammo

a dissetarci con quest’acqua eterna

Concludo , ad omaggio della poetessa Paola Lucarini, con due poesie da me composte con l’estrapolazione di alcuni degli incipt contenuti nell’opera argomento principale di questo mio scritto, La casa dei quattro eventi

 

Non esiste crescita

senza abbandono

 

l’amore coincide

con l’educazione all’amore

 

scambiarsi miracoli

è amare

 

ogni angelo, in terra,

incendia un angelo

******************************************

 

Sognando il cristallo

non ci accorgiamo

di essere pietra

 

l’uomo è un divino desiderio,

incarnato nel mistero

 

essere il luogo dei tempi

-e dei templi –

il destino dell’uomo

Forlì, 7 agosto 2020 Marzia Biondi


Mia lettura sulla poetica e sulla silloge “L’opera in rosso” di Massimo Morasso – Passigli Poesia – 2016

 

Ogni volta che ci si accinge ad interpretare un’opera letteraria è un’avventura coinvolgente e complessa, nella quale oltre ad attraversare la verità e realtà in essa contenute, avviene una crescita artistica ed interiore di chi sta svolgendo tale critica letteraria.

 

Tale accadimento è particolarmente vivo di fronte alle opere poetiche di Massimo Morasso, saggista, poeta, traduttore e critico letterario genovese, oltre ad essere autore della “Carta per la Terra e per l’Uomo”, documento sottoscritto da cinque premi Nobel per la Letteratura e sette Premi Pulitzer per la Poesia.

 

Fra le sue raccolte di versi: Le poesie di Vivien Leigh (Torino, Marietti 2005); “Viatico” Raffaelli Editore 2010; “La caccia spirituale” Jaca Book 2012; “Rilke feat Michelangelo” – Carta Canta Editore 2017; “L’amore, il silenzio e la bellezza nella poesia di ogni tempo e paese”  AnimaMundi Edizioni 2020.

 

Ho avuto il piacere di conoscere Massimo Morasso in occasione di alcuni eventi letterari e per amicizie di poeti. Nel 2018 ho avuto l’onore di presentare la sua poetica presso il Museo Interreligioso di Bertinoro (FC).

 

Massimo Morasso è un artista dalla voce interrogante la vita, la morte, se stesso, la poesia come lo sguardo più tagliente ed introspettivo col quale guardare alle cose, anche a quelle invisibili, a richiamo di uno dei poeti maggiormente studiati ed amati dall’autore, M. Rilke.

 

Per dare un assaggio della particolare chiave di lettura delle cose, traggo spunto da uno scorcio del suo libro “Il mondo senza Benjamin” – 2014 –Moretti & Vitali Editore (Walter Benjamin, pensatore e critico letterario fra i più notevoli del secolo scorso), nel quale a pag. 41 definisce i nove modi di guardare alla finestra di sé stessi e della vita:

 

 “Possiamo guardare una finestra in molti modi. E questi modi dipendono dalla nostra capacità di perdere noi stessi…….La nostra relazione corporale con la finestra non può che risultare largamente inessenziale, se la pensiamo a partire dalla nostra esperienza quotidiana di esseri umani ragionevolmente felici o ragionevolmente infelici…..a lasciarci compenetrare dalle ragioni del diverso cioè, più precisamente, dalle interrogazioni dello stra-ordinario.”

 

Ed ancora:

 

“Misura dell’attesa, la finestra è quella forma semplicissima – sto citando Rilke, di nuovo – quella “geometria dell’umano” che “senza sforzo”, disumanamente, dunque, contiene la nostra “vita enorme”.

“Penso che affinché una finestra possa parlare a un livello non troppo estrinseco di noi, debba essere guardata a partire da uno sguardo straniato, cui corrisponde la voce impotente di un’esperienza esistenziale estrema, tendenzialmente oltre-umana….”

 

Lo stralcio del testo citato è un chiaro e profondo esempio di una profonda contemplazione della parola e dell’interiorità umana, la cui “vita enorme”, non è da intendersi come un’impossibilità da parte dell’uomo di contenerla, ma l’esuberante intensità di un dialogo con se stessi, in continua metamorfosi, in funzione dello scambio di visione e di percezione del mondo interiore con quello che accade nel mondo esterno, di cui la finestra rappresenta una sorta di contenitore e porta tramite la quale farlo entrare e dalla quale poter dialogare.

 

Ritengo importante continuare per un momento il focus dell’attenzione sull’opera “Il mondo senza Benjamin” e sullo sguardo poetico di Morasso, decisamente particolare e molto ad ampio raggio. 

 

Egli definisce i nove modi di guardare una finestra distinguendone sei “centrifughi”  (il modo di guardare di un carcerato, del pazzo, del bimbo, del malato, dell’animale domestico e di se stesso), e tre modi “centripeti” (il modo dell’angelo, dell’animale non domestico, del senza-casa o dell’innamorato), come scrive a pag. 42.

 

Non intendo analizzarli tutti, tuttavia, l’accenno alla “casa del poeta murato” a richiamo di un’opera di Holan, con riferimento ad un carcerato, fa intendere chiaramente la penetrazione dello sguardo del poeta, il cui muro non è altro che una diversa siepe che impedisce una visione diretta del mondo, ma ne agevola quella oltre l’invisibile.

 

In tal caso la parola può divenire finestra e ponte per le parole dentro e fuori dal mondo. 

Al contempo, come cita l’autore, la “finestra è una parola”.

 

La finestra con lo sguardo del matto, di cui l’autore scrive a pagg. 46-47: l’abbaino dell’abitato di Van Gogh, quale varco dal quale la follia fa giungere alla creatività inimmaginabile da una mente “normale”, così come l’autore scrive:

 

“Varchi tramite i quali dar forma all’estremo, oppure partendo da un’altra angolazione per giungere, in fondo, al medesimo, traslati analogici di un fenomeno di rottura interiore, che dissolvendo i confini fra lo spazio proprio e lo spazio esterno rischia di non lasciare più alcun punto d’appoggio: e sicuramente non il corpo, frantumato anch’esso nel contesto di una nientificazione- ben nota alla psichiatria – dello spazio vissuto”

 

Mi sono soffermata su tale tipologia di sguardo in quanto in chiave artistica, a mio parere, il limite del vedere in maniera “normale” o meno è una linea molto sottile da definire, per non dire che a volte lo sguardo con cui si guarda al mondo è una miscela di linearità col pensiero comune della cultura di appartenenza, ed in altri momenti diviene una nuova realtà grazie alla potenza naturale della parola poetica, pertanto rivoluzionaria, che dona nuova vita grazie ad un diverso e più profondo occhio estrapolante la sostanza della vita.

 

In tale concetto credo di essere in linea con quello dell’artista Massimo Morasso.

 

Non posso non soffermarmi anche sullo sguardo definito dall’autore quale “centripeto”, di cui riporto il sunto del concetto scritto a pag. 52:

 

“Se all’angelo che compare sulla soglia corrisponde, in essenza, un messaggio di solidarietà, o meglio di continuità e contiguità genetica fra celesti e terrestri, agli animali urbani e non domestici come ai posseduti d’amore corrisponde l’anelito alla condivisione, il pathos di chi disperatamente insegue la riduzione della distanza, intesa in accezione fisica e non solo.”

 

In questo stralcio si deduce il credo del poeta facendo riferimento alla figura dell’angelo, quindi ad un aspetto trascendentale della vita; figura che accoglie l’anima nel momento di congiunzione col mondo celeste. Ne parla con sentire di solidarietà, quindi di condivisione di una condizione insita nell’uomo, quale parte non umana ma divina dell’essere umano, così come voluto dal Creatore.

 

Interessante il concetto espresso dall’autore, di “posseduti” dall’amore; l’amore quale forza più potente, più della morte, che s’impadronisce della totalità della persona, fino a renderla condivisione con l’altro, in un certo senso in “uscita” da una forma egoista di esistenza anche corporea fino a divenire unione. Tale unione riduce anche la distanza, o il concetto di lontananza implicito in essa.

 

Il corpo, contorno identificativo di una persona, materia per prendere contatto col mondo ed abbracciarlo, ma è al contempo indefinitezza ai fini di una possibile visione, abbandonando il corpo in un angolo, nel caso di una malattia, per far aleggiare lo spirito fuori dallo spazio.

 

Lo sguardo dell’autore sulla realtà pone alla base la necessità di uno svuotamento da quello sulla propria interiorità. 

 

A tal riguardo posiamo lo sguardo nella silloge “L’opera in rosso”  Passigli Poesia – 2016 composta in tre sezioni: “Memorie, vive, come polline”; “Fra i fili della rete del vivente”; “Pensare: il silenzio

 

Si tratta di un’opera che parla di poesia nel suo senso più profondo, profetico del poiesis . I morti si uniscono ai vivi nel dialogo di anime, nella realtà dei sogni, nell’arte di stare qui ed ora, nella missione di scrivere anche per gli altri.

 

Quella di Morasso è una poesia che possiede quella serietà di concezione e di costruzione artistica, intellettuale, etica di cui  l’umanità necessità se si vuole che la scrittura debba e possa essere ascoltata.

 

Certamente nella poetica di Morasso è presente il richiamo alla poetessa Cristina Campo alla quale ha dedicato il volume “Viatico” – Raffaelli Editori – 2010, dal quale, senza commenti estrapolo uno stralcio:

 

Cristina mia imperdonabile penso

a te che leggi gli Atti del Concilio

e ne compulsi note e codicilli

poiché quanto è impossibile non è

se non l’inizio dell’interessante

e l’esperienza della grazia

dall’ineffabile muove entro l’ordine

del senso come in una liturgia.

ripenso a te reclusa

che diradavi ogni nebbia in figure

dal cielo di una pentecoste continua

quando ormai il tuo cuore malato

desiderava che tutto tornasse

all’altezza della sua iperbole,

tu asceta d’inflessibile visione, 

esilissima silfide e guerriera

per amore del mondo dietro al mondo

che ci stringe d’assedio ed è tutto ciò che abbiamo.

 

La poetica di Morasso, uno sguardo che trafigge, non solo scalfigge ma irrompe dentro la parola, la frantuma nei componenti più essenziali e la “ricuce addosso” all’anima che ne ha inalato profondamente il profumo e lo sguardo dell’oltre.

 

A tal proposito dalla silloge “L’opera in rosso”, nella prima sezione, a pag. 30 l’autore scrive:

 

Ci sono nove modi di guardare una finestra

o addirittura dieci se a guardarla sono i morti

con il loro sovrasguardo immateriale

che vede tutto il mondo in forma d’anima.

Non è da lì che passano gli spiriti, mi dico,

è nel riverbero di un soffio

nell’arco a sesto acuto di un’immagine

dove tutto risponde alla grammatica del cuore,

che inabissa.

 

Le parole trafiggono le pupille, portando lo sguardo verso l’alto, il fiato con cui vengono lette crea un vortice nel quale lo spirito fa da filo conduttore per unire la vita materiale con quella dell’anima contenute nel mondo.

 

Il riverbero di un soffio, fonte di vita, dal quale la materia ha preso vita, così pure l’uomo. Il soffio quale primo respiro alla vita ed ultimo fiato a chiusura di essa. 

 

Il riverbero fa percepire la forza intrinseca nel vaporoso getto d’amore, pur invisibile eppure così vivo.

 

La morte, quale presenza a spegnimento della vita, l’attimo nel quale essa scorre in una visione la cui forma viene già definita dall’autore: un arco tipicamente gotico la cui immagine richiama un abbraccio che raccoglie tutta la vita per dirigerla verso l’angolo in alto, il cielo.

 

Il cielo, ma al contempo l’angolo acuto è anche il simbolo del centro dell’arco, arco inteso come corpo che contiene la vita, il cui centro è il cuore.

 

E’ pazzamente chiaro: tutto deve passare tramite il cuore, con la consapevolezza che esso è il centro del valore con cui vivere.

 

E’ molto interessante il decimo sguardo attribuito ai morti, coloro i quali conoscono già l’oltre da dove hanno la forza per guardare le anime; uno sguardo che non si ferma sul corpo, forse non lo considera nemmeno.

 

Bellissima la chiusa della poesia con il verso “che inabissa”: l’immagine creata rende perfettamente l’idea dello spegnersi di uno sguardo terreno.

 

Restando sul concetto di morte, nella prima sezione, a pag. 31 il poeta scrive:

 

L’ultima notte? Ci sono molti modi per descriverla.

In certi c’è uno spettro

Che l’imbottiglia come fosse una falena,

la rende sterile, la uccide.

In quello giusto c’è una forza

che la connette a tutto il resto,

la storia e il suo rosario,

ruotandola verso l’origine perpetua.

E’ una forza di grazia

che non sa nulla di traccianti e puntatori:

lei spalanca.

Nel suo riverbero ritorno a dire di mio padre,

le braccia di uno spettro che danzava

chissà in quale tensione disperata della mente

chiusa nella carne, rivolta all’invisibile.

 

Io supplicando

  nell’ombra, stremato

a tutti i suoi tremori

 

e infine il gelo.

In primo luogo, la disposizione della scrittura nello spazio  pone l’attenzione su “E’ una forza di grazia” in riferimento alla preghiera che collega l’origine della vita terrena, il luogo nel quale andare a conclusione di essa. 

 

Preghiera quale la più potente fra le grazie ricevute, l’unica che non ha limiti di spazio e tempo: può oltrepassare qualsiasi materia.

 

L’autore mette in risalto la certezza della presenza divina nella forza data durante un momento di preghiera nella disperazione dell’imminente arrivo della fredda morte.

 

Così pure si ripete la particolare spaziatura nel momento di massima espressione di uno stato d’animo molto affranto, disperato, nel quale persino il corpo ha esaurito ogni tipo di energia, pare quasi impietrito.

 

Il corpo ripreso anche nella descrizione della sofferenza patita dal padre, un corpo che sta percependo l’arrivo della morte, mentre dei movimenti concitati pare siano una “danza” di addio.

 

Il corpo come una forma che trattiene, costringe, racchiude, una scomodità che paralizza la mente, travaglio, la cui intensità è percepibile solo con l’immaginario.

 

La doppia interlinea prima della chiusa crea la pausa che raggela il fiato prima di esprimere l’umiltà dell’impotenza di fronte alla morte, la supplica a Dio come unico punto di riferimento certo, la riservatezza di tutto questo custodita nell’ombra, il freddo lasciato dall’abbandono del padre di questa vita. 

 

La contrizione del cuore dell’autore, al ricordo di tale avvenimento, non lascia parole.

 

L’autore parla della sofferenza senza sentimentalismo. Così pure in riferimento al terrore per l’approssimarsi della morte.

 

Di nuovo il poeta, come nella poesia precedente, utilizza il lemma “riverbero” in riferimento al soffio, come se fosse un lemma indicativo e distintivo del tipo di soffio, solo divino.

 

Molto intensa l’assonanza composta nel terz’ultimo e penultimo verso:

 

nell’ombra stremato

a tutti i suoi tremori

 

si è creata una forte immagine di un corpo distrutto e fibrillante al pari fra quello dell’autore e di suo padre, in una sorta di “condivisione” della durezza e dolorosa morte imminente per uno dei due.

 

Anche la descrizione del corpo del padre “le braccia di uno spettro che danzava”, a mio parere, sono la metafora per descrivere visivamente la malattia.

 

Per comprendere meglio l’arte poetica e saggistica dello scrittore Massimo Morasso, affronto un altro tema: Chi è un poeta? 

 

Per l’artista Morasso, secondo quanto scritto a pag. 35 del saggio “Il mondo senza Benjamin” :

 

…il “poeta” non esiste. Lo si può riconoscere nel modo con il quale si relazione al linguaggio. Ne sente la responsabilità? Il sperpero, l’irriflessa trascuratezza con la quale vi si commercia, lo fanno rabbrividire o, anzi, addirittura lo traumatizzano? Se è così, ecco che ci si trova al cospetto di un uomo singolare, che ha posto un diaframma radicale fra sé e il resto della realtà. Poiché il linguaggio che ci getta nel sapere, non ci si può avvicinare alla conoscenza di qualcosa (alla conoscenza di qualsiasi cosa) senza soppesarne la sostanza lessicale, senza avvertirne la sapidità linguistica. Colui al quale l’uso di una parola piuttosto che di un’altra non fa……problema sostanziale, voglio dire, non è uno scrittore autentico, un poeta. Al contrario ha molte probabilità di esserlo, un poeta, chiunque di fronte a una cosa (sia un fatto, un paesaggio, una persona o un’idea) si strugga per l’impossibilità di far corrispondere quella cosa alla parola che, denotandola, dovrebbe poterla esprimere. Questo sentimento dell’inadeguatezza fra cosa e parola è il segno di una frattura per la quale non esiste rimedio”.

 

A mio parere, proprio la frattura fra parola e ciò che realmente si vorrebbe trasmettere è l’espressione massima della poesia. 

 

La poesia non dà risposte, ma sortisce domande alle quali la ricerca data dalla curiosità, dal bisogno di conoscere sempre di più la realtà, la profondità delle cose, porta il poeta a far fiorire dalla penna forme intrise di senso e di significato, anche di vita propria, alle quali con il sentire poetico, la tecnica poetica e i suoi strumenti (metafore, assonanze, similitudini ecc) dare un senso di compiutezza.

 

In realtà, una poesia non è mai compiuta in pienezza. Sia per il limite della parola stessa, sia perché, in quanto viva di vita propria, essa è in continua metamorfosi, come lo è l’artista stesso. Conseguentemente il poeta scopre nelle poesie da lui composte altro e qualcosa di nuovo ogni volta che vi posa lo sguardo.

 

Di qui l’importanza, come sottolineato anche da Morasso, della responsabilità con la quale il poeta si accosta all’uso della parola per non tradirne l’essenza, curarne la forma, arricchirla senza insuperbirla ed estrapolarne il vero significato, mantenendo nell’accostamento delle parole la coerenza col messaggio da trasmettere.

 

Coerenza, che a mio parere, deve esserci fra la poesia scritta e ciò che si voleva intendere, ma non di meno fra la voce poetica e l’autore.

 

La coerenza mantiene indelebile la verità della poesia, mantiene costante il desiderio di viverla come strumento di visione della vita, solidifica la consapevolezza che il poeta è solamente lo strumento materiale della poesia, così come lo è il pennello per il pittore.

 

L’arte passa attraverso la penna del poeta, lo scalpello dello scultore, il pennello del pittore, con un unico denominatore comune: la poesia.

 

Tornando al testo “L’Opera in rosso” a proposito della poesia sulla poesia, nella sezione “Memorie, vive, come polline” a pag. 18 l’autore scrive:

 

Gli urli del vento,

e un sole, in alto, che prosciuga.

Le tende sbattono, coatte.

La ghenga dei piccioni occhieggia tra le foglie.

Un torbido gabbiano

osserva dal tettuccio di una Yaris.

 

(Questo che esiste

si lega, dentro, fino alla vertigine

è un’eco che rimbalza

dall’al di là delle parole alla finestra

lungo l’oscuro, tenace corridoio

delle sillabe, memoria).

 

Al primo sguardo si può parlare di poesia nella poesia.

 

Se si tiene conto della sezione inserita dentro le parentesi si tratta di una poesia a sé stante, il cui senso è pieno e può essere applicato a qualsiasi situazione della quotidianità di ciascuna persona, dalla quale poter raccogliere le parole. E’ una metafora descrittiva della poesia contenuta nella poesia precedente.

 

Parole com’eco di una memoria, del ricordo che si perpetua come fa la storia di vita, nel suo perenne ricominciare da capo pur trascorrendo avanti nel tempo.

 

Parole taciute, nascoste nei silenzi ed al di là della finestra, sguardo interiore.

 

Bellissima l’immagine creata nella prima parte della poesia: la natura resa più protagonista con suoni quali l’urlo, che rende palpabile la forza del vento; non da meno si può dire del sole, sottolineato dalla particolare spaziatura nel foglio, con il termine “prosciuga”, rendendo così il caldo del sole veramente insopportabile, pare quasi di sentirlo addosso.

 

L’ossimoro “torbido gabbiano” lascia un’impronta scomoda nel respiro della poesia mettendo in evidenza la stanchezza dell’animale e l’intrusione dell’essere umano, rappresentato da un’auto. 

 

La “,” in “Le tende sbattono, coatte” è un rafforzativo, una sospensione dello sbattere, al contempo ne fa rimbalzare lo sbattimento e la costrizione in tal gesto, pesante.

 

Si tratta di un fermo-immagine di un paesaggio nel quale l’occhio del poeta fissa nero su bianco i particolari rendendoli percepibili anche fisicamente.

 

Si percepisce tutto il limite intrinseco della parola, la poesia più vera è racchiusa nelle parole che sono al di là di esse stesse.

 

La bellezza della poesia di Morasso è  toccante, le parole non sono mai troppo ridondanti, l’essenzialità dei versi, la punteggiatura ridotta al limite, rendono ogni sua poesia un fermo-immagine che accalappia il lettore, lo fa entrare in punta di piedi nella visione del poeta, lo fa vibrare per poi risvegliarsi al di fuori di essa con uno sguardo nuovo.

 

Dalla prima sezione, a proposito di bellezza, Morasso a pag. 41 scrive:

 

L’attimo, e subito dopo il suo dopo

che rimbalza il fremito mortale,

eco di una bellezza che s’intuì

prima di andarsene

 

E la rilevazione che s’interna, torna

Illeggibile.

 

Poesia potente, nella quale l’elemento tempo viene sviscerato, saper cogliere l’attimo fuggente, in quanto il tempo di cui si può parlare è solo il presente.

 

Rimbalza il fremito mortale”: Bellissima immagine della fine di un attimo quando, quello successivo compare in un perpetuo andamento. L’arte dell’ascolto, lo raccoglie come un rimbalzo, quindi con tanta attenzione, 

 

La bellezza racchiusa nel rimbalzo, un’eco che penetra lo sguardo del cuore e lascia una traccia prima di sentire l’attimo fuggire via, con esso la sua bellezza.

 

Se ne comprende il senso solo volgendo lo sguardo in introspezione, guardando la traccia, il rivo o il solco lasciato dentro al proprio animo.

 

La rivelazione, lo disvelamento del bello che si ricompone e riavvolge dentro l’uomo, una sorta di nascondimento, divenendo così di nuovo mistero.

 

Dalla prima sezione “Memorie, vive, come polline” il profumo del fiore, a volte metafora di un ricordo è presente nella poesia scritta a pag. 49:

 

Dentro al vaso di coccio

la spiga del gladiolo, un fiotto

cremisi dal cormo, germogliante,

la vita continua

sotto forma di spirito,

nel mantra ipnotico di un nome.

 

Il gladiolo-Angela.

 

Soltanto un gioco fra di noi,

nessuna metamorfosi, purtroppo.

E tuttavia

    una gloria immaginata:

una realtà

 

La forza di un ricordo, divenuto di nuovo vivo grazie ad una bellissima immagine dentro ad una scena apparentemente statica, un vaso di coccio. Tutta la fragilità della terra, del contenitore e del tempo che continua inesorabilmente.

 

Lo spirito, quale fiato trattenuto di un amore, i cui baci hanno rimasto il sapore di un gioco. La loro intensità continua a farli rimanere vivi, veri ed animare il cuore, quasi a trasformare lo spirito stesso in un tempo-suono mentale sospeso.

 

La gloria immaginata non si è trasformata, ma ciò non toglie la verità del sentire, del sperare, del giocare, del sogno di un domani.

 

Il poeta Morasso rende in immagine l’importanza di un sogno, il continuare a viverlo, nonostante la vita riserba un disegno diverso da quello progettato.

 

Il titolo dato alla sezione stessa è indicativo della fertilità (polline) che la memoria può continuare a seminare, a far sentire la mente ed il corpo vivi.

 

A pag. 40 si legge:

 

 

  • Sto al centro della vita. No, ai suoi dueterzi.
  • Andremo via come potremo, quando sarà.

 

 

Non si sfugge all’amore che ci affanna.

Né al fuoco che c’incenera

e ci stacca.

 

Con quanta fatica

sto imparando a farmi amico

di ciò che mi condanna.

 

I primi due versi disposti verso il lato destro dello spazio creano l’immagine del tempo passato e del timore della vicinanza al restante prima della dipartita.

 

L’amore, forte come la morte, così come viene raccontato nel Cantico dei Cantici.

 

Esso, posto nel cuore della Bibbia: “… L’amata dice all’amato:  Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / tenace come l’inferno è lo slancio amoroso. / Le sue vampe sono fiamme di fuoco / una fiamma del Signore” (Ct 8,6-7). 

 

L’autore ha richiamato tale Cantico, mette in evidenza anche l’affanno dell’essere umano nel tentativo di amare e di essere amati, non riuscendo a comprendere quale dei due stati sia il più importante.

 

Amore e morte sono i due nemici per eccellenza: non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. 

 

Non si può sfuggire nemmeno alla morte che tutto riduce in cenere.

 

Gli ultimi tre versi a chiusa della poesia hanno potenza poetica e forza interiore, espressa nella volontà di migliorare l’animo umano, facendosi amico della morte.

 

Anche per amare veramente bisogna morire a se stessi. E’ una rinascita a vita nuova con un cuore più grande ed aperto all’altro, esattamente come, per chi è credente, accade nella vita vera, quella dopo la morte. 

 

Nella seconda sezione “Fra i fili della rete del vivente” a pag. 63 l’autore scrive:

 

Mia madre mentre piange al davanzale

della finestra in cucina, per via delle parole

di suo suocero, mio nonno, che vollero

di me fare un più piccolo me stesso,

un artigiano in piedi dietro a un banco

ostaggio di una buia identità

con il suo carico d’angoscia muta e inesprimibile

perché la vita è dura e non perdona

se ti trascina dentro a una realtà senza visioni

tarlata dal bisogno di far cassa.

La vedo, nella grazia, e ne sono riguardato,

poi ci avviamo insieme verso il tavolo e papà

distrutti e ricomposti

in un tutt’uno.

 

Bellissima poesia a richiamo ed omaggio alla famiglia, primo profondo amore, una restituzione sotto forma di libro e di ricordo del suo amore per il figlio, salvato dal destino di una mentalità mercantile.

 

La figura materna, è particolarmente importante, con le lacrime d’amore per il figlio e per il destino al quale vi è obbligo di condurre, un amore contrito ma certamente il più vero.

 

Fare di me un piccolo me stesso”: è un verso che trafigge, fa trasalire e rende palpabile la consapevolezza dell’autore  di un sé stesso di allora con le idee di cosa non voler essere, ma anche del rispetto delle persone di famiglia anziane .

 

Il bancone come trincea che distanzia dalla libertà di ricercare quale sia il vero Morasso, una buia strada da percorrere per scoprire la propria identità.

 

Perché la vita è dura..”  E’ una sorta di sentenza e di condanna alla quale non si può sfuggire, nemmeno al suo voler avere ragione sulle cose e sulle circostanze. 

 

La vita mette a nudo le cose, non si può più immaginare nulla, l’immaginazione è castrata e racchiusa in un pensiero magico bambino da dimenticare.

 

Il virus che danneggia l’immaginazione è il guadagno che se ne può trarre da qualsiasi cosa che lo riesca a portare nelle tasche: “Tarlata dal bisogno di far cassa” è il richiamo ad una delle poesie di Eugenio Montale.

 

Il basso livello di vita mercantile, senza la presenza di una sfera spirituale, viene esaltato con un ritmo ben preciso: ci sono enjambements che scandiscono i primi quattro versi, con una pausa alla fine del quarto verso, dato con l’aggiunta di una virgola, che obbliga il riprendere fiato, prima di essere di nuovo basiti dall’impatto concettuale susseguente nei tre versi ognuno di senso compiuto in sé.

 

Il ritmo della poesia è molto teso, per giungere poi al rasserenarsi negli ultimi quattro versi: la presenza della madre nella stanza, attorno ad un tavolo simbolo del focolare e della famiglia e la presenza del papà figura di tutela, divenendo così un tutt’uno. 

 

Rimanendo nella seconda sezione, a pag. 90 l’autore ci dona una poesia sull’amicizia, sull’amore per la lettura, e l’amore:

 

Amici? Pochi.

E anche quei pochi

scagliati fuori nell’idea

di diventare grandi, nell’anticamera dei giorni

a fare gruppo, a fare chiacchiera

e poi fumo,

e risponder così,

con l’abbraccio vinoso del non essere, 

all’immobile noia.

Mentre io mi nutrivo di immortali.

Una follia,

un popoloso apprendistato.

Ma è così che è l’amore.

Una follia. Uno scavo. Una memoria

dell’origine, febbrile.

Fa il giro del corpo

e scende nel futuro

lungo una strada d’oro e lapislazzuli,

lastricata di sogni…

 

Il poeta parla del proprio amore per la lettura, del carattere tendenzialmente molto riservato e non avvezzo a forme di amicizia amanti del vivere mondano, vissuto come insignificante, vuoto.

 

Il suo bisogno di conoscere lo faceva stare in compagnia di libri amici, nei quali assorbire avidamente la storia e la cultura, il pensare, con un pensiero critico di confronto e di crescita.

 

Bellissimal’ immagine creata nel descrivere il percorso che fa l’amore per attraversare la vita dell’uomo, facendo vibrare tutto il corpo per poi gettarsi nel futuro; sia che si parli dell’amore per la lettura, sia invece per l’amore relazionale.

 

La strada “d’oro e lapislazzuli” è la rappresentazione di un desiderio bellezza e di realizzazione dei sogni di vita.

 

La profonda spiritualità del poeta Massimo Morasso trapela in ogni poesia, è lo sfondo delle parole e delle pause dei suoi scritti.

In alcune poesie viene dichiarata la sua ricerca di perfezionamento spirituale, come si legge a pag. 82:

 

Anima, com’è difficile costruirti!

  Si sprecano

gli smottamenti

del volere

        a far fallire l’anelito più puro,

l’oscuro richiamo che ci ammalia,

a volte, dell’informe,

il caos, le sue passioni tristi.

E tuttavia  

               io sento in me

un’ininterrotta volontà più forte – 

febbre del fare per risplendere

congiunti, condensati, in una forgia.

Temprandomi. Temprandoti.

 

Dal punto di vista letterario, anche in questo scritto si può parlare di poesia nella poesia.

 

Se si estrapolano i versi scritti alla destra del testo: “Si sprecano / gli smottamenti /a far fallire l’anelito più puro / il caos, le sue passioni tristi / io sento in me”  si può intelligere il senso della poesia intera. 

 

Si percepisce la fatica interiore di ricostruire la propria anima, nonostante le inevitabili situazioni che fanno crollare la terra sotto ai piedi e il ripartire dall’inizio del cammino.

La bramosità di voler riuscire nell’intento di perfezione spirituale, il raggiungere la sua purezza: è una necessità viscerare del quale l’autore dichiara la propria consapevolezza nel dire “io sento in me”.

 

Ma c’è un “tuttavia” che rappresenta la speranza e la certezza che il flusso divino, forza di volontà, presente ininterrottamente, sia la fonte alla quale attingere per giungere alla purezza e ridonare al mondo il suo splendore.

 

Una forza talmente salda che diventa un tutt’uno con la propria anima, la forza interiore divina, il corpo che le contiene.

 

Il verso di chiusa è potente, tagliente, diretto, è una forza che penetra qualsiasi muro vi si ponga, anche per i non credenti.

 

L’uso del “.” crea il senza fiato necessario ad una interiorizzazione di tutta il significato ed il senso della poesia.

 

E’ una presa di coscienza spirituale di se stesso, ma anche un invito al lettore di riflettere su tale esperienza e di emulazione di essa.

 

La terza sezione dell’opera in oggetto “Pensare: silenzio” è composta da un’unica poesia a pag. 99, in cui l’autore in incipt richiama un verso di Grigorij Skovoroda:

Ognuno è là dov’è il suo cuore”.

 

Nel testo della poesia si ritrova il richiamo all’unione fra mente e cuore, lo spirito che ridona il sorriso alla vita, la grazia che accompagna la vita in una “misteriosa compresenza” nell’eterno, nell’attimo, nel presente. Il silenzio, lo spazio che accoglie il tutto.

 

Non aggiungo altro, lascio al lettore l’interpretazione della citata poesia che scrivo a conclusione della mia riflessione sulla poetica e sulla silloge “L’opera in rosso” di Massimo Morasso, con tutta la mia stima.

 

Pensa alle vele, al lasco della scotta

    E altri pensieri spalancati

Sopravvento. Pensa

Pensieri che lo uniscano e s’immagina

Una rotta lineare, un passo a due, un passo

Verso il cuore,

e uno del cuore verso di lui.

    Randa

E timore, la trama delle cose che lo aiutano

A farsi spazio negli sbalzi del tragitto,

pensa a se stesso

che si concentra come un’onda

indivisibile nel flusso, punto a punto,

poi all’improvviso smette di pensare e le sorride

affidato come un novizio.

Sorridendole sente la grazia

La misteriosa compresenza

Di ogni vita.

Sente una logica

E la bellezza che sta nel suo sentire

L’eterno l’attimo il presente,

pensa ai suoi cari

dentro al pensiero che adesso li contiene

anime perse, spera, in un chiaro mutamento,

        sente il respiro

distendersi in un ritmo

nel suo silenzio largo

quieto, senza arbitrio, in un vivente nudo, appeso

al proprio inesauribile principio, sente nel petto

un creaturale rispondere a una legge

fra moto e stasi fra materia e idea

sente la vita nel profondo silenzio

che tutto avoca a sé

in una lotta senza fine: boma e tangone

                                               l’uno accanto all’altro

sente e la sente

inesorabilmente

termine e porto, bussola e orizzonte,

con la pozzanghera che brilla

nell’operoso silenzio del pozzetto,

sente la resa e la vittoria del Signore nella Notte

che, potentissimo, rinuncia alla sua voce

sente parole non parlate

reciprocamente consumate,

sente le fibre d’oro del miocardio

la fronda delle arterie

come un tutto, unite in una danza, sente la pelle

che gli spruzzi aggricciano,

sente in un refolo una voglia sconfinata,

e poiché ormai sa di non poter conoscere 

l’al di là che si riverbera in parole,

          non per questo

non crede

di non poter sentire in lei il suo stesso fremito,

quando sfonda il suo perimetro la mente

            conciliando il disaccordo fra pensiero e senso

sotto una lunga, bianca scia lunare,

entrambi in viaggio, adesso,

da soli e insieme

mutamente

              amici


Mia lettura sul poemetto “Orme intangibili” – di Alessandro Ramberti – Fara Editore 2015

 

Alessandro Ramberti è nato a Santarcangelo, laureato in lingue orientali, scrittore, poeta, operatore culturale. Un estratto del poemetto “Orme intagibili” è stato inserito in Italian Poetry Review, VIII, 2013.

 

Orme intangibili è un testo da gustare a piccoli sorsi, molto inteso e ricco, da meditare, anche se credo non sia sufficiente per scoprirne i segreti, forse presenti anche per l’autore.

 

E’ un’opera molto originale per la modalità di scrittura: con versi in quartine composte da endecasillabi alternate dalla rima posta fra loro; a loro volta sono alternate da un verso chiuso  fra parentesi, componendo un momento di sospensione nella lettura della poesia, generandone una nuova all’interno della prima.

 

Con una diversa chiave di lettura, il verso fra parentesi pone un’ulteriore riflessione sul concetto racchiuso nella quartina precedente. Inoltre in calce a ciascuna poesia viene inserito un simbolo-parola in lingua cinese, con successive frasi quali scorci di pensiero letterario, poetico, filosofico di altri autori, quali Camus, Kant, Papa Francesco, ecc.

 

Inoltre in esso sono presenti schizzi con la tecnica della china, raffiguranti volti, apparentemente inespressivi, spauriti, il cui genere non viene ben definitivo, a parte il primo di profilo, appartenente a quello femminile, dall’espressione di chi cerca l’oltre rivolto verso l’alto. 

 

Mi soffermo su tale schizzo in quanto, a mio parere, è la parte grafica che racchiude il senso e l’essenza di tutta l’opera.

 

Il fatto che sia abbozzato con i contorni definiti, con la trama che lascia trasparire una sorta d’incompletezza del disegno è a simbolo della condizione umana, volutamente resa imperfetta dal suo Creatore, in quanto essa stessa bisognosa di altro ed altre presenze per giungere alla perfezione, lasciando così un’”impronta” decisa e netta lungo il cammino.

 

Credo che un’altra chiave di lettura dell’apparente inespressività dei volti, la loro dubbia identità di genere o temporale, sia una riflessione su come di solito si guarda alle cose fermandosi solo alla loro apparenza.

 

L’essenza delle poesie è il richiamo a Dio e al Creatore nelle sue diverse sfaccettature, scoprendolo nella quotidianità, nelle difficoltà, nei limiti umani.

 

A pag. 29 si legge:

 

Nessuna strada è data a chi si arresta

sui suoi passi la storia corre sempre:

le genti si dislocano e il migrante

è il simbolo vitale che l’attesta.

 

(Lo sciame si avvicina.)

 

Da piccolo chiedevi di ogni fatto

il perché poi capisti che i minuti

segnalano il trascorrere dal corpo

alla salma silente e senza tatto

 

(si chiude la cabina)

 

mentre l’anima avrebbe navigato

in una dimensione sconosciuta…

Restavi lacerato da risposte

segnate dalla cura del creato

 

(la manna non è brina)

 

le scelte alternative dell’umano:

paura che non genera apertura

con l’immaginazione su crepacci

di buio sconfinato. Il vuoto in mano

 

(la scienza si declina)

 

non riesce a contenere che una cella

del cosmo in espansione – eppure è tutto

se viene consacrata nella cella

in cui si squarcia il cielo della stella

 

(luce di scia divina)

 

che ha riscaldato i cuori dei viandanti

a Betlemme e continua con i nostri

- discepoli di Emmanus – consolati

dall’Io-sono presente in tutti quanti.

Non si può non sobbalzare di fronte ad un tale scritto, direi uno fra i  simbolici di tutta l’opera: lo scorrere delle cose e dei fatti nel tempo imprendibile, al di là della nostra volontà esso continua a scorrere così come lo sono i passi compiuti dall’uomo, anche quando sembra essere statico, nel ripetersi della storia, la propria e non solo. 

 

Il migrante, colui che è in continuo cammino alla ricerca di se stesso e di cosa altro c’è da scoprire ogni giorno. 

 

Oggi più che mai il migrante è al centro delle attenzioni e disattenzioni da parte di uomini ed istituzioni, ma è altresì un simbolo della condizione umana che si perpetua nello scorrere del tempo.

 

“… e il migrante è il simbolo vitale che l’attesta” è anche la ricerca continua senza mai giungere ad una risposta piena e completa, di Dio, di se stessi in lui e nel prossimo, rimanendo sempre con una domanda: Dio dove sei? Come posso vederti?

 

Continuando la mia interpretazione, nella seconda quartina il richiamo al destino umano della morte è stato reso tangibile con un linguaggio dolce-amaro che invita all’immagine del cammino verso di essa; il corpo, prima rumoroso e parlante, si trasforma in un oggetto silente, come un vestito lasciato cadere ai piedi in un corpo pronto – se così si può dire – ad abbandonare la dimensione conosciuta per l’oltre.

 

All’anima, la vera parte parlante della persona, le viene data voce di un desiderio di continuare nelle onde della vita, come un mare di cui non si vede l’orizzonte, ma se ne sente il profumo, si percepisce il movimento delle onde, alti e bassi della vita; a volte si comprendono, in altre si affronta, ed in certi casi se ne rimane feriti.

 

Il suo viaggio non si ferma nel mare della vita, ma il desiderio più recondito è quello della dimensione “sconosciuta…” in quanto non descrivibile, non visibile, della quale il corpo non può fare esperienza di tatto. Tuttavia è la dimensione della quale si ha la sete vera, come colui che arso dalle circostanze della vita ha bisogno di raggiungere la fonte da cui attingere l’acqua viva.

 

E’ sufficiente osservare il creato, con lo stupore di anima bambina, gustarne i profumi, la bellezza perfetta in un petalo, in una goccia di rugiada, nel verde di foglie desiderose di muoversi e danzare al soffio di una brezza mattutina di una giornata di sole estiva.

 

Tutti questi doni non possono che far sentire l’uomo “lacerato da risposte / segnate dalla cura del creato”. Per chi è alla ricerca di Dio tutto è segno della Sua presenza e della sua Mano.

 

La consapevolezza di tutto ciò porta a riflettere su cosa rimane con la sua assenza.

 

Il primo pensiero è rivolto alla paura, all’incertezza, all’aridità nei rapporti umani, alla perdita della dimensione del reale, della bellezza dei colori scoloriti da un buio fitto che lascia l’anima infeltrita. Persino l’immaginazione perde l’espansione del suo andare.

 

“..Il vuoto in mano”: non poteva essere scritto un verso migliore per descrivere cosa resta nelle mani umane, nodose e chiuse in un pugno, se guidate dall’aridità, rivolte verso l’alto in richiesta di supplica, comunque vuote.

 

Un vuoto pieno della miseria umana quando si segue un cammino in solitudine, non tanto fisica, quanto piuttosto senza ascoltare la presenza di una Mano alta che guida i passi verso una “dimensione sconosciuta”.

 

Dopo una riflessione, nella penultima quartina giunge anche la risposta del limite di che cosa una mano umana possa contenere, ma proprio quel limite diviene la forza umana se essa viene vissuta con la sacralità della luce donata al mondo, cellula divina, accaduta nell’Ultima Cena di Cristo.

 

Evento storico e religioso che ci ha resi tutti discepoli dell’Io-sono, il nome col quale Dio si presenta.

 

I tentennamenti e le incertezze fanno parte dell’umano cammino, e la ricerca di Dio è la “scarpa” giusta per rimanere in piedi o sapersi rialzare durante gli inciampi o  su quale strada percorrere difronte ad una difficile scelta.

 

Se, del testo, si uniscono i versi chiusi fra parentesi, rafforzativi ed esplicativi del significato nascosto nella poesia nel suo insieme, anche se forse di primo impatto distraggono dalla fluidità della lettura e dall’immersione nel testo,  di fatto ne compongono una nuova, con un ritmo forte, intriso di sonorità, “sintetica” della poesia nella quale essi sono contenuti:

 

 “(Lo sciame si avvicina)

(si chiude la cabina)

(la manna non è brina)

(la scienza declina)

 

(di luce scia divina)”

 

Il travaglio e lo scombussolamento della  corpo che chiude gli occhi e con essi anche la vita sono molto intensi nell’uomo. Guardare al creato è una cosa seria non può essere confusa con qualcosa che prima o poi si “scioglie” come la brina. Nulla può fermare o cambiare tale condizione, nemmeno la scienza. Lo sguardo verso Dio Creatore è luce nel nuovo cammino.

Faccio un passo indietro alla premessa al libro, nella quale a pag. 13  viene richiamata l’importanza dei limiti, quali “motori” per far balzare le potenzialità umane e quelle divine insite nell’uomo, fa sì che sia Dio a continuare il lavoro.

 

Colpisce, in particolare, che la premessa voglia essere un invito al dialogo con se stessi, ponendo delle domande al lettore per aiutarlo a scoprire i talenti e i doni per giungere a “spiccare il volo”.

 

La chiusa alla premessa è un’onda che scuote e fa trattenere il fiato:

 

“..ricorda che se cerchi la tua strada

è necessario prima che ti perda”.

 

E’ molto forte il messaggio dell’essenzialità di dover accogliere, accettare, amare i propri limiti; caratteristica dell’appartenenza al genere umano per non peccare di superbia, a ricordo della nostra essenza a “Sua immagine”. 

 

Con l’amore poter trasformare tale “muro” in uno strumento di crescita per andare oltre, divenire altro per essere un dono migliore per sé e per gli altri. 

 

Tutto questo in risposta al Comandamento di “amarci l’un l’altro come Lui ci ama”.

 

In tutto il testo è presente, in maniera più o meno trasparente, la necessità di acquisire sempre più la consapevolezza della nostra fede, e tramite di essa, saper percepire, possibilmente attuare, i nostri talenti.

 

Strada facendo anche il fermarsi un attimo a riflettere: se a volte ce li dimentichiamo; se l’orgoglio di potenzialità cognitive si sostituisce all’armonia generata dall’unione di cuore-mente; per  scoprire altro dono ricevuto insieme alla vita, oltrepassando così un limite, spesso da se stessi imposto e rinascere più volte nella medesima esistenza.

 

A proposito della ricerca di Dio, una dimensione sconosciuta, alla quale si può arrivare in tante maniere, a volte anche  con un sogno, quale segno importante. Così come può essere “una strada” anche la sofferenza fisica, nelle mani di Dio, quale potente strumento di luce per dirigere il nostro sguardo verso il raggiungimento del Disegno. E’ palpabile che sia la Fede ad illuminare la mente, incompleta nella capacità di comprensione.

 

Riporto, senza ulteriori commenti, quanto contenuto nell’Antefatto a pag. 15:

 

“Ho sognato di avere

il cervello percorso

da una lancia gettata

da qualcuno indistinto

e remoto…riuscivo

ad estrarla. Col cranio

perforato dal tunnel

luminoso e perfetto

senza tracce di sangue,

lacrimavo contento:

 

ero vivo e cosciente.

Ed ancora a pag. 34:

 

“Sai che non ricordiamo volentieri

le cose brutte i traumi ed i dolori:

spesso il sorriso è l’unica chiave

in grado di assorbirei buchi neri

 

(la loro congiunzione)

 

di scavalcare l’attimo ed accettare

la carica potente di perdono

che sfolgora inchiodata sulla croce

del Golgota che ha smesso di tremare

Continua il dialogo immaginario con un “Tu” lettore o una persona, parte del ricordo al quale la poesia si riferisce. Una sorta di “altalena temporale” fra un ricordo ed un prossimo incontro.

 

Si tratta di un concentrato in pochi versi del valore potente di un sorriso, espressione dell’amore dal cuore per ritrovare la serenità, sentire la vicinanza di qualcuno, rattoppare strappi all’anima o ricucire vecchie ferite, tutti “buchi neri”.

 

Il sorriso pieno e vero nasce dopo l’accettazione di tutti i buchi neri, quali schegge di Croce, quella che ha fatto tremare la terra quando lo Spirito è stato  “consegnato nelle mani del Padre”.

 

Il perdono quale atto d’amore sublime  ed assoluto,  a partire da quello con se stessi.

 

La bellezza, il sorriso come uniche armi per assorbire i buchi neri, il perdono come massima espressione d’amore e di libertà, il coraggio d’intraprendere la propria strada da scoprire col cuore, il dolore come dono per avvicinarsi di più alla Croce.

 

Il richiamo all’amore, in senso lato, spirituale ed umano è espresso nella poesia a pag. 37:

 

“L’amore porta l’anima all’inizio

l’abbraccio cuore-spirito è tatuato 

nelle membra che l’hanno sostenuta:

già belle per il fuoco del giudizio.”

 

L’amore, come purezza d’animo, quello di un bambino; purezza d’animo generata dall’unione con l’amore divino, della quale non possiamo modificare nulla, è un fatto appartenente all’essere umano, così come ci ha creato. Amore volutamente indelebile, al quale fare riferimento per mantenere la purezza o riabbracciarla prima di giungere al Suo cospetto.

 

In tale passo si sottolinea maggiormente la battaglia continua che l’umano fa con se stesso per rimanere unito al cuore ed avere così una chiave di lettura interiore aperta alla traslazione col mondo fuori e l’oltre.

 

Altri valori fondanti la vita e la morte sono contenuti in tutto il testo, sempre con una scrittura essenziale, diretta, ricercata, ma proprio per questa molto complessa nella sua semplicità.

 

Una scrittura la cui composizione crea immagini forti legati ai concetti di religiosità e stati d’animo difficili da circoscrivere e al contempo rendere intelleggibili.

 

A proposito d’impronte o orme, in tutto il testo è molto forte il richiamo a saper riconoscere i “semi germogliati” lasciati cadere su un terreno umido, impronta e frutto di dono divino; a saper accettare gli sbagli quali strumenti per crescere anche spiritualmente, cadute e risalite appartenenti ad un Disegno, nel quale convivono il bene e la zizzania; nel libero arbitrio è la scelta.

 

La carità quale forma più alta d’amore, che ci fa “salire” sulla tela della vita eterna, quali colori di essa stessa. Siamo tutti unici.

 

Tale interpretazione è sorta nella poesia letta a pag. 50, per me scrittura esplicativa del senso di tutta l’opera:

 

“Lasciamoci portare dalle impronte

così profonde sul terreno umido

così invisibili se consumate

sulla roccia. E’ importante avere la fronte

 

(l’esame in ciò ci aiuta)

 

attenta a dove andiamo: anche gli errori

ci posizionano; la carità

ci dà carica poiché il servire

ci mette sulla tela coi colori

 

(profuma la veduta).

 

Gli ostacoli diventano le tappe

le svolte e le sconfitte quelle tracce

che danno l’unicità al nostro cammino

per cui le anime nostre sono mappe

 

(scrittura mai compiuta)

 

capaci di risolvere il groviglio

che a noi stessi risulta incomprensibile

terreno misto di grano e zizzania

sorgente di inquietudine e consiglio.”

 

Sono tanti gli argomenti affrontati nell’opera, compreso il valore del silenzio e la difficoltà al reale ascolto di esso e dello Spirito.

 

L’essenza e messaggio del testo: amare i propri limiti, amarsi con carità, non dividere la mente-cuore, rimanere l’impronta dei propri passi verso la luce, anche se nel cammino s’incontrano terreni con la zizzania, senza cadere nella superbia credendo di essere in grado da soli di progetti babilonici. Ama.

Forlì, 30 luglio 2020

Marzia Biondi


PIENEZZA

 

Emozioni, è un lemma molto intenso, intriso di centralità ed al contempo di condivisione.

 

In maniera un po’ “burlesca” si potrebbe suddividere la parola in “Emo”, cioè nascente dalla profondità di sé, dal flusso che attraversa le vene, nutre tutto il corpo e dona calore trasmesso in una stretta di mano; e “Zioni” l’abbreviazione di “azioni” cioè il passo successivo al fluire rappresentato nel dire, esprimersi giungendo così inevitabilmente all’interazione con l’altro, indipendentemente dal reale ascolto da parte dell’interlocutore.

 

Quando si esprimono stati d’animo, pensieri, titubanze e perplessità,  a volte ci si trasforma in un ventriloquo parlante con se stesso; non si guardano le pupille di chi si ha di fronte, ma ci si “specchia” in uno sguardo immaginario.

 

L’incipt che ho utilizzato è apparentemente cerebrale con il punto di partenza nella sfera psicologica, ma quando di parla di emozioni è impossibile scindere l’essere umano in sezioni a “scompartimenti stagni”.

 

Se si cerca su internet l’interpretazione del lemma “Emozioni” si legge: “Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interne od esterni, naturali o appresi…..Le emozioni sono un processo multicomponenziale”.

 

Mi s’incartapecorisce il cuore nella lettura di tale definizione, la quale sbiadisce la forza motrice dell’agire umano nel mettersi in relazione con l’altro, quindi anche con sé stesso.

 

Indubbiamente il marasma o l’armonia interiore di ciascuno deve essere interpretata e categorizzata prima di poter decidere quale azione intraprendere, se farlo, oppure rimanere inerte, ad ogni modo è un agire. 

 

Uscendo dall’ambito psico-intellettivo ritengo che parlare di emozioni, viverle nella loro naturalizza ed indispensabilità siano elementi determinanti per la sinergica composizione di fattori culturali, individuali ed interiori con l’obiettivo di un’armonica esistenza.

 

In tutto questo l’amore è il collante nei momenti di sbalzi ed impennate nelle difficoltà della vita e nell’accettazione di essa così come ogni giorno accade d’incontrarla con le pupille accese.

 

L’amore che fa battere un ritmo interiore, nel petto, nelle gambe e sulle labbra; le emozioni in un contatto leggero, intenso, profumato di due labbra che si avvicinano, tacciono mentre tutto il resto grida gioia, immensità e l’indicibile:

 

la pienezza della tua impronta

nell’acceso ricordo

di parole intimamente sentite

 

in silenzi eloquenti

 

La poesia appena scritta è tratta dalla mia ultima silloge “L’amaca dell’abbraccio dissetante” – Raffaelli Editore – 2018

 

A proposito di pienezza, quale parola può appagare e riempire l’animo più di quello che il silenzio ci dona?

 

Anche in un bacio le labbra tacciono, il silenzio padroneggia, nell’apparenza delle cose.

 

Parlare di emozioni è raccontare quello che tutti i giorni facciamo: trasferire all’esterno una parte della nostra personalità, anche quella a se stessi ignota. 

 

Nell’interazione inevitabile col mondo esterno riconosciamo noi stessi e le differenze che ci accomunano o ci distinguono dal prossimo. Il nostro corpo è lo strumento principe per identificarci in uno spazio e nella dimensione concreta materiale.

 

E’ fondamentale ricordarsi che tale dimensione concreta materiale è uno “scrigno” che racchiude la nostra immensità, dono divino. Anche le emozioni, a volte per alcuni tanto “scomode”, ne fanno parte…….

 

“dammi le tue mani

eccole si avvicinano

Sono calde

 

il tuo indice cerca

il mio volto timidamente si accosta

lo sfiora, si abbandona

 

cerca sale ancora un po’

sento il giallo

dei raggi di sole su spighe di grano

 

ancora più su ecco il bianco

delle ali di un gabbiano in volo

nel blu del cielo

 

che meraviglia

l’aria entra fra i miei seni

si espande e con essa

 

la mia gioia

 

dalle tue mani arcobaleno

il verde spunta come fili d’erba

un’onda spumeggiante mi abbraccia al mare

 

il cuore guida i polpastrelli fino a palpebre serrate

pensanti tende su di un palcoscenico infeltrito

buio

 

un dito un volto due cuori in uno

il calore dell’amore lo accende

con esso la luce

 

Anche questa poesia fa parte della mia terza raccolta “L’Amaca dell’abbraccio dissetante”.

 

Quello che possiamo guardare veramente è la bellezza intravista nelle semplici cose, nei semplici gesti, ma per tale natura contengono la vera pienezza.

 

Permettetemi di ricordare una parte delle “nostre origini” richiamando un brano dal Vangelo di Matteo – Capitolo 18:

 

In quel momento i discepoli vennero a chiedere a Gesù chi di loro sarebbe stato il maggiore nel Regno dei Cieli.

Gesù chiamò un bambino, lo mise in mezzo a loro e disse: “Se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete mai nel Regno dei Cieli. Perciò, chi si fa piccolo a livello di un bambino, è il maggiore nel Regno dei Cieli. E chi accoglie un bambino come questo nel mio nome, accoglie me. Ma se qualcuno di voi, con le sue azioni, ostacola la fede di uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui avere una macina da mulino legata al collo ed essere gettato in mare!”

 

Si potrebbe scrivere un libro per parlare su tale brano, ma quello che mi preme ora è riflettere sulla pienezza del cuore di un bambino, in quanto ancora non “intorbidito” da mani umane.

 

Riflettere sulla potenza di tale cuore nel donare puramente amore al compagno triste e consolarlo, nel donare un soldino ad un senza tetto mentre chiede alla mamma: “Mamma perché quel signore è tutto sporco, solo e dorme con un cartone in testa?”

 

Guardare l’intensità della mano di un bambino quando il cagnolino, scodinzolando, “gli chiede” di andare a fare due passi insieme ed egli lo stropiccia sulla testa e se lo porta a sé stringendolo al petto.

 

Ed ancora ripensare a quando, con cuore bambino, ci sono persone che con le loro mani accompagnano  altri non vedenti nei momenti di vita quotidiana; o più ancora quando persone che hanno vissuto per anni in un modo “normale”, a causa di malattie si trovano a non poter vedere i colori della vita, se non tramite la pienezza delle mani di chi li ama.

 

mute intense savie di sensi

con esse siamo umani

Imperfetti nel donarle

 

disumani diveniamo quando

in armi esse trasformiamo

e cuori e menti lasciano sgomenti

 

più nulla rimane né di esse né dell’umano

se non l’urlo silente di

una mano che ti cerca lontano”

 

La poesia suesposta è tratta dalla mia seconda silloge “Soffi di vita” 

 

Quante parole sono incastonate in quelle mani che amano, stringono per sostenere, trattengono per consolare, sfiorano per accarezzare le lacrime di un volto abbandonato, tentennano nel toccare per non rovinare la sacralità della vita il cui vagito saluta il mondo per la prima volta…..

 

La nostra polverosa umanità si manifesta nella sua pienezza quando le parole non sono in sintonia col nostro agire e finiamo per mostrare tutta la disumanità che è insinuata nel cuore e col proprio dire se ne uccidono altri.

 

Si dimentica che apparteniamo a Mani più grandi, esse non ci abbandonerebbero mai.

 

Quando ci sono momenti di screzi o incomprensioni in una coppia o fra persone amiche si sente la necessità di riappacificarci con loro, a volte per non rimanere soli, in altri casi per un senso di benessere che deriva dal sapere di “essere a posto con tutti”.

 

Nel sentirsi inadeguati e non sapere come fare per “recuperare” è prassi comune a diverse culture quella di regalare oggetti o simboli per chiedere scusa o dire “guarda che nonostante tutto ti amo ancora”.

 

Regalare fiori è il primo pensiero o gesto che si compie, magari una rosa, simbolo di amore e di passione.

 

Consiglio caldamente di riflettere prima di compiere tale scelta. 

 

La natura ha pienezza per sua “natura” in quanto creatura di Dio; nel seme è racchiusa la quercia, l’ombra che può donare, la forza delle sue radici, i rami come “nido d’amore” per gli uccelli, la bellezza di forme ed armonia di colori per donare l’amore tramite l’immensità della bellezza, fonte di vita.

 

Non offendere la natura strumentalizzandola ad uso improprio e per scopi poco morali è uno dei gesti d’amore da non omettere. Il mancato amore è il peccato principale in ordine “gerarchico”.

 

Tuttavia se il gesto di una rosa diviene dono, allora ne contiene tutta la pienezza (dalla mia seconda raccolta “Soffi di vita”:

 

ROSA

 

“una porosità candida lascia passare

il raggio d’amore

trattiene a sé ogni ardore

 

ogni petalo di cristallo raccoglie

un profumo intenso soave da donare

a chi come lei sa amare

 

profumi ancestrali, inebrianti

i pensieri ora volan in luoghi lontani

la mente perde la guida del cuore

 

si ha quasi il timore d’infrangere

la sua innocente bellezza

il suo profondo ed intenso odore

al sol posare il desideroso sguardo

 

ma insieme ad essa dona amore

 

a turno dal petalo più grande a quello più intimo

porta in serbo

segreti pensati, speranza taciuta, amore mostrato

 

col sol gesto di una rosa bianca

 

paion pensieri un po’ folli strani

come il candido profumo “messaggiato”

la bellezza sfiorita in un “aggiornamento” mancato

 

i fili argentati forse non immaginano né assaporano

il profumo l’intensità dell’amore

in un petalo moderno

 

ai posteri l’ardua sentenza

a noi rimane solo

il dire il gridare l’amore

 

con un poroso candido profumo ancestrale”

 

Da qualsiasi angolazione vi voglia guardare all’uomo, è impossibile non giungere alla conclusione che per quanti atteggiamenti positivi, per quante buone azioni vengano compiute, rimangono altrettante situazioni per le quali è necessario ed inevitabile dover chiedere scusa agli altri ed a sé stessi.

 

Il bisogno di riappacificarci con qualcuno è un’emozione molto profonda ed intensa, che non permette di godere appieno di altre situazioni o occasioni di vita quotidiana per quanto belle ed importanti.

 

Manca sempre qualcosa di veramente “pieno”.

 

Ritorno al Vangelo di Matteo, capitolo 5:

 

“In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio, e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geenna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice  e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finchè non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”.

 

Forse è questa la ragione per la quale l’emozione di “non sentirsi a posto” può esser vista in senso positivo: ci ricorda che nessuno di noi è più di altri, ma è semplicemente umano; in quanto tale non si ha alcun diritto su altri di giudizio o di accuse spesso mosse solo per nascondere le proprie iniquità.

 

Altresì, ci viene posto d’innanzi l’importanza della concretezza delle proprie emozioni, paradossalmente, non sono sufficienti gesti, oggetti o parole vane, se non corrispondono ad una reale metamorfosi interiore, del quale il nostro corpo ed atteggiamento sono testimoni.

 

A nulla servono, se non a farci sprofondare di più “nelle sabbie mobili” della vita che ci si costruisce da soli.

 

Purtroppo, tutto ciò non è sufficiente per scamparvi, ed ecco la necessità di essere perdonati.

 

Mani grandi non ci lasciano mai soli, attendono solo che quelle piccole le stringano forti e dicano di cuore bambino “Ti prego, aiutami! Solo tu sai”.

 

La pienezza che deriva dal chiedere perdono ricevuto è già in parte “riempita”; manca il perdono dato a colui che nell’intreccio dei sentieri di vita ci ha donato involontariamente l’opportunità di conoscere il bisogno di perdono e di riuscire a donarlo, avvicinandoci così all’amore assoluto paterno.

 

Dalla mia prima raccolta “Ogni istante” – Gruppo Albatros

 

UN LONTANO SIBILO

 

“Parole, parole, parole

Orecchie ascoltano ma non capiscono

credono di essere verità.

 

Il Tempo sembra tornare indietro

anche se il presente “vede” il futuro

 

Incredulità e Forza “nutrono” il cuore

che ogni giorno mostra sempre più la sua

Grandezza

 

Aspettami, non abbandonare la strada.

 

Dentro c’è la certezza che lo Spirito dona

Sapere

Che tutto è più grande di quello che è.

 

Solo il Dopo farà da testimone di ieri e di oggi:

 

odio, potere, perfidia, ipocrisia, “libidine usata”

colpiscono l’Anima nel desiderare il suo scoppio.

 

Queste “armi” non sanno di essere “ubriache” della loro

“sporcizia”.

 

La Luce dissiperà il fango della menzogna

Di “loro” non resterà che

Un lontano sibilo

 

Signore perdonali

 

A ben guardare con la vita ci sono state donate anche le parole alle quali riferirsi per sapere come recuperare ad errore, come amare nel senso pieno del termine, come giungere al termine della “corsa” con senso di pienezza ed abbandonarci a vita nuova.

 

Più che darci umani risposte, è bene porsi domande su chi siamo; grazie alle emozioni che tale domande scatenano, continuare la ricerca della vita nella vita e lasciare sempre un punto interrogativo (dalla mia ultima raccolta “L’amaca dell’abbraccio dissetante”):

 

chi è l’uomo per

rimanere in piedi

di fronte ad una rosa

 

l’anima si fa corpo e core

nel vellutato profumo

da ogni petalo nascente avvolgente

 

nell’inchino sei accolto

dalle sue foglie

braccia aperte sorelle

 

senti le sue spine

ricordano la reale altezza

della natura la bellezza

 

chi è l’uomo per….

Forlì, 14 marzo 2020 Marzia Biondi


PREGHIERA …….E NOI

 

Il mio mettere nero su bianco non vuole essere né un trattato di Teologia, non ne ho le competenze, tantomeno “istruzioni per l’uso” su di un argomento così ampio, ricco di aspetti poliedrici sconfinanti in altre manifestazioni di comportamento ed esigenza umana, quindi complesso, come quello della preghiera. 

 

Atto complesso, in quanto l’invocare un nome Alto è il gesto più semplice ed istintivo effettuato , oso dire, da ciascun essere umano, all’interno del proprio credo più volte nell’arco dell’esistenza.

 

Gesto semplice e proprio per questo paradossalmente complesso.

 

Inoltre ,da quel che ho inteso, lo scopo di  ritrovarci qui, con un diverso background culturale ed umano in un contesto religioso, sia quello di un arricchimento reciproco, donandosi nel  proprio molto o poco che sia.

 

Il vero fluire delle cose, preghiera compresa, sarà il suo plus valore.

 

Meglio fermarsi un momento; a mio avviso non si può parlare di preghiera senza accennare al concetto di fede, anche quando ci si rivolge a persone non riconoscenti in loro tale dono oppure non sono consapevoli del suo utilizzo.

 

Fede, intesa come fiducia, affidarsi a Qualcun altro abbandonando il nostro istintivo bisogno di essere artefici di noi stessi, accettare umilmente la condizione di essere incompleti e ritornare ad essere polvere. 

 

Ciò che si potrebbe ancora dire sulla fede sarà presente parlando di un suo strumento, la preghiera.

 

Che cos’è la preghiera? 

 

Domanda molto profonda, ad ampio raggio; se si pensa ad una metafora si può immaginarla come il sole dal quale si dipanano i raggi per illuminare il mondo, luna compresa, quindi anche quando la fonte si cela ai nostri occhi.

 

In modo sottile e concettuale, semplicemente, si può parlare di preghiera come di un intenso pensiero colmo di speranza, fiducia, certezza di comprensione; un pensiero che pare renda l’attimo del suo divenire atemporale mentre ferma il fluire delle cose, l’immagine del mondo intorno e la percezione del sé. Un pensiero  dal cuore nascente e rivolto ad Altro da noi.

 

Accolgo la palese provocazione effettuata da Ramberti, mi corregga se non è così, nelle varie sollecitazioni per la riflessione sulla preghiera, nelle quali sono presenti molti punti interrogativi.

 

In effetti possono essere tante le ragioni per le quali ci si ritrova, nei momenti e contesti più disparati, ad avere nel cuore il pensiero di cui ho parlato poc’anzi; ma prima di iniziare a vederne alcuni vorrei soffermarmi su uno dei suddetti punti interrogativi.

Ho accennato alla preghiera come momento di stand-by temporale, tuttavia penso non si possa parlare di “vuoto”, come accennato fra le domande introduttive della Kermesse.

 

A mio parere il vuoto è un concetto utilizzato per categorizzare qualche cosa di cui non ne comprendiamo il senso o non riusciamo a raggiungerlo per la sua distanza dallo schema della propria forma mentis, in realtà non esiste. 

 

Si può parlare di una diversa forma di pienezza da scoprire, o della quale essere consapevoli quando ci si ritrova a “navigarvi” senza remi. 

 

Agli occhi occorre vedere qualcosa per scoprirne l’oltre quando questo si cela.

 

Tale concetto associato alla preghiera, ne diviene un elemento costitutivo; per meglio dire tramite la potenza della parola e della spiritualità in essa intrisa ed infusa la persona abbandona una parte di sé abitualmente utilizzata nella relazione propria e con gli altri.

 

E’ un aspetto cognitivo che perde il primo piano relazionale, lascia emergere un altro livello appartenente all’”uno” della persona stessa; di qui la percezione del senso di “vuoto” intorno più che interiore. Mi riferisco alla sfera spirituale che prende voce e dona brace alle parole invocate, le guida, dona loro corpo.

 

Cerco di rendere visivamente più tangibile quanto ho espresso introducendo parole poetiche; anche la poesia è una forma di preghiera, dato che il senso del suo essere è quello di mettere a fuoco la realtà delle cose, tutto è dono, compreso ciò che non si vede (il vuoto?).  

 

Oso dire: ciò che vediamo è solo la punta di un iceberg; la poesia fa entrare negli abissi del mare della vita, nelle radici dell’iceberg per goderne a pieno, rigenerarla e rinascere con e per essa.

 

Inizio con una poesia tratta dalla mia prima raccolta “Ogni istante” edita nel 2011 dal Gruppo Albatros dal titolo PREGHIERA

 

“Ciò che si è../ Difficile misura / Eterna ricerca/ Ogni flusso è una risposta / per Chi lascia che i propri occhi / si rispecchino nel movimento del Vento/ che avvolge ogni essere / Forza necessaria per questo coraggio / è racchiusa nella semplicità che è sussurrata / a Chi è immensamente presente….Amen!/ Bisogna solo ascoltare….solo così c’è risposta.”

 

Preghiera, perché si prega? 

 

Di primo impatto la risposta non può essere altra da quella di ammettere di non bastare a sé stessi.

 

Ci si rivolge a  quel “Altro da noi” e dagli uomini di cui ho accennato, fonte dalla quale la nostra interiorità, intesa come fiamma spirituale che si ravviva nei momenti di sconforto e di gioia, “bussa di più alla porta dell’anima” e con gli occhi del cuore guarda oltre all’apparente “nulla” e “inesistente”, ad un “Lui” per invocare la sua intercessione nell’illuminazione su come giungere a compimento e a soluzione in una situazione particolarmente difficile e più grandi delle proprie forze. 

 

Nell’invocazione di una preghiera di aiuto, se da un lato si ha la certezza di essere ascoltati nel proprio essere polvere, dall’altro qualcosa di materiale e di terreno ci ricorda di appartenere ancora a questo mondo, piacente o meno; è la percezione del bisogno di vedere  il Dio invocato accoratamente o del “disagio” di non riuscirci con le pupille (siamo discendenti di Tommaso?).

 

A tal proposito vi leggo la poesia  “Uno sconosciuto è il mio amico”  di Par Lagerkvist, Premio Nobel nel 1951, romanziere e drammaturgo autore del romanzo “Barabba” tratto dal libro di Davide Rondoni “Mettere a fuoco Dio” pillole BUR 2007:

 

“Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco./Uno sconosciuto lontano lontano./ Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia./ Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?/ Che colmi tutta la terra della tua assenza?”

 

A mio parere tale testo, direi preghiera d’invocazione, è esplicativo dell’ambiguità presente nell’uomo fra certezza ed incertezza della presenza di Dio; anzi tale apparente stato antagonista, è presente proprio mentre c’è la pienezza nel cuore della nostalgia di qualcuno d’importante a tal punto da riempirlo; di pienezza dell’assenza, assenza  come massima espressione d’amore. Un amore, altro dal materiale, seminato da Dio nell’uomo col dono della Vita, nel libero arbitrio. Negli altri uomini è a Sua immagine.

 

Nella relatività del lungo o breve periodo di vita terrena lo stato di sentirsi vicino o lontano da Dio è una continua altalena, a risposta di un bisogno costante di certezza dell’essere “Uno” insieme, di non essere abbandonati anche dall’unica fonte rimasta, dopo aver vissuto tale condizione nella relazione umana.  

 

La preghiera è il filo che continua tale trama per tessere la vita alla vita.

 

Ecco un’altra poesia che, a mio parere esprime l’”altalena” accennata, scritta dal poeta fiorentino Mario Luzi, nella sezione “Inseguimenti” della raccolta “Per il battesimo dei nostri frammenti:

 

“Sei tanto lontano / da non poterti raggiungere / o senza avvedermene / ti ho oltrepassato…/ uscito dalla parabola / tu o io dall’inseguimento? / o l’uno e l’altro al sommo / della sua inesistenza, / l’uno e l’altro al punto / più alto / di unità / e di non differenza / equiparati / in tutto / da reciproco annullamento, / in tutto, in tutto, compiutissimamente?”

 

In tale testo è messo in risalto anche la  fusione del divino e dell’umano, per poter essere Suoi testimoni nel mondo e col mondo, parte del tutto. 

“Compiutissimamente” termine rappresentante la pienezza di quando tutto è stato secondo disegno e della sua necessità perché ogni uomo possa essere liberato dalla condizione umana nella resurrezione e libero nell’amore assoluto.

 

Altre considerazioni, presenti, le lascio al lettore.

 

Pur nella libertà nelle diverse credenze religiose, da cristiana cattolica, non posso non accennare a quanto ci dicono le Scritture a proposito di esempi pratici di preghiera.

 

Anche Gesù pregava ogni volta che gli apostoli dovevano affrontare difficoltà o Egli stesso sapeva di dover vivere umanamente il travaglio del dolore, del tradimento, dell’abbandono o affrontare il maligno.

 

Dai Vangeli si viene a conoscenza della validità di tale invocazione in qualsiasi momento essa venga fatta di giorno o di notte; ciò sottolinea l’importanza della preghiera come base, piedistallo sul quale ergere ogni nostro giorno o ogni nostra notte perché il nuovo giorno sia ricco della pienezza del dono della vita.

 

Per fare un esempio nel Vangelo di Luca (11, 9-13) la voce di Gesù riporta: “Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”

 

Desidero sottolineare le parole “Padre celeste darà lo Spirito Santo”: Spirito Santo come forza, Amore assoluto generato dall’unione del Padre col Figlio, che anima l’anima umana diversamente sterile ed impotente, per inondare il corpo e far si che l’uomo agisca tramite di esso e del cuore nel mondo.

 

Nel Vangelo di Giovanni  (16, 1-24) viene riportato il momento nel quale  Gesù annunzia di nuovo l’invio dello Spirito Santo che guiderà gli uomini alla verità totale, ne esorta la preghiera d’invocazione. 

 

Al punto 21 vengono riportate le seguenti parole di Gesù: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo……….In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. (24) Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena”.

 

E’ un passo del Vangelo molto intenso, nel quale Gesù mette in evidenza la condizione umana nel proprio limite terreno, nella quale è inevitabile la sofferenza, il travaglio prima di giungere alla gioia della riuscita e del dono; proprio perché “dono” può giungere nelle mani umani solo da Quelle che hanno la risposta della vita di ciascuno.

 

L’atto del chiedere comporta il riconoscere di essere figlio, oltre che di padre terreno, anche del “Padre celeste” come si evince nelle parole evangeliche; inoltre implica la grandezza dell’umiltà nel riconoscimento del proprio limite e del proprio perdersi nei meandri della quotidianità, nel dubbio verso l’incognita del futuro, della labilità dei progetti umani quasi sempre sottoposti a più “revisioni celestiali”.

 

Come nella poesia, anche nella preghiera l’umiltà è sul piedistallo.

 

Sempre col pensiero nelle Scritture, desidero spostare il focus di lettura sulla figura di Maria, in riferimento alla forma di preghiera da lei espressa, nel suo ascoltare la voce interiore che Le ha parlato nella propria quotidianità, nel suo saper stare in silenzio, anche quando il cuore materno gridava di disperazione ai piedi della Croce.

Non a caso per la rilevazione della volontà di Dio è stata scelta una figura così semplice, al contempo forte nella propria fede e spiritualità, con le quali ha saputo affrontare ogni difficoltà della vita quotidiana, di madre di un bambino non sempre pacifico, dei pregiudizi e regole religiose di tale tempo storico; certamente si tratta di travagli da situazioni non meno ingarbugliate e pericolose di quelle di oggi.

 

Sorge in me la riflessione che in tale scelta ci sia un messaggio, una sorta di “specchio” nel quale riflettere la propria modalità di vita, raffrontarsi per riconoscere la propria preghiera da rivolgere al Figlio. 

 

Non a caso dopo la crocifissione Gesù affida Maria a Giovanni, dicendo “Questa è tua madre”; come a voler dire che da Lei l’umanità deve saper cogliere l’essenza per collegarla alla propria. 

 

La preghiera era in Maria.

 

Simbolicamente Lei  è stata consegnata come madre altra da quella terrena, a noi umani in quanto figli del medesimo Padre, al quale nella crocifissione Gesù si è ricongiunto spogliato del corpo materiale.

 

Questo anche se chi guarda a Maria non è una donna. 

 

A tal proposito, sempre dalla mia prima raccolta poetica “Ogni istante” vi leggo la poesia “Madre nostra” scritta dopo la visione del film “Passione” di Mal Gibson

 

“Un abito lungo col viso abbracciato / da vesti calde e serene / occhi profondi che vedono lontano / dolci che dicono “ti amo” / al mondo … quello che le genti / non immaginano. / Un sorriso scherzoso Lo avvolge / e accarezza i Suoi lunghi capelli. / Labbra carnose, umane ma che sanno / tacere e “conservare” il mistero dell’Amore / Vero / Forti, tremanti, griderebbero la gioia di essere Madre / ed il dolore nel trattenere la voce del Cuore che scoppia / Mani forti, sensibili, che sanno prendere per farsi ascoltare, / che sanno abbracciare per farsi sentire, che sanno accarezzare la Sua sofferenza, che si fanno umane con un pugno di / sassi…../ ma la forza infinita le ritrasforma in un calore che solo chi sa / il perché della morte nella quale rimane unita alla vita / può mostrare alle altre madri. / Un cuore che La guida al Suo / anche quando le pietre Lo nascondono / e La difende dall’altro, perfido, strisciante, / che attende un minimo tremore. / Attende stretta nelle proprie vesti, confortando gli occhi / altrui…/ ed il cuore grida…a presto!”

 

Come il camminare, il sorridere di fronte ai primi lallazioni di un bambino, la gioia nel volto di un nonno accarezzato dalle mani del sangue di future generazioni sono interiorizzati nel cuore e da esso sortisce serena felicità, così la preghiera dovrebbe divenire nel quotidiano vivere.

 

La preghiera, un’apparente ripetizione a vuoto di medesime parole, nemmeno troppo complesse, in realtà racchiude una grande potenza. 

 

Mi riferisco alla preghiera solitaria, detta dal cuore con le parole in esso germogliate, come quando si parla ad un amico, senza troppo preoccuparsi della correttezza lessicale o grammaticale; meglio concentrarsi sulla sincera spinta spirituale, “inchiostro” per fissare il pensiero. Da tale preghiera, resa parte di sé,  spunta il primo sprone, quando situazioni inaspettate ti distruggono la vita.

 

In relazione a tale concetto, vi leggo la mia  poesia  “Alzati e cammina” tratta dalla mia ultima raccolta “Soffi di vita” edita nel 2016 da “Risguardi” marchio “Carta Canta”:

 

madre divenuta, / abbagliata da braccia menzognere / di colpo trasformate in lamiere/ sconcerto, stordimento / hanno ovattato l’udire / in un cuore in tal attimo caduto / di colpo senza fiato / tradimento della vita / tra le mani / alzati e cammina!

 

Quanto sopra è l’espressione anche di un altro aspetto del nostro crederci autosufficienti, per meglio dire: il bastare a noi stessi e manipolatori del tempo, come i burattinai con i fili delle loro marionette.

 

In realtà in qualsiasi cultura, civiltà o momento storico sono presenti esempi d’improvvisa caduta di progetti di vita già in attuazione o solo desiderati; molto spesso sono le circostanze valutate banali quelle colpevoli di tali disastri. Si sfiora lo scetticismo nei riguardi dell’importanza di qualsiasi azione umana, del valore stesso della vita, dato che non “è stata capace di continuare ad essere tale”, dopo l’evento nefasto.

 

E’ proprio lì, in tali brevi ed eterni momenti, che la vita prende maggior corpo, riappropriandosi di un valore inestimabile; per comprendere tale paradossale concetto occorre far salire nei bottoni sinaptici altro di non acido, di non testabile: l’amore tramite la preghiera.

 

Vi leggo la poesia di Eugenio Montale “Prima del viaggio”, sempre tratto dal testo di D. Rondoni “Mettere a fuoco Dio” pillole BUR, nella quale è “leggibile” la forte presenza dello spirito dietro la pur reale condizione di scetticismo e di tentativo di organizzare ogni cosa.ù

 

Inoltre, in esso è percepibile anche come la vita è il libro intitolato “Disegno” dove tutto è già scritto, noi umani ne siamo i tratti esplicativi e costitutivi di esso.

 

E’ un testo che ricorda un aspetto del quotidiano coinvolgente ciascun lettore, nell’ esperienza condivisa qualche volta nella propria vita.

 

“Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le prenotazioni / e le prenotazioni (di camere con bagno / o doccia, a un letto o due o addirittura un flat); / si consultano / le guide Hachette e quelle dei musei, / si scambiano valute, si dividono / franchi da escusos, rubli da coperchi; / prima del viaggio s’informa / qualche amico o parente, si controllano / valige e passaporti, si completa / il corredo, si acquista un supplemento / di lamette da barba, eventualmente / si dà un’occhiata al testamento, pura / scaramanzia perché i disastri aerei / in percentuale sono nulla; / prima / del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che / il saggio non si muova e che il piacere / di ritornare costi uno sproposito. / E poi si parte e tutto è OK e tutto / è per il meglio e inutile. /…………………/ E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo.”

Per chi ha Fede, ogni difficoltà, delusione, tradimento giunto nel proprio cammino di vita è un’opportunità per rinforzarla, saper rimettersi in piedi anche se stanchi e nudi per continuare la propria strada, e con essa, il senso del nostro esserci.

 

Ciò che ci accade non è mai una condizione utile solo a se stessi o alle persone di famiglia; esso è comunque una testimonianza per gli altri, nel buono o nel cattivo esempio.

 

Così è anche il pregare per strada, negli autobus o nel treno , che col suo scuotere quasi a dondolo, culla il nostro viaggio nel “fare” e nel “dire” con i-pod o tablet quello che apparentemente è insindacabilmente importante comunicare.

 

In realtà non si è mai soli come nei suddetti esempi.

 

La preghiera è rimanere sempre con qualcuno che è in te e fuori da te, non sei solo.

Questo è un altro dei motivi per cui vale la pena pregare.

 

Nella vita di ciascuno sono tante le situazioni in cui è fondamentale l’aiuto dall’Alto, e di solito: prima ci barcamena per trovare soluzioni, si consultano esperti, ci si affida a mani umane che sbucano da camici verdi di medici abituati a manovrare su corpi altri.

 

In tali situazioni, quando arriva la sera e si chiudono le tapparelle, le parole interiori rombano. E’ in tali infiniti attimi che la preghiera diviene balsamo, una mano che si ricongiunge con la Sua per non perdersi nel travaglio, nella certezza di giungere a nuova vita.

 

A testimonianza di tale situazione vi leggo un’altra mia poesia intitolata “Serena disperazione”, inserita nella plaquette “Il dolore è uno specchio sfondato” relativa al progetto “Le parole necessarie” organizzato dal Centro di Poesia di Bologna e l’Ospedale S. Orsola nel 2015:

 

“Tu solo non mi lasci / mi conosci / so che ci Sei / la voce impietrita / grida / nella disperazione / su di un letto distesi / la paura il dolore / svaniscono dal cuore

 

L’interiorità di tale poesia è preghiera d’invocazione nella certezza dell’ascolto, avvenuto.

 

Nel nostro essere in questo mondo fra le cose assurde, paradossali ed incomprensibili la rabbia fa da padrona; ci si accanisce contro qualcuno o qualcosa d’incapace, d’inetto o d’incompetente, per cui le situazioni sono andate in malora. 

 

Ci si arrabbia anche con Dio, magari proprio dopo aver detto di non credere in una presenza non umana!

 

Sfumata la rabbia, lo sgomento e il peso al petto restanti ci fanno percepire il bisogno di riconciliarsi proprio con chi si è imprecato prima. La misera umana non ha limiti.

Ci si vuole riconciliare con chi si sa, anche senza comprenderne l’essenza, ci perdona se domandiamo nel giusto modo. 

 

A tal riguardo, vi leggo uno scritto di Edgar Lee Masters, scrittore e poeta popolare per la sua Antologia di Spoon River edita nel 1915, dal titolo “John Ballard”, sempre tratto dal testo “Mettere a fuoco Dio” di D. Rondoni:

 

“Nel rigoglio della mia forza / bestemmiai Dio, ma non mi badò: / come avessi bestemmiato le stelle./ Nella mia ultima malattia agonizzavo, ma fui temerario / e bestemmiai Dio per la mia sofferenza; / e Lui ancora non mi badò; / mi lasciò fare, come sempre. / Come avessi bestemmiato il campanile dei presbiteriani. / Poi, mentre le forze mi mancavano, m’assalì il terrore: / forse m’ero alienato Dio con le mie bestemmie. / Un giorno Lydia Humphrey mi portò un bouquet / e mi venne l’idea di fare amicizia con Dio, / così cercai di fare amicizia con Lui: / ma fu come se avessi cercato di fare amicizia col / bouquet. / Ora ero molto vicino al segreto, / perché potevo davvero fare amicizia col bouquet / stringendo a me l’amore che sentivo per il bouquet, / e così mi stavo impossessando a poco a poco del / segreto, ma.”

 

In tale testo c’è il richiamo al perdono, massima forma di libertà d’amore e di preghiera.

 

Il perdono è una preghiera che si rivolge, chiedendola nei modi più disparati, a chi ci ama per essere di nuovo riabbracciati dal suo cuore, sapere di essere ancora persone valide per qualcuno, debellare i sensi di colpa,  sentire di esistere di nuovo.

Inoltre esso è la preghiera (anche di questa  non sempre si conoscono le giuste parole), invocata da chi il perdono deve donarlo.

 

Umanamente parlando, siamo stati messi nella condizione di essere perdonati per primi tramite il sacramento del Battesimo.

Durante tale rito siamo chiamati ad essere “Profeti” per divulgare la Parola di Dio e “Sacerdoti” per pregare, specie per chi non ci ama come indicato nei Vangeli.

 

Perdonati dal peccato insito nella condizione umana; altrettanto umana è la “cicatrice” del ricordo che rimane anche dopo aver perdonato qualcuno. Il ricordo non svanisce.

Il perdono invocato con preghiere rivolte al Padre celeste ci libera dalla catena del peccato; Lui, con la sua Misericordia, perdona e non ricorda.

 

A visione di quanto esposto poc’anzi, vi leggo uno stralcio dal testo “Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via” scritto da Franz Kafka contenuto nel testo succitato di D. Rondoni

 

Un primo indizio di incipiente conoscenza è il desiderio di morire. Questa vita appare insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire; si prega di venire portati dalla vecchia, odiata cella, a una nuova che dobbiamo ancora imparare ad odiare. Resta un granello di fede che, durante il trasporto, il Signore passi, per caso, nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: “Costui non rinchiudetelo. Egli viene con me.”

 

Oppure si prega per ringraziare della soluzione a problemi, guarigioni da malattie o per aver ottenuto quanto richiesto; purtroppo questo tipo di preghiera non è sempre naturale e spontanea fra quelle normalmente svolte, dimenticandoci spesso che nulla ci è dovuto.

 

Credo che tale difficoltà nasca dalla debolezza dell’uomo di percepirsi comunque fautore del proprio fiato, mentre anche questo ci può essere tolto in qualsiasi momento.

 

Non posso non accennare alla preghiera, senza portare il mio spirito ai Salmi, preghiera assoluta. Le persone presenti sono più esperte di me su tale argomento, ma ritengo utile accennare ad essi come ad  un’antologia di 150 cantici di varia estensione costituenti una sintesi dell’Antico Testamento in chiave di poesia e di preghiera. La sua etimologia greca ci ricorda l’origine della lettura di tali preghiere in forma di canto accompagnate da strumenti a corda. 

 

A proposito di ringraziamento lo faccio con l’umiltà di condividere la gioia nascente dalla lettura del salmo n. 29 “Ringraziamento – Salmo di Davide per la festa della dedicazione del tempio”.

 

In esso sono racchiusi i concetti in precedenza dettagliati, le domande umane e le risposte altrettanto umane, ma anche quelle divine nelle parole celate; si potrebbe dire si tratti di un “riepilogo” delle voci lette poc’anzi. 

 

Nulla è a caso, se ci lasciamo immergere nella preghiera, troviamo domanda e risposta.

 

“Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato / e su di me non hai lasciato esultare i nemici./ Signore Dio mio, / a te ho gridato e mi hai guarito. / Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, / mi hai dato vita perché non scendessi nella / tomba. / Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, / rendete grazie al suo santo nome, / perché la sua collera dura un istante, / la sua bontà per tutta la vita. / Alla sera sopraggiunge il pianto / e al mattino, ecco la gioia. / Nella mia prosperità ho detto: “Nulla mi farà vacillare!” / Nella tua bontà, o Signore, / mi hai posto su un monte sicuro; / ma quando hai nascosto il tuo volto, / io sono stato turbato. / “A te grido, Signore, / chiedo aiuto al mio Dio. / Quale vantaggio dalla mia morte, / dalla mia discesa nella tomba? / Ti potrà forse lodare la polvere / e proclamare la tua fedeltà? / Ascolta, Signore, abbi misericordia, / Signore, vieni in mio aiuto. / Hai mutato il mio lamento in danza, / la mia veste di sacco in abito di gioia, / perché io possa cantare senza posa. / Signore, mio Dio, ti loderò per sempre.”

 

Stupenda preghiera d’invocazione, di confessione di momenti di buio del credente, di certezza del suo perdono, della condizione umana di essere polvere, del realizzarsi della vita tramite la Sua volontà, senza che ci manchi nulla; eccezionale testimonianza.

 

Sul ringraziamento vi leggo la poesia “Dono” tratta dalla mia prima silloge poetica “Ogni istante”:

 

“Strade parallele si incontrano / si guardano ed a volte si riconoscono / fonte di uno stesso essere. / Pensare di bloccare la strada per lasciare / posto all’altra attraversa la mente quando / non ascolta la voce dell’anima / i Doni spesso non si presentano come / si conoscono ma si vivono e solo allora / li senti doni / questo dà gioia all’anima che felice di essere / riconosciuta nel dono dona sé all’uno e a chi / è con esso. / La pienezza dello sguardo di chi ha avuto non  / conscio di come e quando dice che la strada / è solo una…segnata dallo stesso Amore / la mente allora ride di se stessa ed arrossendo / si “nasconde” / lascia che i passi scorrano la strada..,.”

 

Fino ad ora si è parlato di parole, di parola, di voce.

 

Ritengo opportuno soffermarsi sulla parola del silenzio: essa altrettanto tonante, potente, è vettore della voce interiore verbalizzata o silente. 

 

Oso dire che il silenzio è la voce più altisonante che ci faccia entrare in eco con quella di Dio.

 

Se siamo capaci di tacere, ecco che entra solo la Sua; noi diveniamo, così,  le sue orecchie,  le sue braccia, le sue labbra.

 

Tacere sembra una cosa facile da realizzare, purtroppo non è così. C’è sempre la voce interiore dei nostri pensieri, tormenti d’animo, ed altro che continuano a “chiacchierare” anche quando, con la testa sul cuscino, si cerca ad occhi chiusi il pulsante per spegnere la luce.

 

Il poeta milanese Franco Loi nel suo testo “Il silenzio” edito da Mimesis Accademia del Silenzio riporta: “..Se ripenso alla mia vita, faccio silenzio, ed ecco che in me ci sono uomini diversi e vite diverse. Mi sembrano così separate e lontane le une dalle altre, eppure così concatenate. La distanza è una delle realtà sorprendenti del silenzio a cui si ripresenta la memoria: è sempre così poco usuale e tuttavia così sostanziosa. Proprio come accade nel sogno.”

 

A testimonianza di quanto accennato sulla potenza del silenzio, nelle parole di F. Loi si può afferrare il senso della rinascita, più volte nella vita, se fermandoci diamo lo spazio al nostro essere altro che carne, per cogliere le vite che ci “attraversano” ogni giorno, nei diversi ruoli nei quali siamo proiettati, come raggi di luce o armi di distruzione.

 

Non a caso nei luoghi nei quali la preghiera aleggia nei muri, nei sassi divenuti sacri, senza udire parole, la pace s’insinua fra i capelli, nelle ossa e li rende vivi.

 

Se si riesce ad uscire dal proprio essere al centro del mondo, le voci silenti sbiadiscono, un poco alla volta diventano afone e parlano a vuoto. 

 

Nell’altro s’impara a vedere il volto che gli ha dato fiato, anche quando le labbra parlano una lingua diversa dalla nostra; anche quando le membra sono storpiate e maleodoranti

 

A questo punto penso sia importante rivolgere lo sguardo ad un altro modo di pregare, non solo come pensiero.

 

Mi riferisco al nostro fare quotidiano, il lavoro dentro e fuori da casa, l’incontro di un passante per strada, l’accudire qualcuno.

 

Già comunemente i mass media o durante incontri con altre persone si descrivono gli impegni quotidiani come gesti, azioni per i quali ci deve essere un tornaconto, e nei quali tutte le nostre energie mentali e fisiche devono fare capolino.

 

Credo che se fosse così, a tutti “passerebbe la poesia” di consumare il proprio tempo in attività piuttosto scarne nel contenuto dal punto di vista d’interiorità dell’agire e spirituale.

 

Non sempre un lavoro importante ai fini di soddisfazione personale o di risonanza sociale, corrisponde un concreto valore umano; anzi molto spesso è nell’espressione di lavori umili che si rimane tali anche nell’anima e nel pensiero; così facendo ciò che si arricchisce è la vita stessa, innanzitutto di chi si ha aiutato, sostenuto, o semplicemente  (per modo di dire) ascoltato.

 

Penso sia doveroso iniziare questa mia riflessione con un cenno al Vangelo di Matteo (25, 40-45) con la parabola “Il Regno è per coloro che praticano l’amore servendo” :

 

“…Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fato a me.

 

Pur senza contestualizzare più di tanto, da tale parabola si può comprendere un’immensa forma di preghiera e di amore presente nel donare e prendersi cura dell’altro.

 

Preghiera intesa anche come evangelizzazione e testimonianza, mettendo in pratica quanto accennato prima in merito a quanto ricevuto col Sacramento del Battesimo.

 

E’ nelle opere la preghiera più forte, perché essa non sia solo parole, con la misericordia come collante delle stesse.

 

Sentirsi strumenti di una mano più grande, è permettere che la forza della preghiera penetri l’involucro che ci definisce uomo o donna, senza preoccuparsi troppo di riuscire o meno ad aiutare veramente qualcuno, o se si possono commettere sbagli. 

 

Tali rischi sono nella condizione umana, certo donarsi con attenzione ai reali bisogni, con tutto il proprio cuore; il Signore ci conosce fino in fondo, sa che cosa in esso è contenuto, e sa come guidarci, se solo lo facciamo entrare e soprattutto, tramite la preghiera sappiamo ascoltarlo.

 

Quanto appena accennato è un’altra grande, importante, ragione per cui si prega; rimanere legati alla Fonte per il nostro cammino accanto ai fratelli in lui.

 

Donare all’altro è anche preparare il pranzo o la cena per i propri cari: è una forma di nutrimento d’amore mentre si serve il pane o la pasta. 

 

Nell’affanno e superficialità del quotidiano non si guarda a tale  semplice gesto con tale sguardo; anzi, molto spesso viene vissuto come un impegno “impegnativo” che toglie spazio ad altro di più interessante.

 

Quel pane, quella pasta bella fumante sono forme di preghiera.

 

Ancora una volta i bambini sono grandi insegnanti in questo: non a caso si sentono dire “Com’è buono il panino della nonna! Lo ha preparato apposta per me!”.

 

In una frase semplice come questa c’è un immenso tesoro: l’affetto profondo, il piccolo gesto, il tempo dedicato per esso, la gioia nel farlo e nel riceverlo, l’amore racchiuso nel tutto fino all’ultimo morso! 

 

E non per ultimo un ottimo esempio da seguire, sia affettivo, sia di evangelizzazione.

 

Per rimanere in ciò che apparentemente è piccolo e semplice, si può pensare al gesto di un sorriso donato a qualcuno conosciuto o meno.

 

Esistono diverse forme di volontariato dove è possibile dedicare qualche ora del proprio tempo, e se stessi, nell’accudire ammalati, bisognosi o soli.

 

In parte vivo questo tipo di esperienza nel contesto ospedaliero, con il naso rosso addosso; vedo situazioni familiari e non solo del paziente ricoverato veramente drammatiche, dove le parole non hanno senso, l’impotenza satura la stanza, il dolore, la paura prendono il sopravvento sulla speranza.

 

Oltre alla recita del Rosario, non sempre possibile in tali contesti, non c’è preghiera migliore per rinfrancare l’anima, donare speranza e far tornare la luce ed illuminare il progetto di vita,  di un sorriso donato col cuore; una sorta di “flebo d’amore”, non a caso è anche il titolo di un mio inedito

 

La stessa potenza la si trova nel sorriso donato in un villaggio di gente non abbiente, ghettizzata per cultura, per ragioni politiche, disumanizzata per potere ideologico.

 

A testimonianza di tale mio dire, prima di parlare di altri esempi, voglio portare il pensiero su quanto svolto da Madre Teresa di Calcutta; lo faccio leggendovi uno stralcio dal libro “La gioia di darsi agli altri” edito da Edipress 1988:

 

“Padre nostro…./ Dovete fare ogni sforzo per camminare alla presenza di Dio, per vedere Dio in tutte le persone con le quali vi incontrate, per vivere lungo tutta la giornata la vostra meditazione del mattino. / Nei vostri giri, diffondete attorno a voi la gioia di appartenere a Dio, di vivere con Dio, di essere Sue. / Per questo, nelle strade, nei sobborghi e durante il lavoro, pregate sempre con tutto il cuore e con tutta l’anima. / Mantenete il silenzio che Gesù mantenne durante 30 anni di vita a Nazaret, e che continua ancora a mantenere nel tabernacolo, intercedendo per noi. / Pregate come fece Maria, perché lei custodì tutto nella sua anima, attraverso la preghiera e la meditazione, e continua a custodirlo in quanto mediatrice di tutte le grazie. / L’insegnamento di Cristo è tanto semplice che lo può balbettare persino un bambino in tenera età. / Gli apostoli chiesero: – Insegnaci a pregare…./ Gesù rispose: Quando vi mettete a pregare, dite: “”Padre nostro…..”.

 

Un’altra forma di preghiera alta è quella trovata ed “effettuata” nel contesto della Casa Circondariale di Forlì; lo stesso concetto potrebbe essere traslato in qualsiasi altro luogo di reclusione.

 

Siu tratta di un’altra mia esperienza vissuta col naso rosso: insieme a poche altre persone si è cercato di rendere meno doloroso il momento d’incontro e di momentanea ricongiunzione dei carcerati con i familiari, i figli o le madri:  col gioco, la creazione di piccoli oggetti o disegni da parte dei figli da donare ai loro padri o madri  ritornati ad essere “abbracciabili”; col coinvolgimento di altri carcerati e parenti in un “girotondo di canto e ballo-gioco”, mentre le guardie alle porte con le pistole ben in vista fanno fatica a trattenere un sorriso giunto in un viso apparentemente indurito dalla divisa.

 

Col sorriso nel cuore e negli occhi, un palloncino nelle mani, ho pregato dentro di me che le parole rivolte alla moglie di un detenuto le siano d’aiuto perché le proprie possano essere “scongelate” e ritornare a dirgli, come compagno e padre della propria figlia, di amarlo così com’è, anzi di più. 

 

La figlia li vede, li sente.

 

Comprendo la strana sensazione di pesantezza al petto, di farfalle nello stomaco al pensiero di persone recluse, quindi ritenute socialmente pericolose, in un esempio come quello appena accennato.

 

Dal dialogo avuto con alcuni di loro, uomini o donne, mentre copro il loro capo con una strana forma di palloncino o prendo le loro mani per far rinascere un abbraccio così intenso da far dimenticare gli sguardi degli altri detenuti, delle guardie, della stanza con le sbarre alle finestre, è emersa tanta sofferenza, senso d’ingiustizia e richiesta di perdono.

 

Non di meno ho udito il bisogno d’aiuto perché il proprio figlio non si dimentichi del padre, e del suo essere una persona valida; tale detenuto, pur avendo sbagliato, è ampiamente torturato dalla propria disperazione e consapevolezza dell’errore.

 

Cosa di fatto accade in questi momenti?

 

Nelle tre ore di tempo in cui questi incontri hanno luogo c’è la condivisione di vissuti allucinanti e allucinati da violenze causate e vissute; la rabbia e dolore miscelati dal desiderio di rinascita e d’amore; l’atmosfera è intrisa di preghiera singola e collettiva, in quanto i presenti sono uniti dalla stessa condizione di morte nella vita.

 

Ma non da meno, oltre a quanto di visibile e parzialmente percepibile, si aggiungono anche: il giudizio è stato sconfitto e con esso la paura di non essere amati, di non valere più nulla per le persone fondamentali nella propria esistenza; le differenze di sesso, di età e d’esperienza pregressa sono diventate una risorsa per creare un momento unico  ed uguale per tutti, anche mentre si assaporano un po’ di dolci e di leccornie del buffet preparato apposta per l’occorrenza.

 

Inoltre si sono aggiunti i ricordi del dono di sé, di risate e di sguardi sereni, del profumo della moglie lasciato impresso sulla guancia ancora calda del marito, dell’attesa dell’incontro successivo che accadrà dopo circa trenta lunghi giorni.

 

Quando il tempo è scaduto tutto questo è portato stretto al petto,  mentre il rumore delle sbarre fa trasalire un po’ tutti i presenti e quelli che invece liberamente lasciano alle spalle un luogo grigio per un po’ divenuto luogo d’incontro.

 

La preghiera è entrata in diversi modi e momenti, singola e di comunità, è passata pur senza farsi vedere.

 

E’ vero, fra i detenuti ci sono quelli che forse hanno avuto la giusta risposta ad un loro agito non corretto, ma chi siamo noi mentre si pensano tali parole? Siamo sicuri di non divenire uno di loro?

 

Ho fatto mie alcune parole di Papa Francesco, le vivo col naso rosso addosso, e non. Qui ve le propongo. Sono tratte dal libro “Parole di gioia” edito dal Centro Ambrosiano; una raccolta di riflessioni espresse dal Papa durante i suoi diversi incontri; le parole qui sotto trascritte sono state espresse il 5 giugno 2013 presso Casa Santa Marta:

 

Pregare – Con la carne e col cuore – Le persone che soffrono devono entrare nel mio cuore, devono essere un’inquietudine per me. Il mio fratello soffre, la mia sorella soffre; ecco il mistero della comunione dei santi. Pregare: Signore guarda quello, piange, soffre. Pregare, permettimi di udirlo, con la carne. Pregare con la carne, dunque, non con le idee; pregare con il cuore”.

 

Quando si sente parlare di profughi, li si vede ammassati, denudati della propria identità, accolti ma come elemento di strategia politica, ascoltati ma con l’udito della differenza anziché della ricerca di comprensione del perché hanno rischiato e perduto in mare parte di sé nei figli in esso caduti, allora qualcosa deve vibrare nel proprio cuore.

 

Si potrebbe dire tanto, in ambiti ed a livelli diversi; ci sono persone colte e competenti per farlo, ma tutti possiamo fare un semplice, complesso gesto interiore, pregare.

 

Lo stesso discorso è sovrapponibile nei riguardi di chi si occupa di persone ammalate o anziani soli: prendere la mano di una donna ricurva sotto al  peso della vita già trascorsa ed aiutarla per portare la spesa o attraversare la strada è una grande preghiera.

 

Ogni volta che ci si dedica col cuore e con le azioni ad aiutare qualcuno, si è di fronte anche ad un altro elemento, puramente umano, il tempo.

 

Molto volte ci si arrabbia perché nonostante le preghiere, si dice fatte col cuore, la grazia richiesta non accade. Allora non è mai colpa nostra, ma sempre di chi non ha ascoltato. Innanzitutto è di per sé poco opportuno parlare di mancanza di grazia, o per lo meno non visibile, come di una colpa.

 

Ribadisco il concetto che nulla ci è dovuto, e tanto meno in quale forma e quando esso debba accadere.

 

La pazienza, la temperanza sono alcune delle virtù cristiane. I frutti non mancano.

 

A tal riguardo vi leggo un mio inedito dal titolo “Seme” selezionato per la raccolta relativa alla XVIII edizione di “Habere Artem 2016”  Aletti Editore:

 

tempo di vita e di morte / nel seme profuso / forza latente / il germoglio dal putrido risorto / è sentinella di attimi senza fine / fiore nelle mani / chine raccolgono l’umana / ricompensa / saggezza di vita”

 

E’ nella crescita spirituale umana il dover fare i conti con qualcosa che non ci è possibile raggiungere mentre cerchiamo di salvare la vita a qualcuno col mestiere di medico, con quello di psicologo o con l’amore di amico che ascolta le pene del tuo cuore.

 

Metto fra i peccati anche quello di non accorgersi, mentre ci si lamenta di ciò che non riceviamo, di quanto in realtà abbiamo ottenuto di diverso, di altro dalla nostra richiesta. Proprio in tale stupore sta lo scoprirsi e il prendere consapevolezza del Disegno più grande previsto per ciascun essere.

 

Ho accennato allo “scoprirsi”, nel suo significato di conoscere più profondamente il proprio limite, ma anche le potenzialità donate; diverse per ciascuno, ma comunque a Sua immagine.

Credo di non dire nulla di nuovo se accenno alla fatica presente in certe giornate quando si deve svolgere un lavoro non più rispondente alle proprie aspirazioni o predisposizioni cognitive; quando ci si accorge di essere divenuti altro, ma per diverse ragioni non si può cambiare nulla, per lo meno nell’immediato.

 

E’ un’ottima occasione per mettere in preghiera l’impegnarsi comunque con coerenza e dedizione verso un obiettivo diverso dal proprio , ma del quale si è comunque parte in causa e piccolo tassello, insieme alla condivisione con altre persone del raggiungimento di tale traguardo.

 

Giunge la sera, la preghiera agìta fa si che le proprie pupille, momentaneamente rassegnate, possano continuare a  vedere i raggi di luna ed il dono offerto.

 

Durante un periodo di tale condizione, è nata la poesia  “GPL”, eccola:

 

e’ uno strano carburante / non si consuma ama la natura/ di umile somiglianza impregnato / è come il legno per il camino / la benzina per il viaggiare / l’acqua per il vapore / camminando in silenzio s’espande / pervade tutte le viuzze le vie a precipizio / le strade più sconquassate / forza motrice perpetua / da cinquanta grani in docili mani / rifornita / guardando l’insegna all’incrocio / del silenzioso cammino / è inciso / Guarda Prega Lavora”.

 

Le riflessioni potrebbero continuare a lungo; volutamente non ho accennato alla similitudine della presenza di un credo legato a qualcuno o qualcosa d’altro rispetto a se stessi presente in molteplici culture e tradizioni diverse da quella di mia appartenenza.

 

Come accennato nel preambolo, ho voluto lasciare traccia di una chiave di lettura altra da qualcosa di specificatamente antropologico e/o teologico anche se “il nero su bianco” ne parla fra le righe.

 

Lascio agli occhi del cuore saper cogliere quanto altro è celato nelle mie parole.

 

Concludo la mia riflessione, direi quasi divenuta preghiera, con l’ultima poesia inedita “A mani nude”. Vuole essere il sunto di una profonda riflessione, nella nudità del mio essere polvere e di ringraziamento.

 

Grazie 

“in un occhio che non vede / nelle mani stanche avvizzite / il sudore della vita / scorre nelle vene, / passo dopo passo, sul binario tracciato / fra cambi di corsia e lunghe linee / piedi stanchi e a mani nude / il fiato trasuda dal petto / in un’invocazione a te / gridata risorta alla luce / dice / grazie della vita”



abbandono la casa che conosco

un comodino ingrinzito nelle storie

pagine impolverate



in un occhio che non vede

nelle mani stanche ed avvizzite

Il sudore della vita

 

scorre nelle vene, passo dopo passo,

sul binario tracciato fra cambi di corsia

e lunghe linee

 

piedi stanchi e mani nude

il respiro rimbomba dal petto

in un’invocazione

 

gridata risorta alla luce

nel dire

grazie della vita


 

le braccia sono pensanti per la stanchezza 

l’anima è sfinita nell’attesa del pungente momento 

impotenza

 

un camice colorato 

s’affaccia ai piedi di un letto fra tanti

un naso rosso incuriosisce le pupille

 

l’imbarazzo di un sorriso strappato alle rughe

in un bambino dimenticato, il volto rosso

lo stupore si confondono con la gioia

 

una flebo d’amore s’insinua nelle vene

il male nelle ossa e nell’anima è più lieve

il dolore per un attimo s’arrende sparisce

 

in un giocoso momento 

il corpo, lo spirito e la mano vicina

si riuniscono nella fragile umana condizione 

 

un grazie riecheggia nella stanza

contagia le pareti, le lenzuola, gli infermieri

sorrisi bambini 

 

un sorriso, una flebo d’amore



un barlume si adagia sul selciato

voci silenti di vita celata appaiono

un pulsante ritmo nel petto porge la guancia

 

un porto su cui naufragare



Fonte Avellana  6-8 luglio 2018 – Kermesse: “Distanze”

 

Distanza: la linea invisibile della ricerca

 

La “distanza” è un lemma di per sé provocatorio nella misura in cui non lascia indifferente al messaggio implicito, cioè pone una riflessione fra sé stessi e quanto ci circonda, dando un senso ed uno spazio anche fisico all’essere nel mondo.

 

Altra risonanza è a livello emotivo, lasciando un retrogusto dal sapore d’inquietudine, fa l’immaginare una differenza ed una variabilità, nel momento stesso in cui tale termine viene udito o verbalizzato, fra l’atto stesso e la metamorfosi percettiva seguente.

 

Il concetto di variabilità può essere traslato su quello di diversità.

 

Diversità intesa come distanza fra le forme di espressione artistica, linguistica e le modalità di vita prese in considerazione rispetto alla categorizzazione che ciascun individuo, sia induttivamente, sia per scelta consapevole, struttura la propria visione all’interno della vita relazionale.

 

Volutamente ho accennato ad alcune angolazioni dalle quali si può iniziare a parlare di “distanze” con concetti che in qualche modo contribuiscono a dare una forma quasi tangibile al senso di lontananza delle cose, dei pensieri e di sé stessi dal resto che ci circonda.

 

Questa è solo una delle facce della medaglia collegate con la “distanza”.

 

Dal mio punto di vista, non si tratta di una medaglia piatta, ma piuttosto di “diamante dalle svariate sfaccettature”. 

 

Evidenzio il  concetto dell’individuo quale focus da cui la “vista” si appoggia sul mondo; non vuole essere un pensiero egocentrico, piuttosto una sottolineatura di quanto avviene normalmente ogni mattina quando lo sguardo si alza dal cuscino, inizia a fotografare ogni dettaglio della quotidianità.

 

La prima fotografia viene scattata alla distanza sorta fra il “sé” di ieri e quello del giorno successivo. E’ un filo molto sottile che si dipana, a tratti si riavvita su sé stesso, ma che tiene unito il trascorrere di momenti, attimi, sogni e le metamorfosi umane.

 

Tale “prima” metamorfosi è presa in considerazione, in quanto è la chiave di lettura con la quale si effettuano le scelte di dove e come dirottare l’attenzione, vedere il mondo.

 

Tale concetto l’ho sintetizzato in un mio inedito:

 

abbandono la casa che conosco / un comodino ingrinzito nelle storie / pagine impolverate”

 

La distanza fra la realtà oggettiva di un edificio come abitazione e la metafora di esso è immaginabile ma non tangibile, se non nella linea invisibile che continua la ricerca nell’abbandono della storia impressa su di pagine impolverate, appartenenti al libro della vita, ma non di quella legata al concetto di “ora”, nella relatività solo umana del tempo.

 

 

La linea, composto di più fili, continua la congiunzione; nel percorso mi è rimbalzata la poesia “Oltre quel muro oltre quel tabernacolo” della poetessa e critico letterario Paola Lucarini, tratta dalla sua raccolta “Fiori dallo stagno d’inchiostro” ed. Lacaita 1985, pag 84:

 

Oltre quel muro oltre quel tabernacolo / la colonica a una raggiungibile distanza / che lascio all’irraggiungibile / come ogni realtà eletta a sogno / per un nido negato fatto nido.”

 

La ricerca dell’oltre nella dimora sacra, sacra come la casa o meglio un nido anche se negato,  l’amore, figlio di un amore assoluto, con l’infinitezza appartenente alla ricerca stessa umana nel tentativo di ridurre la distanza con l’assoluto.

 

E’ una delle ricerche paradossali ma visceralmente necessarie all’uomo per potersi sentire tale, pur nella consapevolezza del mancato raggiungimento completo del proprio desiderio.

Forse è proprio questa distanza, o mancata vicinanza, che ce lo fa sentire così dentro sé stessi, nella bellezza di un petalo.

 

Quindi, dov’è la distanza!?

 

Per rimanere “dentro e fuori” del concetto di “dimora” ecco un’altra poesia di Paola Lucarini, tratta dalla raccolta “Un incendio verso il mare” – Marsilio Elleffe – 2002 – pag 18:

 

Scacco alle pietre di distanza / irrompo nel tuo sguardo / che si protegge con forti lenti / dalla intensa luce / dalla troppo viva voce / nella casa cittadina // vengo dai campi dai venti / dai tempi, non irretita, / discinta e lacera, lacerata / da pruni e rovi // nascondimi in te, ansante, / che nessuno in famiglia mi veda / mentre nel sangue mi senti / così fremente, e tua vita.”

 

Lo sguardo richiamato è dell’amato terreno ma anche di  Quello celeste, che è luce intensa, viva voce; una metafora splendida dell’espressione amorosa possibile solo con la grazia dell’amore divino. La libertà che fa essere “non irretita” pur “lacerata / da pruni e rovi”  è ciò che rende la distanza divina una “goccia” del medesimo sangue umano, quindi il filo continua a rendere la distanza invisibile, pur reale, inesistente pur presente.

 

Se si pone il focus dell’attenzione partendo dall’irraggiungibile con lo sguardo verso l’uomo la visione prende un’altra sfaccettatura del “diamante” accennato. La distanza ha un altro sapore.

 

Traggo spunto da un estratto delle parole di Papa Francesco espresse durante un’ intervista con il giornalista Antonio Spadaro e tratte dal libro “Adesso fate le vostre domande” Rizzoli Editore –  2017 pagg: 64-65-66:

 

Da una domanda sulla presenza di Dio in tutte le cose “…..Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio.

“Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. E’ relativismo? Si, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale. “Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva……..Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta da vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana……..Bisogna fidarsi di Dio.”

 

Si può leggere e “vedere” il punto lasciato dal  passaggio della linea invisibile fra il cammino quotidiano, la necessità intrinseca di farlo pur  nella relatività delle cose e dello stupore, della sorpresa che si incontra in ogni passo di tale cammino. Un cammino verso qualcosa di irraggiungibile, ma di necessario, di individuabile in ogni persona che si incontra strada facendo.

 

Di quanto trascritto del discorso del Papa, sottolineo la posizione principale di chi si mette in cammino, cioè l’ascolto e il lasciare lo spazio a Dio perché possa venirci incontro. L’andare verso qualcosa per ridurre le distanze con chi si sta attendendo ed aspettando implica, una reciprocità di tale desiderio e bisogno.

 

Dio ha bisogno dell’uomo per poter esternare e donare tutto il suo amore all’umanità, umanità e motivo per il quale è morto e risorto.

 

La ricerca continua nel raggiungimento d’incontri prima difficili, improbabili, per poi ripartire per superare altre distanze.

 

Di nuovo la relatività della distanza e la presenza invisibile del filo conduttore.

 

Altre sottolineature le evidenzio con una poesia della poetessa Paola Lucarini, estratta dalla raccolta “Un incendio verso il mare” intitolata “Foreste, occhi di foglie” pag 62  

 

prima del testo poetico: “la pazienza dell’albero coincide / coni suoi cerchi, in silenzio”

 

“Foreste, occhi di foglie / fiumi, sguardo d’acqua / come ci osservate dall’antico specchio / che incenerisce la tenera carne / così sottilmente suona / il flauto osseo / avorio sepolto // s’intonerà alla mia / la parola degli antenati / vibranti nel sangue / – ondulato dall’oltre, dai mari dell’essere / ed esserci insieme – / terra dalle profonde voragini / – corpo, spirito – ascolta / il respiro che forma / prima della voce. // Del sangue scialbo / dilavato nella palude delle pianure / come potrò tornare / al vulcano dell’origine? / Solo tu Signore / ogni distanza puoi colmare: / la valle del desiderio, / la dismisura fra Dio e l’io.”

 

L’insegnamento dell’ascolto nasce dalla natura stessa e quanto ha da ricordarci e da dirci in quanto parte del creato e “figli” dello stesso Padre. Un corpo che risuona al ricordo delle parole di antenati, simbolo di un percorso precedente al proprio cammino, quindi una “storia che si ripete” nel tempo umano.  Fra le righe c’è la similitudine con altri tipi di credo, nella comunanza di un’invocazione ad un Dio altro da sé stessi per trovare la giusta strada e forza.

 

Così si ripete la paura, dovuta dall’incertezza del nuovo, di quanto ancora cammino si ha davanti e di come continuare nell’avventura della ricerca. Una risposta è data dall’invocazione verso l’origine, la sorgente dalla quale attingere per giungere alla conclusione del cammino, pur nella “dismisura fra Dio e l’io”.

 

 

La forza maggiore nella ricerca è racchiusa nella pazienza e nel silenzio, una miscela di tempo nel tempo; dell’ascolto dell’attimo e della brezza, voce e spirito divini.

 

Ho accennato all’insicurezza come stato d’animo che avvolge i pensieri e le azioni legate alla percezione della distanza da qualcuno o da qualcosa il cui valore affettivo non ha prezzo.

 

A tal proposito pongo all’attenzione un nuovo stralcio dal testo “Adesso fate le vostre domande” ed. Rizzoli 2017, parte del discorso a pagg. 62 e 63:

 

“….Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che Sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. E’ necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni…..”

 

Ed ancora:

 

“….Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuole dire che è un falso profeta……Si deve lasciare lo spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale………L’atteggiamento giusto è questo agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre….Bisogna rileggere il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei”.

 

 

Il segreto di avere pazienza ritorna ancora una volta. Non ci si deve affidare solo a strumenti umani, per quanto essi siano dono, ma l’interezza della persona e del vivere la “vera vita” a partire da questo mondo sta nell’unione inscindibile fra scienza, esperienza catalizzati dai “sensi spirituali”.

 

L’incertezza è parte integrante del cammino e degli spini irti incontrati nel percorso; spesso le difficoltà lo fanno sembrare molto lontano, una distanza disumana, quindi difficilmente raggiungibile. Ma i sensi spirituali donano la capacità di discernimento, accennata dal Papa, per trasformare gli spini in “grazia”, ottenendo dall’esperienza del superamento di essi, il superamento anche dei propri limiti. 

 

Un nuovo cammino interiore porta ad un migliore cammino e visione della vita nella vita.

 

Ad ulteriore arricchimento di queste mie riflessioni ecco la poesia “Nei pomeriggi invernali” della poetessa Emily Dickinson, tratta dalla sua raccolta “Passpartout  – Dickinson – poesie” Ed Demetra 2018 pag 71:

 

Nei pomeriggi invernali / la luce cade con un’inclinazione / che opprime, grava su di noi / come una musica di cattedrale. // Una ferita celeste ci lascia, / ma senza cicatrice: / resta solo un’interna differenza / dove risiedono i significati. // Nessuno può insegnarla, / il sigillo è la disperazione, / un supremo dolore / che ci giunge attraverso l’aria. // Quando viene, il paesaggio sta in ascolto / e le ombre trattengono il fiato. / Quando va, è come la distanza / nello sguardo di un morto.”

 

Posso dire con certezza che “i pomeriggi invernali” sono una fetta di stagione nota a ogni persona, uno struggimento senza fiato raccolto in un sigillo fondamentale: la disperazione.

 

E’ un paradosso umano, la sofferenza viscerale come “culla” per accogliere “ferita celeste”.

 

Sottolineo il rovesciamento del significato di morte e vita.

 

La carne a ricordo della nostra pochezza e materialità, è il richiamo all’umiltà del nostro essere nulla, ed al contempo la vicinanza alla vita vera nel momento in cui un supremo umano e divino dolore strappa una parte fondamentale di sé stessi; una lacerazione silenziosa, interiormente sanguinante, per unirsi così al sangue divino e divenire vita in spirito, balsamo che lenisce le cicatrici.

 

I “sensi spirituali” sono elevati, la distanza si accorcia un po’, il desiderio di ricerca accelera la corsa.

 

La morte apparentemente come massima distanza dalla vita, eppure qualcosa stona in un concetto che con sia  puramente empirico: l’amore, il sentire la presenza nell’assenza, il pensiero che guida il fare dei giorni, sono una “tangibile vicinanza”, fino a divenire una guida più ascoltata nei momenti di scelte offuscate e confuse, fondamentali.

 

Tale sentire può trasformare l’ultima dimora come “una coperta azzurra a margherite / e celesti…..occhi….” 

 

Il mio dire virgolettato è parte della poesia  “Oggi 8 luglio” scritta da Paola Lucarini in ricordo della morte di suo padre. Con tutto il mio affetto, ed in suo onore, eccola, estratta dalla sua raccolta “Semi d’Ulivo – Ed. Città di Vita – 1981 

 

“Oggi 8 luglio / ferma, tristezza, / il capogiro delle ore // sosta in me e in lui / che da campi sterminati / di dolore conclude / il suo giorno entro il recinto / d’una coperta azzurra a margherite / e celesti – tu li vedessi  – / gli occhi a dismisura / nell’ultimo campo”.

 

Ho fatto cenno alla memoria come distanza che collega, col filo sottile, il tempo trascorso con quello in divenire, compreso il momento presente, futuro di ieri.

La relatività della distanza, in un ricordo acceso, dal fiato corto per l’ansimare ed il sobbalzare del petto, quando immagini, suoni, profumi lo inondano da lontano, eppure veri, vivi.

 

Del resto se i ricordi prendessero una strada diversa, autonoma e decidessero di abbandonarci, noi stessi non esisteremmo più, in piena balia dello sconcerto di non sapere più chi siamo, cosa siamo e perché esistiamo.

 

Esattamente quello che accade quando ci dimentichiamo dei “sensi spirituali” e di Dio.

 

Dono di nuovo fiato alle parole di Papa Francesco, sempre dal testo succitato “Adesso fate le vostre domande”, con un estratto dalle pagg. 76 e 77:

 

“….Prego l’Ufficio ogni mattina. Mi piace pregare con i Salmi. Poi, a seguire, celebro la Messa. Prego il rosario. Ciò che davvero preferisco è l’adorazione serale, anche quando mi distraggo e penso ad altro o addirittura mi addormento pregando. La sera quindi, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora di adorazione. Ma anche prego mentalmente quando aspetto dal dentista o in altri momenti della giornata.

E la preghiera è per me sempre una preghiera “memoriosa”, piena di memoria, di ricordi, anche memoria della mia  storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare………E’ la memoria di cui Ignazio parla anche nella “Contemplatio ad amorem”, quando chiede di richiamare alla memoria i benefici ricevuti.

Ma soprattutto io so anche che il Signore ha memoria di me. Io posso dimenticarmi di Lui, ma io so che Lui mai, mai si dimentica di me. La memoria fonda radicalmente il cuore di un gesuita: è la memoria della Grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. E’ questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre”.

 

Ci si preoccupa mai di questo aspetto della memoria?

 

Quale altro ricordo potrebbe “connetterci” di più con noi stessi e con il mondo?

 

La speranza è la migliore compagnia, è cibo per la certezza, lasciando il pizzico di perplessità per renderla vera fede.

 

La distanza  fra corpo e spirito, divinamente voluta, ma anche spesso umanamente posta, è una presenza costante della distanza-vicinanza del mistero uomo-Dio-Vita.

 

Una nuova sfaccettatura del “diamante distanza” è una riflessione sul sogno, o meglio come il sogno possa essere visto come distanza dalla realtà, tangibile ma altrettanto esso stesso realtà impalpabile.

 

Dov’è la differenza fra i due tipi di distanze?

 

A tal riguardo ecco la mia poesia “ una forma in se stessa” tratta dalla terza raccolta di poesie dal titolo “L’amaca dell’abbraccio dissetante”, Raffaelli Editore – 2018, pag 23

 

“una forma in sé stessa / sfiorata con dolce leggerezza / è la bellezza // di una compagnia stellata / ombra e luce della realtà / di un sogno”

 

Altra sfaccettatura del “diamante” viene posta al nostro sguardo tramite il significato ed il significate incisi nelle immagini.

 

Immagini spesso, a primo acchito, distanti e prive di senso; la linea invisibile che colpisce la mente ed il cuore tramite l’occhio, ci riporta a posare lo sguardo di nuovo.

 

Lo stupore nascente da una scoperta inaspettata è parte del mistero intriso nell’immagine. Tale fatto accade  non solo nel caso d’immagine legate alla mondanità.

 

Quando si osserva un’opera impressa all’interno di una cornice, qualche cosa vibra o per assonanza o per distanza dal senso ad essa attribuito dal nostro back-ground artistico o dal nostro sentire spirituale.

 

Quando un artista compone un’opera, sia essa figurativa, musicale o poetica, di fatto, quale fiato rimane impresso e fluisce poi in chi la osserva, ascolta o decanta?

 

Altro mistero, del quale non si è consapevoli a sufficienza, che ci rimbalza ogni volta si decida di osservare con l’interezza di sé. Cioè facendo il vuoto interiore per accogliere ogni sfumatura, tratteggio quasi involontario o luce-ombra incisi o lasciati immaginare.

 

Improvvisamente ci si ritrova “dentro l’opera”, con la propria visione di essa, il proprio sentire, ma comunque la distanza in precedenza vissuta, si è dissolta. 

 

Il sentire dell’animo è divenuto tuttt’uno con l’opera stessa.

 

Chi è e dove inizia e finisce l’opera?

 

L’invisibile vicinanza, l’apparente distanza hanno una propria esistenza?

 

Il potere della vicinanza data dalle e con le immagini annulla le distanze. Di tale concetto desidero riportare, e far divenire esperienza, uno stralcio di alcune frasi scritte da Monsignor Gianfranco Ravasi dal suo testo “Maria la madre di Gesù” ed. San Paolo 2015, pagg 48 e 49:

 

Entriamo anche noi idealmente nella Nazaret antica, villaggio insignificante e semitroglodita: infatti le povere case erano per buona parte addossate a grotte che servivano come dispensa, come residenza estiva e invernale, come camera per gli ospiti. Ora i pellegrini vedono incombere su Nazaret la mole della Basilica……Questo edificio ingloba nel suo interno non solo le reliquie dei precedenti edifici bizantini e crociati, ma anche una rotta che fin dalle origini cristiane era stata una chiesa-sinagoga giudeo-cristiana, appartenente a quelli che il Vangelo chiama “i fratelli del Signore”, cioè i membri della sua parentela e del suo clan.

Contadini e gente modesta, essi avevano conservato anche nei secoli successivi il ricordo vivo e ininterrotto della residenza nazaretana di Maria. E’ su queste pareti che è stata trovata la più antica “Ave Maria”…….Nell’intonaco di un’altra pietra, che contiene molti grafici, ce n’è uno in armeno, nel quale si legge la parola Keganuish, “bella ragazza”, titolo che gli armeni sogliono dare a Maria. Perciò nella stessa casa di Maria si praticava il culto di lei fin dalle origini della Chiesa, perché lì essa era stata scelta a madre di Cristo.

Nella grotta di Nazaret si incontrano Dio e l’uomo, cancellando ogni distanza. Per ora da un lato c’è l’angelo, il segno divino, e dall’altro Maria, una ragazzina forse dodicenne, secondo la prassi nuziale antica dell’Oriente.”

 

Ritengo importante un’altra testimonianza al riguardo, estrapolando uno stralcio dal libro di Padre Raniero Cantalamessa dal titolo “Il mistero della Trasfigurazione”, ed. Ancora – 1999 pag. 22:

 

“Parafrasando ciò che Agostino dice della parola e del sacramento, potremmo dire che l’icona è una parola che si vede, la parola un’immagine che si ode”

A differenza di ciò che succede in tutte le altre icone, in quella della Trasfigurazione la forza non è nello sguardo di Cristo (lo si intravede appena per lo spazio ridotto che esso occupa nella scena), ma è nell’insieme, e specie nelle sue vesti. Quel “bianco”, infatti, deve addirittura far trasparire il mistero della luce divina che si irradia dal di dentro di Cristo.

Ora le parole del vangelo sono anch’esse, dice Origene, a loro modo vesti di Cristo: 

“Quando vedrai qualcuno che non solo conosce perfettamente la divinità di Gesù, ma è capace anche di “chiarire” ogni testo evangelico, non esitare a dire che per lui le vesti di Gesù sono diventate bianche come la luce”.

 

Presente-eterno: l’enigma quotidiano legato al tempo ed al bisogno dell’uomo di continuare ad esserne “il timone” e di confidare in un futuro per soddisfare il proprio progetto di vita ed oltre ad essa.

 

Ci si può affrancare in tale struggimento seguendo la linea invisibile che conduce alla ricerca.

 

Con parole altre ed alte ecco richiamare tale concetto in un’altra poesia di Paola Lucarini, intitolata “Coprire la distanza dal presente”, tratta dalla sua raccolta “La casa dei quattro eventi” – Nuova Compagnia Editore 1994 , pag 66

 

“Coprire la distanza dal presente / mi affatica // coprire la distanza dall’eterno / mi ristora”.

 

Distanza-vicinanza, finito-infinito, così com’è infinita la ricerca.

 

L’infinito è nella nostra finitezza che ci rende bisognosi di essere continuamente riempiti e riaccesi dalla linea invisibile: essa cuce gli stracci e i brandelli dei nostri tessuti, della nostra anima e ricompone uno stupendo abito traslucido come fili dorati luccicanti

 

La distanza, pur nella comunanza delle umani uguaglianze, pone la riflessione sulle disuguaglianze; queste pongono ulteriori domande sull’infinito.

 

A tal riguardo ecco una riflessione scritta da David M. Turoldo, presbitero, teologo, filosofo e scrittore oltre ad essere poeta italiano, membro dell’Ordine dei Servi di Maria, nel suo testo “Uno solo è il maestro” ed- Signoreli Milano – 1972

 

“…..Il tempo ti fa scoprire che sei limitato e che sei finito. Il tempo porta lentamente il tuo essere fiorente verso il tuo sviluppo prima, poi verso la tua fine.

Ti sei reso pure conto che l’uomo è vittima della disuguaglianza che regna nella società. L’uomo tende a farsi schiavo di altri uomini che sono più potenti di lui. Pure le conquiste della tecnica possono asservirlo; tanto che egli non è più in grado di pensare con la propria testa, ma è costretto a pensare in un certo modo……Poi l’uomo che è un essere diviso in sé stesso e dagli altri. La divisione è frutto d’infelicità……..

C’è qualcosa che lo attira oltre, qualche cosa di misterioso verso una bontà totale, un amore totale: una giustizia e una potenza totale. L’uomo si sente finito e limitato e in lui sorge il desiderio di essere infinito ed illimitato. In ogni momento della mia vita, in ogni mio desiderio e pensiero e momento di felicità, è presente questa attrazione dell’infinito. L’infinito non è qualcosa che si trova oltre le nubi, fra le stesse del cielo, in uno spazio misterioso che gli astronomi coi loro potenti telescopi non hanno ancora scoperto.

No l’infinito è in me, in tutto quello che penso e che amo. Questo infinito mi attira e mi chiama con la sua voce misteriosa. Esso è una promessa per me. Una promessa ad essere sempre di più.

Non solo io, non solo tu, ma tutta l’umanità porta dentro di sé questa chiamata…..anche quelli che affermano di non credere a ciò che noi credenti chiamiamo Dio…….

L’uomo è un essere incompiuto, limitato, finito; egli è aperto sull’nfinito…….L’infinito è ciò che abita nel più profondo della nostra coscienza……..C’è poi la divisione, la fatalità, la disuguaglianza, le varie forme che tendono a soffocare la voce della vita: sfruttamento, schiavitù, odio, guerra: il male! Il male che vorrebbe fare tacere la voce della vita che è la voce dell’infinito. L’infinito lotta contro il male……L’infinito è la Vita…….”

 

 

Da pag 55:

 

“La buona notizia che cambia tutto, è che l’Infinito si è messo alla ricerca dell’uomo. L’infinito si è fatto conoscere dall’uomo, si è confidato a lui, ha stretto amicizia con lui, lo ha portato sulle strade della libertà, della giustizia, della Vita…….”

 

Quest’ultimo stralcio fa chiaro riferimento a quanto contenuto nel Salmo 80 di cui scrivo:

 

“Per un istante solo facci vedere il tuo volto / ed il tuo popolo gusterà la gioia della liberazione”.

 

A tal proposito ecco l’ultima poesia da me presa a spunto fra quella scritte da Paola Lucarini; il titolo è E’ tempo di limpidi segni” tratta dalla raccolta “Per visioni d’anima” – Giuliano Ladolfi Editore, 2013 pag. 90:

 

E’ tempo di limpidi segni // apri dalle macchie d’oro / inazzurrano l’aria che invola / a odorose soste fiorite, / culle di segreto miele // meno aspro oggi il cuore, / lontana la città a distanza celeste.”

 

In tutto questo dire, parafrasare, un altro mistero emerge con tutta la sua intensità: la bellezza in senso lato.

 

Anch’essa distanza dall’uomo per la propria magnificenza, intrinseca ad esso per divin similitudine.

 

Quale distanza?

 

Concludo le mie riflessioni tramite due mie poesie tratte dall’ultima raccolta “L’Amaca dell’abbraccio dissetante” Raffaelli Editore . 2018 . pagg. 39 e 29

 

sapienza e cuore / un unico connubio / sale // in un meandro / pulsante dove i pensieri / han linguaggi fra di loro stranieri // polarità similmente diverse si attraggono / uniti scendono viaggiano su di un raggio illuminato / s’adagiano sulla lingua // terra di nuovo creato

 

 

la fame di bellezza / nel movimento delle cose / animate da moto perpetuo // lo stesso dell’essere alienato / in astinenza della sua visione, // di essa

 



MISERICORDIA DEI VERSI: IL DONO DEL PERDONO

 

Iniziare a scrivere su di tale argomento,vibrazione profonda dell’animo e solletico alla mente al fine di fonderli per trovare parole sagge da donare al mondo.

Questo è ciò che il mio sguardo poetico fissa nel cuore

 

Credo si tratti di uno degli argomenti sull’umano e la sua complessa poliedricità per i quali siamo tutti chiamati ad essere testimonianza verso le persone e nelle situazioni più svariate incontrate nel cammin facendo, lungo o breve che sia.

 

Già l’etimologia della parola “Perdono” è ricca di senso e significato, ai quali non sarebbe necessario aggiungerne altri: sarebbe sufficiente ascoltare dentro se stessi quali sentimenti, ragionamenti e sobbalzi scatena; non da meno quali incomprensioni ne impediscono il “pieno assorbimento” del valore in essa intrinseco.

 

Derivante dalla  lingua latina essa è composta dalla particella “Per” intensiva ed indicante il compimento e “Donare”, cioè concedere e anche condonare. In poche parole “donare completamente”.

 

Chi non rimane tacito per sgomento di fronte a tale significato!

 

Di sicuro per qualche secondo chi la legge smette di manovrare su di un tablet, non sente più l’assordante musica su pm3, o non avverte in “din din” di un email giunto sul pc: il tutto per il sol fatto che si tratta di una parola dissueta sulla  quale non si è abituati a riflettere; tantomeno a portarcela dietro per strada o durante le riunioni aziendali, o mentre si insegna a cuori bambini come camminare nella vita, istruzioni comprese.

 

Non voglio essere retorica, ho solo creato un “quadretto” inserendo nella cornice dei fermo-immagine di quanto accade nella quotidianità, se solo si vuole vedere e si gira lo sguardo verso quello di un “fratello” volendolo guardare negli occhi.

 

Tuttavia, mi rifiuto di fermarmi a tale visione, direi concreta ma pessimista e ferma alla superficie.

 

La domanda posta da Alessandro Ramberti ad introduzione del tema per questa Kermesse fonte avellanita, cioè: “La scrittura, la poesia, la musica, l’arte possono attivare il processo del perdono, renderlo possibile?” , alla quale non voglio per il momento rispondere, mi ha portato alla radice, quale denominatore comune fra le diverse arti sopraccitate e di qualsiasi percorso relazionale fra esseri viventi: l’umiltà. 

 

Quasi non rendendosene conto, si affronta la giornata e ci si raffronta con le persone già partendo dal punto di vista di essere nel “corretto e nel giusto” rispetto a scelte o decisioni da prendere, sia lavorative e personali.

 

Una sorta di pensiero egocentrico, pretenzioso di compimento e/ o risoluzione a breve tempo con soddisfacimento del bisogno del piacere, a livello primario.

 

Quando per giungere a tale obiettivo ci si deve confrontare con altri punti di vista, derivanti da culture e vissuti molto diversificati e diversi dal proprio, è inevitabile la creazione di un attrito intellettivo e reattivo con l’interlocutore.

 

A mio avviso, l’errore principale che si verifica in tali circostanze è nello sguardo col quale ci si pone nei confronti dell’altro. 

Il ruolo, lo status sociale, la gerarchia rispetto a se stessi, l’origine etnica o il genere di appartenenza sono le prime evidenze che giungono agli occhi e li offuscano.

 

Non si riesce ad andare al substrato “dell’abito”: è una persona! Punto e basta!

 

Derivato dell’educazione occidentale, la quale ci ha creato strutture intellettive e interiori tramite il riscontro di se stessi  nello “specchio”che ne ricaviamo guardandoci nell’altro, lo sguardo “vede” principalmente quello che non ci piace: sia perché meno competente o perché troppo capace quindi un potenziale “competitore” a parità di “performance”; intesa non solo in senso pratico in ambito lavorativo o artistico, ma all’interno di dinamiche relazionali.

 

Uscendo dalla sfera psicologica, mi ricollego al concetto di umiltà.

 

E’ mia esperienza personale la consapevolezza della necessità e della bellezza di tale dote, direi di definirla così, donata da Dio e dall’umano accettata: ogni giorno ha in sé la bellezza d’imparare novità, magari già presenti per altri, di incrementare lo scrigno della conoscenza con pillole di saggezza esperienziale o informativa, comunque costituente il bagaglio da avvolgere con il “fiocco del cuore” e  da donare al mondo per contribuire a renderlo più vivibile a se stesso.

 

Più si diventa colti, informati, aggiornati e assetati di conoscenza, spero proprio siano tanti quelli così “ricercatori della vita” , in primis gli artisti, più non si deve perdere la radice dell’umiltà: rischio di essere ripetitiva, ma tale ancoraggio dà linfa all’accoglienza, alla pazienza, alla comprensione, al rispetto, all’amore e al perdono.

 

Farsi piccoli: la grandezza dell’amore.

 

Non ho inventato nulla, da cristiana ho scritto in parole povere quello che con maggior maestria si può leggere in uno stralcio dalla “Prima lettera di San Paolo ai Corinzi – Capitolo 1, 1-5; 1, 20-21, 1,26-31):

 

1Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, 2alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: 3grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
4Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, 5perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. 6

 

20Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? 21Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. 

 

26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. 27Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 28quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, 29perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. 30Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, 31perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.”

 

Capitolo 2, 1-5

 

1Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. 4La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”

 

Apparentemente tale scritto non ha nulla a che vedere con il perdono, ma a mio avviso, se si riflette onestamente, per la maggior parte delle persone, prima di considerare difficile perdonale, c’è la convinzione di un giudizio, e si presuppone la sua giustezza in base alla propria saggezza e conoscenza, giustificando tale ragione con il vanto di studi acquisiti o di esperienza “toccata con mano”.

 

Si chiude la porta all’ascolto, allo spogliarsi da se stessi, allo sguardo libero per voler e desiderare veramente la comprensione, prima ancora dell’altro, dell’importanza del dono del perdono.

 

Comprensione: secondo scalino per giungere al perdono.

 

Quando si ascoltano parole, proprie o altrui, per facoltà associativa o acuta e profonda elaborazione intellettiva si giunge quasi sempre a capire il senso e l’intenzione del dire altrui.

Da qui alla reale comprensione può “esserci di mezzo il mare” come un saggio detto ci insegna.

 

Ancora una volta l’errore sta nel punto di partenza: la mente.

Per quanto “potente” ha un limite umano, penso dato da Dio per non cadere nella superbia, di non accorpare il tutto.

 

Per poter comprendere occorre accettare l’altro, amarlo così com’è. Cioè consentire all’altro la libertà di essere se stesso, quello che è per madre natura.

 

Mezzo passo antecedente c’è la cortesia, cioè la giusta distanza fra la relazione di antipatia-simpatia. Quindi il riconoscere nell’altro la presenza del bene, pur nell’errore commesso, nel dolore che ci ha causato, nella momentanea cattiveria umana sprigionata.

 

 L’altro è’ sempre a Sua immagine, non dobbiamo dimenticarlo!! Pensiero da portare sempre in tasca!

 

Conseguentemente ogni persona è sempre unica ed irripetibile, sia nel bene che nel male.

Se si continua a guardare al mondo e quindi anche agli uomini che lo costituiscono e lo generano continuamente, concentrandosi solo sul male si dà forza ad esso con la superbia di chi è convinto di fare del bene, alla sola ragione di “sapere di saperlo”.

 

Stoltezza umana.

I quaranta giorni di Cristo nel deserto sotto la tentazione del demonio, sono una delle verità che possiamo far divenire la metafora della vita di ciascuno di noi.

 

A ciascuno accade di non essere soddisfatti per mancanza d’amore, la tentazione di riempire tale vuoto con ogni “ben di dio” come si dice, o con gesti che ne soddisfino velocemente la “fame”, con la gloria e osanna conseguente giunta dal “popolo attorno”.

 

Così pure a tal punto, nella “quarantena” le offese giunte da chi si ama, o da altre persone, quelle inflitte volutamente o anche involontariamente, per le quali non si ammette il dolore causato, tanto meno la responsabilità del proprio agito.

 

L’infantile aggrapparsi alle auto giustificazioni per le più svariate ragioni che danno forza e ragione a quanto causato, quasi come un diritto di rivalsa nei confronti dell’altro o a riscatto di una situazione simile pregressa, mai risolta e divenuta “bomba esplosiva di vendetta” col fratello, non sempre colpevole della vecchia storia.

 

Niente di tutto questo ci fa essere veri figli di Dio, se ci fermiamo nella fatica necessaria per dire “No!”

 

L’”arma fatale” è la preghiera, dialogo diretto con Dio, per chiedere aiuto.

 

Credo possa rinfrancare l’anima e farci sedere un attimo sul cuore per far penetrare nel nostro essere quanto fin ad ora emerso:

 

Di Madre Teresa di Calcutta: “Preghiera di riconciliazione”

 

O Gesù, mediante la tua passione, insegnati a perdonare / per amore, insegnaci a dimenticare come frutto di umiltà. / Aiutaci ad esaminare il nostro cuore e scoprire se c’è / qualche offesa non perdonata o qualche amarezza / non dimenticata. / Infondi in me lo Spirito Santo affinchè cancelli / ogni traccia di rancore. / Effondi il tuo amore, la tua pace e la tua gioia, / nei nostri cuori nella misura in cui ci libereremo / dall’autogratificazione, dalla vanità dall’ira e dall’ambizione. / Aiutaci a portare con gioia la croce di Cristo. Amen”

 

Di Rabindranath Tagore (grande poeta indiano – premio nobel per la letteratura 1913): in occasione della consegna di Indira Gandhi della Laurea ad Onorem  a Madre Teresa di Calcutta

 

“Così ti prego, o Signore, colpisci alla radice / la povertà del mio cuore./ Dammi la forza di sopportare serenamente / le mie gioie e i miei dolori. / Dammi la forza di mettere a frutto il mio amore nel servizio. / o piegare le ginocchia di fronte all’insolenza del potere. / Dammi la forza di sollevare la mia mente al di sopra / delle piccole miserie di ogni giorno. / E dammi la forza di abbandonare la mia forza / alla tua volontà con amore”.

 

Non può mancare Mahatma Gandhi con: “Siamo una cosa sola

 

“Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Abbiamo tutti le stesse deficienze e siamo figli dello stesso unico Creatore, in quanto tali, la potenza divina in noi è infinita. / Disprezzare un singolo essere umano è disprezzare questa potenza divina e quindi far torto, non solo a quell’essere, ma, con lui, al mondo intero. /L’amore è la forza più grande che il mondo possiede e tuttavia la più umile che si possa immaginare- L’odio può essere vinto solo con l’amore. / Opponendo odio a odio, non si fa che aumentare l’estensione e la profondità della cattiveria. / Il cuore che ama segue anche chi è errante, e ama a costo di restare ferito. / Il mio obiettivo è l’amicizia con il mondo intero, e io posso conciliare il massimo amore con la più severa opposizione alla giustizia”.

 

Ad ulteriore riflessione aggiungo, così come Papa Francesco ha esortato la Chiesa e noi singoli testimoni e discepoli, occorre “uscire ed annunciare”, cioè mettere la persona al centro delle situazioni, in modo che non siano quest’ultime a travolgerla ma siano al suo servizio perché ella possa compiere quanto il “disegno” prevede, la gioia di vivere infonde e l’amore fertilizza.

 

Il tutto nella quotidianità e nella semplicità degli accadimenti, ovunque, a partire da quando la mattina si sale sull’autobus, si arriva a scuola o si scende per andare al bar per godersi la colazione, o si sale in ufficio per “provvedere agli obiettivi ed investimenti”.

 

Grande “investimento” per se stessi e per la società è affrontare ciò che ogni giorno ci riserva, mai in realtà uguale a quello precedente o seguente, con l’apertura al fratello, al bisogno che si ha di lui e Lui per costruire insieme la giornata e disinnescare la miccia della guerra, discordia, divisione diabolica.

 

Per tutto questo occorre stare in mezzo alla gente, non per proselitismo ma per farsi proposta di unione e di condivisione d’amore, nei piccoli gesti, nel sorriso.

 

Se qualcuno ci ha offeso brutalmente, magari davanti a testimoni, la migliore “offesa”  e risposta è il silenzio, lo sguardo nell’occhio dell’altro ed andare via con un sorriso. Dentro di sé pregare e dirsi “Padre perdona”.

 

Nella mancanza d’amore, nell’offesa ricevuta, nel “fango giunto addosso” c’è tutta la miseria e la debolezza simboli della fragilità alla quale nessuno è “esente”.

 

E’ vero, la dignità richiede anche il farsi rispettare, ed il lasciarsi offendere pare sia contraddittorio a tale concetto. Tuttavia la concitazione emotiva impedisce l’ascolto e la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprendere le ragioni di gesti non positivi.

 

Continuare lo scontro verbale mette benzina sul fuoco. La pazienza e l’attesa del tempo debito sono alcuni dei componenti “antidoto” alla discordia.

 

Saper attendere implica riconoscere la grandezza che è nell’altro, visibile o invisibile ai nostri occhi, ed accettare anche la risonanza del nostro essere piccolo; diversamente non costituirebbe un motivo di scontro. Goethe affermava che di fronte alla grandezza “esiste una solo autodifesa: l’amore”

 

Nel “renderci fratelli in Cristo” ci è stata data l’opportunità di saper riconoscere i reciproci bisogni e le reciproche difficoltà, debolezze. Nel renderci unici e diversi, ci è stata data la possibilità e l’esigenza, nel libero arbitrio, di aver bisogno l’un l’altro per completare sinergicamente la beatitudine in questa vita a “antipasto” di quella futura.

Nella fatica dell’incontro, nel rispetto reciproco, nell’uscire dall’io egoistico, nella forza della temperanza, è la scala per giungervi. L’amore è il collante del “puzzle umano”.

 

L’amore implica il rispetto. Dio per primo ce lo ha insegnato creandoci liberi di seguire i suoi insegnamenti o meno.  Pur nella Sua potenza, può salvarci solo se lo vogliamo.

Fino all’ultimo fiato ci accoglie e ci libera.

 

La nostra libertà, la cui massima espressione è il perdono, è accogliere Dio.

 

Dal Libro “5 minuti con Dio”  (ed.Piemme) di Enzo Bianchi fondatore della Comunità Monastica di Bose alcune piccole “schegge di fede”

 

Prima scheggia: (pag 8) Il tuo volto io cerco

 

Dal Salmo 27, 8-9

“Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto” / Il tuo volto, Signore, io cerco. / Non nascondermi il tuo volto.

 

Credo che se in tasca, oltre a tenere “L’altro è a Sua immagine”, mettiamo anche le parole appena citate, il calore dell’amore inizia a diffondersi in tutta la persona e solleticarlo anche nell’incontro con l’altro noi.

 

Seconda scheggia: (pag. 69) L’amore per i nemici

Dal Vangelo di Matteo: 5, 43-45 

“Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e /odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del /Padre vostro celeste.

 

Aggiungo un ulteriore passaggio, fuori “scheggia” , da me ritenuto pertinente

 

Dal Vangelo di Matteo: 5, 25-26

Mettiti d’accordo col tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!

 

L’invito alla riconciliazione prima di accostarsi alla Eucarestia, fonte di rinnovamento spirituale, richiama la nostra onestà di anima e coerenza di cuore col Padre.

E’ riconoscere il nostro bisogno di essere perdonati, innanzitutto dalla fonte dell’Amore, solo così riusciamo a fare lo stesso con gli altri.

 

Si potrebbe scrivere una relazione solo su questo concetto, mi fermo qui.

 

Ritornando sul silenzio ed il suo uso nei momenti di diatriba, oltre all’aspetto di fortezza ed intellettuale, desidero sottolinearne quella spirituale, quale forma di Parola Alta.

 

Ecco la terza “scheggia”: (pag. 79) Confidare nella Parola

 

Seconda lettera a Timoteo (2, 3-10)  stralcio

“………Cerca di comprendere ciò che voglio dire; il Signore  certamente ti darà intelligenza per ogni cosa. Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.”

 

In pratica ci ricorda il silenzio della Croce di Cristo.

 

Penso possa far risonanza, in base a quanto condiviso fino ad ora, la mia poesia “Croce di vita” in prossima uscita:

 

CROCE DI VITA

 

“Una scheggia della Croce / incide la carne / il senso della vita / sfida la morte / il tempo incatenato incespica / incatenato fra le indefinite ore / di viscerale metamorfosi / come pietre fondanti / il pane della fortezza / ed il vino della temperanza / rinvigoriscono la speranza / una nuova vita si alza / a piedi nudi cammina sui sassi / con mani riconoscenti accarezza / l’infinita amicizia di spirito e amore intrisa / del sangue del suo sangue il prodigarsi / di anime amate nel cuore incastonate la presenza / della fonte getti d’amore dissetanti.”

 

A proposito di ascolto, parola e silenzio, desidero fare omaggio  Katia Zattoni, amica e poetessa forlivese, ancora giovane quando è salita al Padre, con sue due poesie estratte da “Bucare la polvereed L’Arcolaio

 

 

PAROLE ASCOLTO

 

Parole sulle pareti rimbalzano / e io in mezzo mi siedo / a gambe incrociate; / aspetto / ascolto./ Ascolto le parole che più forti / rimbalzano / e che strapiombano / al centro / dove mi trovo / dove mi trovano / col viso tra le mani / in ascolto / in attesa. / Ascolto le parole che più forti / rimbalzano / e che mi feriscono / come unghie di feroci dottrine. / Non riesco a fluidificare i flussi, / – non posso lenire i graffi / profondi schizzi di suoni / lacerazioni di sillabe / al centro dove mi trovo / dove mi trovo seduta / con gli occhi chiusi -. / Anche questa mattina / parole sulle pareti rimbalzano / al centro della cucina / dove mi trovo, / dove mi trovano / seduta preda pentita / ad occhi aperti /, muovo0 le mani per trovare / parole che ascolto / per bloccare / le parole che ascolto / A stento muovo passi: / esco e col silenzio mi riparo.”

 

Emerge fortemente la violenza e la mancanza di rispetto, nel luogo reputato più protettivo e rassicurante quale è la propria abitazione o nucleo familiare; è uno dei tanti esempi, credo i più taciuti, presenti nella quotidianità di molte persone, senza differenza culturale.

A testimonianza della comunanza dell’umano alle diverse debolezze dalle quali sorgono soprusi, ed altro per i quali l’anima del ferito e quello dell’accusato necessitano di perdono.

 

Molto spesso l’artefice dell’atto maldestro ha il cuore più ferito della vittima stessa, vittima a propria volta di mancanza d’amore.

 

Altre considerazioni, e ce ne sono a diverso livello, le lascio al lettore.

 

Un flash positivo a scuotimento di dal pensiero di divisione: dal medesimo libro di Katia Zattoni “Bucare la polvere”

 

QUELLO CHE CI UNISCE

 

Perfidia degli esercizi di felicità:/ quello che ci unisce. / L’accoglienza d’ogni delusione”

 

E’ un invito a continuare con fiducia e pazienza ad accogliere l’altro così com’è e anche le situazioni che la vita ci riserva, un esercizio quotidiano al quali ciascuno è sottoposto per giungere a compimento e completamento della propria strada terrena.

 

Ulteriore invito all’amore

 

Oso utilizzare la stessa irruenza dell’aggressione, normalmente vista solo dalla parte negativa, parlando della potenza dell’amore e di donarlo proprio ad antidoto contro lo spargimento di sangue, il terrore e la distruzione presenti sempre più spesso nelle strade di città, in precedenza vissute come bellezza da ammirare, cultura da conoscere e diversità da condividere.

 

Sono molto contrariata sulla modalità mediatica con la quale si riportano fatti ed accadimenti o presunti tali circa le circostanze collegate a fondamentalismi islamici o a ribelli contro il mondo intero.

 

Desidero riportare il pensiero degli operatori della comunicazione e di chi li governa al dovere morale e deontologico della propria professione in esecuzione della “mission” sottostante al loro operato; mi riferisco al trasmettere fatti ed immagini nel massimo della coerenza ed adesione ad essi stessi e con un linguaggio trasparente sull’evento ma con la modalità comunicativa dei messaggi che tenga conto di  non esacerbarne l’enfasi, creando così discrepanza fra i fatti ed il vissuto che di questi ne giunge a chi ascolta.

 

La negatività di fatti di violenza e di guerra, non è solo in essi, ma nel pensiero che si genera su di essi e la distruzione di prospettive future di un possibile cambiamento, togliendo agli ascoltatori la volontà di mettersi in gioco perché ciò accada e dare fiducia alla nuova generazione e a ciò che di positivo esiste.

 

Tutto questo è nel rispetto di chi pone fiducia sulla realtà e veridicità di ciò che ascolta oltre all’educazione alla popolazione tutta, non solo i giovani, in considerazione che tale diritto è valido fino all’ultimo fiato disponibile.

 

Credo che faccia parte dell’aspetto deontologico  riportare, anche pur per uno solo, fatti di solidarietà umana, di tentativi di aiuto, di coraggio da parte di coloro che non hanno voce perché non “fanno odiens”.

 

La conoscenza è un diritto civile che dona la libertà alla persona permettendole di scegliere da che parte stare, quale possa essere la strada migliore per “sapere da che parte va il mondo” e dove invece si ha progettualità di vita perché possa essere migliore.

 

Conoscenza, come dono d’amore, aiuto per poter poi perdonare, comprendendo le ragioni prima non conosciute, la cultura di appartenenza ed il conseguente diverso valore attribuito a quelli che sono i capisaldi del buon vivere comunitario.

 

Così facendo ciascuno ha la possibilità di conoscere meglio anche se stesso, imparando poi a sapersi perdonare.

 

 

 “Amore Kamikaze” inserita nel prossimo libro “L’amaca dell’abbraccio dissetante:

 

“ora, adesso, in questo attimo/ sfodera il tuo amore dal petto / guarda vibra sobbalza zampilla/ sui volti da sibili di morte sbigottiti / colora di azzurro e di rosa / la loro linfa / speranza per l’anima di persone attonite / spezzate alla ricerca del respiro di parte di sé / nel frastuono di voci omologate, atone / nella sopravvivenza corrono / le anonime spalle urtano nell’indifferenza / i corpi non veduti inermi nel terrore congelati / fuggono inciampano in schizzi di morte, di vite stroncate / ora, adesso, in questo momento / puoi annientare tale nefasta onnipotenza, malignità / porgi la vera arma dal petto / da niente scalfita, la tua dignità / la certezza della libertà / anima sempre viva nell’Amore / nella poesia, pietrifica la violenza ignorante / di kamikaze morti nella loro essenza / polvere putrida alla Sua presenza / la forza di cuore-mente nascente si fa esplodere / nel mondo come fuochi d’artificio / irradia fratellanza, conoscenza pace / nuovi respiri d’amore”.

 

E’ impossibile modificare il corso degli eventi la conversione dei cuori senza saper attendere, avere la pazienza necessaria perché il seme dell’amore continui a dare frutti, con i tempi non nostri. 

 

Il crederci perché la certezza nasce da verità interiore resa salda da esperienza, testimonianza altrui, è l’acqua con cui annaffiare i semi, la preghiera è l’humus.

 

Nessun essere umano nasce col cuore arido, kamikaze o con la voglia di uccidere; in un certo senso si è un po’ tutti responsabili della negativa metamorfosi accaduti ad alcuni, meno forti nella fede, quando non del tutto lontani da essa, o mal amati per non dire vissuti nell’indifferenza.

 

E’ difficile avere il coraggio di chiedere ai genitori dei ragazzi uccisi poco tempo fa a Manchester di perdonare chi ha commesso tale terribile gesto. Forse questi ultimi hanno la stessa età dei loro defunti figli.

 

Tuttavia ci sono testimonianze di altri situazioni datate di qualche anno, dove il perdono è stato possibile, trasferendo l’amore di madre non solo sul proprio figlio, ma su chi ha commesso il delitto, cioè uscendo da se stessi, grazie alla fede e pazienza.

 

Ogni persona ha tempi diversi per giungere ad un reale cambiamento, ha la necessità di ricadere più volte nei propri errori prima di saper “reggersi sulle proprie gambe” perché la stampella l’hanno nel cuore.

 

Occorre un profondo amore per la vita, che paradossalmente la si ha quando la si sta perdendo, e questo non accade solo quando le membra sono lacerate, ma anche quando cammini per strada e l’abbandono ed incomprensione sono l’unico “pane” per nutrirsi.

 

La maturità dell’uomo inizia quando si accetta se stessi così come si è, certi che anche Dio ci ama allo stesso modo; se i genitori terreni o le persone del cerchio intorno a noi non possono fare altrettanto, non sempre è per non amore, ma semplicemente per un loro limite. Accettarli così come sono, con la speranza e pazienza necessari perché il seme dell’amore germogli, sono i primi passi per giungere al perdono.

 

Una testimonianza, da me ritenuta importante, è possibile viverla tramite le parole di Suor M. Faustina Kowlska. Fu canonizzata Santa da Papa  Giovanni Paolo II il 30 aprile 2000. ecco uno stralcio dell’omelia del Santo Padre dal “Diario” Editrice Libreria Vaticana:

…..Dalla Divina Provvidenza la vita di questa umile figlia della Polonia è stata completamente legata alla storia del ventesimo secolo, il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. E’, infatti, tra la prima e la seconda guerra mondiale che Cristo le ha affidato il suo messaggio di misericordia. Coloro che ricordano, che furono testimoni e partecipi degli eventi di quegli anni e delle orribili sofferenze che ne derivarono per migliori di uomini, sanno bene quanto il messaggio della misericordia fosse necessario.

Disse Gesù a Suo Faustina: “L’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia” (Diario pg. 132). Attraverso l’opera della religiosa polacca, questo messaggio si è legato per sempre al secolo ventesimo, ultimo del secondo millennio e ponte verso il terzo millennio……….. il Vangelo della Pasqua, per offrirlo come un raggio di luce agli uomini e alle donne del nostro tempo…..”

 

Si può dire a pieno titolo che ancora ai giorni d’oggi nulla è cambiato, siamo di fronte ad una terza guerra mondiale a pezzetti; oggi più che mai il mal uso delle tecnologie e il desiderio di onnipotenza stanno distruggendo il buono dell’uomo.

 

Ma per chi crede in Cristo nulla è impossibile, quindi…

 

Esorto ad ascoltare col cuore  due stralci dal “Diario”:

 

“……- L’anima: “Signore, le mie sofferenze sono così grandi, diverse e durano da così lungo tempo, che lo sconforto si è impadronito di me”:

 

  • Gesù “Bambina Mia, non bisogna lasciarsi prendere dallo sconforto. So che confini in Me illimitatamente, so che conosci la Mia bontà e Misericordia, perciò potremmo parlare dettagliatamente di tutto ciò che ti pesa maggiormente nel cuore”
  • L’anima: “Signore, ecco ancora un altro impedimento ed un ostacolo sulla strada della santità. Mi perseguitano perché Ti sono fedele e per questo motivo mi fanno soffrire”
  • Gesù: “Sappi che siccome non sei di questo mondo, il mondo ti odia. Ha perseguitato anche me. Questa persecuzione è il segno che segui fedelmente le Mie orme”
  • L’anima: “Ancora una cosa, Signore. Cosa fare quando vengo disprezzata e respinta dalla gente e specialmente da coloro sui quali avevo diritto di contare e ciò nei momenti di maggiore necessità?
  • Gesù: “Bambina Mia, fa il proposito di non contare mai sugli uomini. Farai molte cose, se ti affiderai completamente alla Mia volontà e dirai: Avvenga di me non come voglio io, ma secondo la Tua volontà o, Dio. Sappi che queste parole, dette dal profondo del cuore, portano l’anima in un attimo sulle vette della santità. Per una tale anima ho una speciale predilezione, un’anima del genere Mi rende una grande gloria e riempie il cielo col profumo delle sue virtù. Sappi anche che la forza che hai per sopportare le sofferenze, la devi alla santa Comunione frequente, perciò va spesso a quella fonte di Misericordia ed attingi col recipiente della fiducia tutto ciò che ti serve”

 

Inoltre in una delle preghiere della Santa: “…….Non diminuire affatto le mie pene, ma dammi la forza di sopportarle. Fa di me quello che vuoi, o Signore, dammi solo la grazia di saperTi amare in ogni caso e in ogni circostanza. Non ridurre Signore, il calice dell’amarezza, ma dammi la forza di berlo fino all’ultima goccia”.

 

E’ una grande testimonianza di comunione col Padre e di cosa ciò significhi, a conferma che nulla ci è impossibile se ci affidiamo. Questo vale anche per poter giungere a perdonare prima di tutto se stessi e i nostri nemici.

 

Mi sembra un “seme” importante in tal senso riportare lo stralcio delle parole del Santo Padre emesse durante l’omelia del 23 aprile 2017,  domenica della Misericordia:

 “La Misericordia apre la porta del cuore e lo riscalda, lo rende sensibile alla necessità dei fratelli con la condizione e partecipazione,

Impegna tutti a essere strumenti di giustizia e di pace

Misericordia chiave di volta nella vita di fede e forma concreta con cui diamo visibilità della Risurrezione di Gesù

Maria madre di Misericordia ci aiuti a vivere con grazia tutto questo

La Misericordia è la porta che apre la mente e aiuta a  comprendere la vera conoscenza anche se la conoscenza la possiamo fare anche in altri modi: tramite i sensi, l’intimità l’intelligenza.

Le prime parole di Cristo risorto sono state:: Il perdono – le ultime che ha detto in crocifissione: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”

 

Su quanto citato si potrebbe scrivere un libro; mi limito a sottolineare un aspetto al quale nessuno è sottratto: per poter perdonare un fratello è necessario prima comprendere e perdonare se stessi, esperienza liberante. 

 

Rifletto su entrambi i verbi: “comprendere” se stessi, fatto non così scontato. Ciò che si crede essere parte di se stessi è il riflesso ed il costrutto di come vorrebbero gli altri che noi fossimo.

 

 Tale meccanismo sorto agli esordi della nascita, se non debellato da un vero e profondo amore avuto dalle figure di riferimento, è un “compagno di vita” per molte persone.

 

Chi ne è esente, e ci sono persone in tale senso, normalmente vengono vissute come inflessibili e di una speciale profondità e ricchezza interiore. 

 

In base alla mia esperienza queste caratteristiche sono “raggiungibili” per chiunque desideri conoscersi per conoscere, partendo dall’umiltà di essere sempre persona in divenire e dono; riconoscere i propri talenti e metterli a frutto fra cadute e risalite è un modo per prendere maggiore consapevolezza di sé. Il tutto condiviso ed arricchito con altri fratelli altrettanto dotati di talenti, apre la porta alla comprensione e, umilmente perdonare.

 

Perdonare se stessi: mi riallaccio all’ultimo mio concetto di umilmente perdonare. Infatti perdonarsi significa prima di tutto riconoscere di aver sbagliato qualcosa o fatto del male a qualcuno o non dato amore. E’ un giudizio dato a se stessi, per alcuni molto lacerante, sia perché è necessario dire “mia culpa”, sia perché si deve ammettere che ha avuto ragione qualcun altro: la superbia e l’egocentrismo non sono certo “gli aiutanti” per giungere al perdono.

 

Tuttavia, siamo stati creati con assoluto Amore così come siamo, anche in quegli angoli a se stessi conosciuti: questo è il comprendere di fondo al quale attingere per dirsi: “Padre perdona, non so quello che ho fatto. So che tu ci sei, prendimi per mano, sussurrami la via e sarò un raggio di Te”.

 

Spesso lo sguardo ed il giudizio negativo altrui hanno fatto perdere l’affetto verso se stessi e guardarci bene dal credere nella relazione con l’altro, la diffidenza entra in campo.

 

Accettiamo il fatto di essere amati incondizionatamente e prima delle opere da ciascuno compiute, sostenuti e stimolati dalla Sua parola. Se si accetta tale amore incondizionato allora abbiamo lo strumento per fare altrettanto rallegrandoci per il bene dell’altro, stimandolo per le sue capacità e le buone opere.

 

E’ importante sottolineare che nell’uomo la forza di perdonare non toglie il ricordo del fatto precedentemente accaduto. Dio perdona e dimentica. 

 

In assonanza con quanto scritto dalla mia prima raccolta poetica “Ogni istante” vi leggo la poesia “LONTANO SIBILO”:

“Parole, parole, parole /Orecchie ascoltano ma non capiscono / credono di essere verità / Il Tempo sembra tornare indietro / anche se il presente “vede” il futuro / Incredulità e Forza “nutrono” il cuore / che ogni giorno mostra sempre più la sua Grandezza / Aspettami, non abbandonare la strada. / Dentro c’è la certezza che lo  Spirito dona / Sapere / che Tutto è più grande di quello che è./ Solo il Dopo farà da testimone di ieri e di oggi: /odio, potere, perfidia, ipocrisia, “libidine usata”/ colpiscono l’Anima nel desiderare il suo scoppio. / Queste “armi” non sanno di essere “ubriache” della loro “sporcizia” / La Luce dissiperà il fango della menzogna / di “loro” non resterà che / un lontano sibilo / Signore perdonali.”

 

Il concetto di perdono implica anche un aspetto, quello di giustizia.

 

Nella visione laica la giustizia è “amministrata” da leggi, regolamenti e consuetudini atte a dare tutela e garanzia di iniquità per tutti di fronte a simili situazioni.

 

Nei tribunali queste sentenze sono spesso altisonanti di perfezione, ma chi gode dell’esito non è pienamente soddisfatto. C’è sempre qualche aspetto della situazione non valutato a pieno, o dai possibili diversi risvolti.

 

Regna l’insoddisfazione nelle pene e condanne inferte ai  colpevoli, o presunti tali, di reati.

 

Il fatto di apportare cambiamenti alle leggi ne alleggerisce o appesantisce la gravità del gesto commesso, crea un dato di opinabilità della giustizia. Umanamente parlando è necessaria una categorizzazione dei fatti in modo da poter avere parametri e legislazione abbastanza adeguate per farvi fronte.

 

Da quanto acquisito da esperienze vissute da altri non mi pare che i cuori di entrambi le parti coinvolte in giudizio abbiamo, il più delle volte, la risposta attesa. Il denaro modifica i tempi, la tipologia di condanna o di non condanna.

 

A mio parere è una consuetudine che non merita parole.

 

Ritengo importante spendere due parole anche su un altro tipo di religione, molto presente anche nella nostra realtà, per darne spunto ad una riflessione su quella normalmente presentata tramite ideologismi e notizie mediali.

 

Rimane sempre attuale il detto “Tutto il mondo è paese”.

 

Anche nella seconda religione monoteista, quella musulmana, il Perdono e la Giustizia hanno una rilevanza importante per i suoi credenti.

 

Il Corano, base e fondamento dell’Islam, è al tempo stesso un trattato teologico e un codice di Giurisprudenza.

 

Il senso di giustizia è quindi strettamente connaturato al senso religioso.

 

Riporto un estratto di un intervento del 28/10/2014 del Maestro Sufi, Gabriele Mandel Khan Vicario generale (khalifa) per l’Italia della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti fondata a Istànbul nel 1704.

 

I Sufi sono parte integrante della Storia delle religioni; i Sufi sono i Puri. Se chiedete a uno di loro se è un Sufi non sentirete mai dire di sì, perché chi lo é, per modestia non lo dice.

 

IlSufismo o Tasawwuf  è la forma di ricerca mistica della cultura islamica. Il sufismo viene a volte definito come l’unione antica del Cristianesimo e del neoplatonismo, che diede vita ad una forma di ricerca interiore, il misticismo dell’Islam, è la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, anche se il sufismo utilizza concetti derivati da fonti tanto greche come persiane antiche e indù.:

 

“IL PERDONO – …..Il Corano insiste particolarmente sul fatto che il peccato (2^, 4^ e 71^ sura) può ottenere misericordia da Dio. “Secondo il mio ardente desiderio, dice Abramo, Egli perdonerà i miei peccati nel Giorno del Giudizio (Sura 26). Dio accetta il pentimento e assolve ai peccati; e li perdona del tutto. Uno dei 99 nomi di Dio il 60° è il Perdonatore (Colui che torna al peccatore); il 15° è l’Indulgente, ossia il Perdonatore che non cessa di perdonare); il 35° è il Clemente, cioè è il Perdonatore benevolo..

Ogni azione del musulmano inizia con l’invocazione “nel Nome di Dio, Colui che è Misericordioso, Colui che fa misericordia”.

 

Nelle cinque preghiere canoniche quotidiane il federe si prosterna toccando il suolo con la fronte (e il naso) e in questa posizione pronuncia per due volte la formula Tawha: “Signore, sono stato gravemente ingiusto verso me stesso, e nessun altro che Te può assolvere i miei peccati. Assolvi i miei peccati e fammi misericordia. Tu sei il Perdonatore e il Misericordioso per eccellenza”.

 

Inoltre, in un altro stralcio del medesimo testo…..”Il peccato è una violazione (per una causa terrena e quindi effimera, quale la sensualità, l’interesse egoistico, ecc) d’una legge istituita da Dio e quindi eterna. Commesso da un essere finito ha una gravità infinita poiché offende Dio che è infinito. Ma Dio nella Sua onniscenza, nella Sua misericordia, nella Sua saggezza e nella Sua bontà lo può perdonare. ………Il Corano precisa nella 4^ sura: “Spetta a Dio accogliere il pentimento di quelli che fanno il male per ignoranza, e a volte si pentono; ecco: da loro Dio accoglie il pentimento”. Ancora (39^ sura) “Non disperate della misericordia di Dio. Sì, Dio perdona tutti i peccati, perché Lui è il per donatore, il misericordioso”.

……due peccati comunque non otterranno il perdono: l’idolatria e il suicidio consapevolmente voluto.

 

Mi fermo qui, l’argomento è molto ampio; ho tentato di darne una visione focalizzata su alcuni aspetti dei quali nella quotidianità se ne sente parlare in maniera diversa, spesso con enfatizzazione negativa, ciò in funzione della poca conoscenza di chi ascolta.

 

Penso sia giunto il momento di rispondere alla domanda di Ramberti di cui ho accennato in precedenza, cioè: “La scrittura, la poesia, la musica, l’arte possono attivare il processo del perdono, renderlo possibile?”

 

La mia risposta è sì.

 

In tutte le arti succitate c’è l’espressione di un’epoca e del vivere dell’uomo, anche il non vivere. La parola è lo strumento dell’uomo per esprimersi, ma non sempre è quello più efficace a far penetrare il messaggio.

 La parola poetica, in quanto mistero in se stessa, è potente in tal senso e la ritroviamo anche nelle altre arti figurative o artistiche.

 

Queste ultime a loro volta sono espressione di un’essenza che fa risuonare dentro alla mente e al cuore le parole non dette. Le icone nelle chiese ne sono esempio.

Le sculture, i dipinti sono rappresentazioni di una miscellanea fra soggettività, realtà, immaginazione, tecnica artistica, esperienza, visionarietà, urli taciuti, progetti di vita.

 

Esprimersi tramite di essi è una modalità comunicativa e di relazione che pone la bellezza in senso lato come prima parola, la quale fa sfumare i vapori della bruttezza di alcuni pensieri, intenzioni di inimicizia anche fra popoli di diversa cultura.

Il secondo livello è quello di riportare l’uomo ad assaporare, toccare con mano quanto di culturale e di simile in tale ambito con la propria possa esserci; l’arte come specchio di se stessi nel proprio mondo.

Questa conoscenza aumenta la comprensione, si inizia a dialogare, con parole poetiche si dice la realtà delle cose e dell’essenza di esse, per tradurla con la pienezza della sua essenza parlando della vita, di valori e dei bisogni dell’uomo, per primo l’amore.

 

Dove c’è amore c’è misericordia e perdono.

 

Luglio 2017



LE PAROLE DELL’ANIMA

 

Scrivere a proposito  di parole non è mai banale, per quanto possa sembrare semplice. 

 

Un “Si” è talmente importante da cambiare il corso della storia del mondo e quella personale.

 

Quello di Maria all’annuncio dell’Angelo l’ha resa madre del mondo e simbolo di abbandono puro al Padre ed obbedienza all’amore  giunto nella propria anima.

 

Quando a pronunciarlo sono i cuori di due persone, si battezza l’inizio del lungo e non facile cammino di amarsi per tutta la vita e oltre.

 

L’intensità del senso di quanto sopra è solo una riflessione sul significato della parola e del suo uso. O abuso.

 

Non a caso è un dono riservato al genere umano tramite grafemi di vario stile e struttura oltre alla relativa articolazione fonica e di congiunzione col significato; la modalità comunicativa donata agli animali è diversa. 

 

Tuttavia sottolineo un aspetto di comunanza fra le due modalità: pur senza grafemi, gli animali della stessa spece possono comprendersi con atteggiamenti e suoni e giungono ad intese con le regole dettate dal capobranco. 

 

Nel rapporto fra l’uomo e gli animali “da compagnia” quali il cane, il gatto è possibile interpretare reciprocamente l’intenzione e la necessità del momento; il bisogno di attenzione e di effusioni dall’uomo definite “affettive”: l’animale non conosce cognitivamente il significato di tale categorizzazione, ma ne associa il senso nella relazione con l’uomo.

 

Tale modalità comunicativa e di parole non verbalizzate si nota nella ippoterapia: nella relazione instaurata fra il cavallo e alcune persone con condizioni psicologiche particolari nasce uno scambio affettivo e di miglioramento comportamentale e di aiuto alla resilienza nella persona proprio partendo da un’intesa interiore e di atteggiamento col cavallo. 

 

Le parole dette dalla persone paiono essere intese dall’animale, ed ad essa risponde con il proprio linguaggio in suoni e fisicità.

 

E’ un modo un po’ particolare di parlare della parola e dell’anima, spero di dare spunto di riflessione di quanto il flusso interattivo fra il significato dei due lemmi sia presente nella quotidianità del proprio agire.

 

Negli esempi suesposti è presente un comune denominatore: la poesia.

 

Il “poiesis” del “Si” di Maria, trasformato poi nel proprio agito e nel “fare” dei Suoi silenzi come custodia e meditazione della Parola.

 

Il “poiesis” degli sposi, testimoni del “fare” della vita fra inciampi, rovi e rose e progettualità nata dall’unione di tre anime, la terza è quella spirituale.

 

Il “poiesis” del dono di uno scambio reciproco partendo dalle debolezze, divenute la forza dalla quale partire per comunicare la propria anima senza le parole, con un contatto fra crine, pelo e la mano.

 

A proposito di “poiesis” desidero dare voce a modalità diverse di parlare della vita.

 

La poesia è una delle arti con la quale si cerca, si scava a fondo, come diceva il poeta Caproni “La poesia è il minatore  della parola” per dare corpo a ciò che scorre, come l’acqua nel fiume insieme ai sassi, ai pesci e ad ogni altro organismo visibile ed invisibile in essa contenuti. 

 

Insieme costituiscono il fiume per divenire poi l’acqua del mare, simbolo della vita piena e dell’oltre da raggiungere, oltre l’orizzonte indefinito. La vita.

 

Si possono udire molte voci di tono diverso per parlare di vita, una sorta di “arcobaleno” simbolo della bellezza del dono della vita e dei colori in essa contenuti, tutti nella purezza del bianco.

 

Prima voce da me messa in evidenza,  è quella dell’amica e poetessa Paola Lucarini, grande scrittrice e critico letterario, membro della giuria del “Premio Camaiore” ed altri, nonché presidente dell’Associazione “Sguardo e sogno” di Firenze.

 

Nella sua raccolta “Per visione dell’anima” – 2013  ed. Giuliano Ladolfi, esprime il connubio tra anima e parola, sintesi di vita. Ne trascrivo solo alcune: 

 

L’acqua lucente dal cielo / sulla polvere della terra / accende l’anima del creato / rondini, sotto il manto del lutto / rifulge il candido petto / che tenta fra nuvole / la vibrazione dell’alta gioia / tu ritorni nel sole, colomba innocente, / a ravvisare ciò che sognammo / insieme: poesia della speranza, / ora poesia della presenza”

 

“Vorrei non finisse più il giorno / che separa da te, dall’attimo / in cui quietamente dirò: questo / è l’ultimo incontro. / E s’infrangerà a terra / il vaso di vetro della mia vita.”

 

Terza ed ultima poesia presa dalla suddetta opera è dedicata alla madre

 

“La pioggia intride la terra / e il grido di te dentro / apre solchi nel rifiuto / dell’ignoto mare del male / così mi ritorni, madre solitaria, / murata nel silenzio / di chi vide la sua vita / fiottare nel primo sangue – / la vulva materna arresa / oscenamente dilatata / alla rosa rossa del cancro. / Ereditasti lo strazio / più lancinante nell’attenta menzogna / quotidiana della consolazione / “non è niente, sai, guarirai”. / Ragazza d’un subito apprendesti  / l’eterna storia della putredine / a divorare viscere. / Sempre ti seguirono t’inseguirono / tempi indimenticati / un lutto perenne corrodeva i gesti / all’apparenza pazienti e protettivi / mentre additavano la morte. / E la nostra futura, inconsolata. / Mio primo alfabeto / fui il tuo ininterrotto pianto – / la follia venne dopo / a dilaniarti a dilaniarmi / mater dolorosa figlia dolorosa / dolorosa verità, infinita catena / fino ad oggi / quando liberata mi liberi / nel segno di un’antica alienazione / ora lucente benedizione di me / che non ho voluto assistere / alla violenza del trapasso / esploso viola al tuo petto / come avrei potuto abbracciarti / nel distacco, se non cullarti / nel dopo, una camicia da notte / fiorita per donare il lenzuolo / del sonno e del risveglio a te / quieta finalmente come la bambina / he fosti mai lo fu. / Parla, mistero della vita, / che io comprenda.”

 

Stupende poesie: il richiamo all’acqua come fonte di vita alla quale attingere rivolgendosi verso il cielo, consapevoli di essere parte del creato. Il bianco della colomba, libertà di spirito grazie alla speranza di vita sorta dall’essere polvere, e grazie al dono della poesia, strumento per assaporare quello che lo sguardo può carpire e che l’anima può effondere nelle e dalle cose.

 

 Metafora del nostro essere nella vita, colomba, solo se la vita entra in noi dall’alto.

 

Tutto questo fino alla fine dell’ultimo giorno, o meglio il primo di ricongiunzione col Padre.

 

Il “poiesis” di cui ho accennato inizialmente, lo ritroviamo nella poesia dedicata alla madre. Il dolore della certa perdita di una presenza, forse prima affettivamente assente, ora divenuta fonte di legame di vita. 

 

Intense emozioni, intensi attimi di morte e di vita di due anime in una.

 

Una voce altrettanto significativa è quella del poeta turco Ataol Behramoglu: nato ad Instanbul nel 1942, capo del dipartimento di lingua russa dell’università di Beykent;  oltre ad essere poeta e scrittore è stato il maggior traduttore dei letteratura russa nel suo paese. Ha ottenuto diversi riconoscimenti fra i quali il Great Prize for Poetry del Turkish PEN Center. 

 

Dalla sua raccolta “Non scordarti di amare” – 2014 ed. Raffaelli:

 

“Ho imparato alcune cose dall’aver vissuto tanto / Se sei vivo, sperimenta, la fusione con fiumi, cieli, cosmo / Perché per ciò che ne sappiamo noi siamo un dono dato alla vita / E la vita è un dono che viene dato a noi”.

 

TEMPO DI PRIMAVERA

 

“Ho alzato lo sguardo alle nubi / Mormorando come fossi in preghiera, / Bagnandomi con gli uccelli e con l’erba / Con i venti e la primavera / Il sole sulle palpebre è caldo / Ah! Che volubile il sole di primavera / Ma è realtà o sto sognando…./ Sono qui o non è come sembra…./ Città di mare, un caffè sulla spiaggia, / Tra i flutti di spighe di grano ondeggianti / Qui, con me stesso da solo / Per come poter vivere interamente la vita / Non ho mai baciato un uccello, sto pensando / E un giorno potrò forse baciarlo / Un giorno sarò forse un colpo di vento / E soffierò tra le spighe di grano / Voglio fondere il cuore in un giorno d’estate / Al canto degli uccelli per rinascere in altro modo”.

 

Lo stupore per le piccole cose di tutti i giorni, il godimento degli attimi sfuggenti e del sapore di un semplice caffè. L’animo bambino ha desiderio di scoprire, di sperimentare per scoprirsi nella fusione col cosmo, con la realtà di un sogno.

 

 La curiosità di baciare un uccello, metafora dell’anima che può prendere il volo per ricongiungersi con altro da se stessa e dare vita alla vita. Tanto da avere la certezza-speranza di poter far divenire il sogno una realtà a nuova vita.

 

Il dono della bellezza per far entrare lo sguardo nella vita e nella scoperta di un dono, quindi sempre un mistero. Il dubbio-certezza che nulla è solo come sembra.

 

Una voce più giovane, fra i poeti da me conosciuti, con i quali condividere momenti di pensiero, riflessione, musica e poesia durante le kermesse organizzate da Alessandro Ramberti a Fonte Avellana: Massimiliano Bardotti. 

 

Nato nel 1976 a Castelfiorentino è curatore per la regione Toscana della “Collana Poetica Itinerante” di Thauma edizioni. E’ vicepresidene dell’Associazione Culturale Assenzio. 

 

Insieme alla poesia incontra la musica e crea il duo “La Minima Parte”, donando momenti di spettacolo e concerto. La poesia è il filo conduttore

 

Dalla sua ultima raccolta”Il Dio che ho incontrato” 2016 – ed Nerbini:

 

Il Dio che ho incontrato è aria sottile / che non so vedere. / La oltrepassiamo, senza mai essere oltre. / Nell’immobile suo manto, tutto si muove. / La foglia, la vedo vibrare.”

 

“Il Dio che ho incontrato è lo spazio / vuoto che attende un mio gesto / o l’assoluto riposo dei sensi. / Il Dio che ho incontrato è riposo di ogni gesto. / Nulla è (mio) / tutto gli appartiene.”

 

“Il Dio che ho incontrato è quell’attimo eterno / chiamato imbrunire, né notte né giorno.”

 

“C’è un tempo per ogni cosa / lo diceva sempre mio nonno / e mi tediava l’idea dell’attesa./ Eppure soltanto nell’attendere / ho trovato coraggio di trovarti. ( aspettavo il sorgere del giorno)”

 

Ci riporta all’essenza della vita, al suo creatore, nostro Padre. Il sapore dell’invisibile, vera essenza della presenza.

 

 La grandezza del non gesto e dell’ascolto di quando all’anima giunge risposta e voce della Parola, finalmente il giorno. 

 

L’attesa grande saggia amica, accogliente l’essenza per svelarla a tempo debito.

 

Il tempo, non tempo, altro grande mistero della vita. Una delle condizioni solo umane da attraversare per non averne più bisogno e spogliarsi di una veste vecchia. 

 

Insieme ad essa anche dell’idea che qualche cosa ci appartenga. L’attimo è ciò che possiamo afferrare per poi andare, fino al coraggio di ritrovare-scoprire l’origine.

 

Una voce profonda, a tratti rauca, sempre piena di stupore e speranza è quella del poeta Gianfranco Lauretano, nato nel 1962, vive e lavora a Cesena.

 

 Ha pubblicato diversi volumi di poesia. Svolge attività di critica letteraria su periodici e quotidiani. Dirige la collana “Poesia contemporanea” ed il trimestrale letterario “clanDestino”; è fondatore e direttore letterario della rivista di arte e letteratura “Graphie”.

 

E’ un grande onore quello dell’amicizia di G. Lauretano da alcuni anni e di avere avuto momenti di condivisione poetica, di confronto letterario..

 

Dalla sua ultima raccolta “Rinascere da vecchi” 2017  – ed Puntoacapo

 

TRAMONTO

 

Fu incredibile. Un evento / una rivoluzione, un’era nuova / arrivava sotto i miei occhi. / Dapprima il sole si abbassò / come una bolla di sapone / sull’ombra delle colline brune / a occidente e diventò enorme / e arancione, diventò un’apparizione / in ignorabile che chiamava / e costringeva ad attestare / sì, ci sei, esisti, esiste qualcosa / che dal cielo guarda e ci rallegra! / Poi se ne andò, Così veloce / da generare una brusca nostalgia / lasciando però un rosso / che prese tutto l’orizzonte / un rosso a filamenti, a falde / che giocava con le nuvole / imbarazzandole, invadendo l’empireo / che copre metà mondo / mentre a est l’azzurro rabbuiava./ Infine tutto precipitò e fui solo / col miracolo da scrivere. / Il cielo ebbe però un’ultima / rappresentazione, un bis / di stupefacenza, divenne / prima che nero, azzurro / proprio così una tenebra azzurra / Giovanni Pascoli ha ragione. / Tutto il mondo vide quella sera / uno spettacolo, anzi due / il sole che tramontava e me / che sorgevo, fisso nell’apparizione.”

 

“Il mattino si fa strada / tra le mura del condominio. / La luce del sole accorcia / i suoi triangoli sull’asfalto / coperta che scivola lenta / sulle auto parcheggiate / e i poveri cespugli di questi / improbabili orti conclusi. / Tu ti affacci in pigiama / alla finestra e la vecchia / con l’innaffiatoio e la faccia / buona ti saluta e sospetti / che sia lì da mille anni / solo per poterti salutare.”

 

Due momenti di un giorno qualsiasi, due fermo-immagine di quanto si dà per scontato, eppure anche essi sono un dono.

 

Lo stupore per l’apparizione del tramonto, creando festa col creato, il quale a propria volta è attore di quanto sta accadendo, i colori che cambiano, in un continuo movimento, fino ad essere soli di fronte a tanta stupefacenza, e divenire a propria volta parte di essa.

 

Il momento del silenzio e della solitudine come pietre fondanti per rinascere dopo essersi nutriti del tempo, del non tempo, delle semplici cose; dopo che l’anima ha accolto e “salutato” l’accaduto. Dono al mondo

 

Così pure nel palcoscenico scoperto in un mattino, con l’annaffiatoio come collante col presente col passato, forse solo immaginato, in un semplice gesto di amore per il creato.

Il volto del mondo che cambia “coprendosi” con l’ombra di un raggio e scoprirsi sempre “corti” rispetto all’immensità della vita.

 

Voci molto diverse fra di loro, intense e profonde. 

 

Chiudo l”’arcobaleno” di voci con alcune delle mie poesie. La prima è una di quelle inserite nell’Enciclopedia di Poesia contemporanea della Fondazione Mario Luzi di Roma:

 

Si sta come foglie flesse / nel caldo vento / o nei gelidi soffi / sii ramo / radice di piccole foglie / di saggezza.

 

L’instabilità di quanto ci è dato, in ogni giorno, la vita stessa. La ricchezza del divenire segno di essa.

 

La seguente  “Alzati e cammina” è tratta dall’ultima raccolta poetica “Soffi di vita – 2016 edito da Risguardi marchio Carta Canta

 

madre divenuta, / abbagliata da braccia menzognere / di colpo trasformate in lamiere / sconcerto, stordimento / hanno ovattato l’udire / in un cuore in tal attimo caduto / di colpo senza fiato / tradimento della vita / tra le mani / alzati e cammina!”

 

Gli scalini della vita: le delusioni,  i dolori, il cuore lacerato, le parole spente: abbi fede e essi si trasformeranno in linfa per nuova vita. Non arrendersi mai.

 

Dalla prima raccolta poetica “Ogni istante” – 2011 – edito dal “Gruppo Albatros” di Roma vi propongo “Acqua”, “Voci silenziose

 

ACQUA

 

Specchio luminoso…/ Morbida e avvolgente / Scorri come il tempo / che accompagna. / Ondeggi e sussulti / come l’anima in continuo / Movimento. / Rallegri / Animi / Rigeneri donando una nuova “vita” / anche dove sembra tutto sia sommerso / dal buio / Acqua….è stupendo lasciarsi baciare / nel cuore per tornare alla purezza azzurra / come il Cielo che in te si specchia!”

 

VOCI SILENZIOSE

 

“Aria frizzante ed amica / Respiro profondo dell’Anima assetata / del nutrimento vitale / Sensazione meravigliosa di Intesa embrionale / Cellule sorelle si ritrovano nel loro vibrare / Momento di profonda Intimità con l’essere  / il fluire interiore riscalda il cuore e la linfa / che abbraccia ogni voce del silenzioso sguardo / Sazi ci si lascia con gli occhi che già sanno del desiderato ritorno . / Ciao Madre Natura.”

 

La natura, parte di noi stessi in una forma diversa, per questo da scoprire ed abbracciare per ritrovare la parte umana, ed in armonia, essere i “rami” dell’”Albero della vita”.

 

Ora vi leggo due poesie, senza titolo, tratte dalla terza raccolta  “L’amàca dell’abbraccio dissetante” di prossima pubblicazione: 

 

la pienezza della tua impronta / nell’acceso ricordo / di parole intimamente sentite / in silenzi eloquenti”

 

“dammi le tue mani / eccole si avvicinano / sono calde / il tuo indice cerca / il mio volto timidamente si accosta / lo sfiora, si abbandona / cerca sale ancora un po’ / sento il giallo / dei raggi di sole su spighe di grano / ancora più in su ecco il bianco / delle ali di un gabbiano in volo / nel blu del cielo / che meraviglia / l’aria entra fra i miei seni / si espande e con essa / la mia gioia / dalle tue mani arcobaleno / il verde spunta come fili d’erba / un’onda spumeggiante mi abbraccia al mare / il cuore guida i polpastrelli fino a palpebre serrate / pesanti tende su di un palcoscenico infeltrito / buio / un dito un volto due cuori in uno / il calore dell’amore lo accende / con esso la luce”.

 

 

Ho iniziato questo mio scritto dicendo come parlare di anima con le parole possa essere toccante, ma al contempo come ciò ne limiti la pienezza. 

 

Se di pienezza di qualcosa d’intangibile si può parlare.  

 

Eppure, l’anima ha parlato con pienezza, se lascio che ora sia il mio cuore ad esprimere il “riempimento” e la gioia infusi alla lettura di tanta profondità sorta da parole semplici, perciò difficili, per esprimere una straordinaria bellezza implicita nel dono della vita.

 

In ogni voce c’è un filo conduttore che dona  con forza il timbro e l’armonia, come ritroviamo nella prima quartina della poesia di P. Lucarini: “L’acqua lucente dal cielo / sulla polvere della terra / accende l’anima del creato / e la festa dei nostri voli……..”.

 

E l’intensità e lo stupore di un’”accensione” dell’anima la ritroviamo anche nella poesia di G. Lauretano “Tramonto”: basta leggere solo la prima terzina ed è inevitabile porsi davanti a tale testo con cuore aperto, lo sguardo allargato, le sopracciglia inarcate, pronte a ricevere lo splendore di una nuova scoperta, quindi una nuova vita nella via: “Fu incredibile. Un evento / una rivoluzione, un’era nuova /arrivava sotto i miei occhi…”

 

In entrambe gli esempi è grande poesia l’uso delle parole per creare immagini, meglio dei fermo-immagini. Nell’ultimo esempio frasi brevi, il flusso poetico reso sospeso con un “.” , seguito dalla dichiarazione dello stupore prima ancora della descrizione di ciò che è realmente accaduto; quello che è importante è la scoperta stessa. 

 

Direi che lo Spirito e la Fede che in entrambi i casi hanno guidato la mano dei poeti ci porta a fare “festa dei nostri voli”, rinascendo a nuova vita per volare in alto verso “casa”.

 

Lo stesso punto in comune lo si ritrova anche nella prima poesia di Ataol Behramoglu: l’unione con la natura, osservarla e soprattutto ascoltarla, per viverla pienamente e fare sì che il tutto diventi esperienza di vita, “…sperimenta intensamente, la fusione coi fiumi, col cielo…” nella reciprocità di un dono, nella triade con chi ce l’ha donato.

 

L’”Autore” del dono è dichiarato a chiare lettere nell’espressione poetica di Massimo Bardotti; Egli lo si incontra nell’attimo eterno in un momento di passaggio, di movimento fra il giorno e la notte; metafora del nostro camminare nella vita.

 

Ogni passo compiuto appartiene alla “notte” per giungere finalmente al “giorno” e arricchirsi di quanto in esso contenuto, compreso i ciottoli e gli scalini, per proseguire nel viaggio fra notti e giorni. L’ultimo giorno sarà la pienezza nello splendore di ciò che ci accoglie e che, come testimoni, abbiamo lasciato nel sentiero percorso in vita.

 

Nelle parole per le quali sono stata strumento, ho ritrovato la medesima essenza: le metafore dell’acqua come fonte di vita e di movimento dell’anima inquieta perché continuamente alla ricerca di ciò che è al di là delle cose. 

 

Ricerca comunque nata e stimolata dalla relazione con la natura, Madre, alla quale ci si deve rivolgere con tenerezza e umiltà di cuore. 

 

Solo così, come citato nella mia poesia “Acqua” si torna all’origine, nel silenzio di momenti unici, fra i fili d’erba, nell’apparente staticità di uno specchio d’acqua a riflesso di quello celeste, sua e dell’umanità.

 

Una relazione che attraversa anche il proprio animo, anzi spesso “fa a pugni” con esso cercando di comprendere i rumori e le parole taciute, soprattutto il perché di ciò che ci circonda o che accade. Anche dei momenti bui.

 

La “poesia della speranza / ora poesia della presenza”.. come espresso da P. Lucarini e lo “..spettacolo, anzi due il sole che tramontava e me / che sorgevo, fisso nell’apparizione” espressione d’anima di G. Lauretano sono due attimi di testimonianza dell’essere umano come strumento del “poiesis” della poesia e al contempo “corpo” di essa, per rappresentare la vita “tale e quale”.

 

Ciascuno, col dono della vita e dei frutti in esso contenuti, è chiamato ad essere “ramo / radice di piccole foglie / di saggezza

 

La relazione non è solo con l’umano, ma anche con quello che è indispensabile per egli affinchè possa avere un senso il momento in cui accadono le cose: il tempo.

 

In ogni voce esso è al presente o al passato, o all’indefinito perché non ha limite il ripetersi della storia dell’uomo nelle diversità racchiusa e trasformata in ogni tempo.

 

L’attesa, il tempo della natura affinché ciò che deve essere, sia.

 

Così si è chiamati ad osservare ed emulare nel nostro tempo, accettando anche quello “invernale” quando il buio pare sia la sola visione possibile. 

 

Momenti di morte o di perdita di affetti, di progetti di vita sfumati che lacerano il corpo, lo tagliuzzano e il sangue continua a scorrere, goccia dopo goccia, pur divenuto  nel tempo incolore e coperto da cicatrici per l’amore non donato o per quello tradito.

 

Ma, esiste un ma.

 

Come ho cercato di “mettere nero su bianco” con la poesia “dammi le tue mani” anche se il corpo non può perché imperfetto, apparentemente cieco, tutto può l’amore e l’apertura del cuore a riceverlo. 

 

Anche le cicatrici scompaiono.

 

La vera cecità sta nel credere che il senso della vita sia nell’esterno delle cose, della bellezza di una corpo perfetto  o nelle belle parole.

 

Si esiste nella pienezza “della impronta di un acceso ricordo di parole intimamente sentite / in silenzi eloquenti”.

 

Non esiste né tempo, né spazio nei quali possa esserci la morte per tale impronta.

 

A ben riflettere, anche la voce di Dio non la si ode nel frastuono, ma “nell’aria sottile / che non so vedere” come scritto da M. Bardotti, e a mio sentire, nei silenzi eloquenti, anche in quelli fra due persone che si amano.

 

In momento di morte di una persona cara, non ci sono parole, i silenzi dicono anche quanto è rimasto da sempre chiuso nel cuore e la sua anima lo porterà con sé, specie se madre.

 

Il filo sottile di tale amore oltrepassa ogni umana comprensione, bisogna solo viverlo, così come deve essere per la Sua Parola.

 

Non è mia intenzione scrivere un poema o pseudo critica letteraria; più esprimo pensieri e parole, più ho consapevolezza di quanto altro si potrebbe aggiungere.

 

Concludo con una mia poesia tratta da “Soffi di vita” intitolata “Chi sei tu?”

 

Il silenzio dopo il punto completerà le parole.

 

CHI SEI TU?

 

 

“chi sei tu voce / giunta all’improvviso / eppure a me appartenente / sei altra da me, ma i miei occhi / da te traggono forza per / rappresentare l’essenza delle cose / tensione e curiosità del vero / intonano una canzone / se tale si sente / insieme fanno a gara per giungere prima / alla risposta / più prossima / poi la voce assetata ed a “pancia semi piena” / urla con forza intensa vitale / “cerca ancora, ancora” / ecco, un po’ indefinita nel suo divenire, la vita appare / dicendo / “Chi sei tu?”.

 

 

Forlì, gennaio 2020



PREGHIERA …….E NOI

 

Il mio mettere nero su bianco non vuole essere né un trattato di Teologia, tantomeno “istruzioni per l’uso” su di un argomento così ampio, ricco di aspetti poliedrici sconfinanti in altre manifestazioni di comportamento ed esigenza umana, quindi complesso, come quello della preghiera. 

 

Atto semplice e paradossalmente complesso, in quanto l’invocare un nome Alto è uno dei gesti istintivi effettuato, oso dire, da ciascun essere umano, all’interno del proprio credo più volte nell’arco dell’esistenza.

 

Inoltre, da quel che ho inteso, lo scopo di  ritrovarci in questo contesto religioso, con un diverso background culturale ed umano, sia quello di un arricchimento reciproco, donandosi nel  proprio molto o poco che sia.

 

Il vero fluire delle cose, preghiera compresa, sarà il suo plus valore.

 

Meglio fermarsi un momento. A mio avviso non si può parlare di preghiera senza accennare al concetto di fede, anche quando ci si rivolge a persone non riconoscenti in loro tale dono oppure la consapevolezza del suo utilizzo è limitata.

 

Fede, intesa come fiducia, affidarsi a qualcun altro di non umano, abbandono del proprio istintivo bisogno di essere artefici di se stessi, accettare umilmente la condizione di esseri incompleti e ritornare ad essere polvere. 

 

Ciò che si potrebbe ancora dire sulla fede sarà presente parlando di un suo strumento, la preghiera.

 

Che cos’è la preghiera? 

 

Domanda molto profonda, ad ampio raggio; se si pensa ad una metafora si può immaginarla come il sole dal quale si dipanano i raggi per illuminare il mondo, luna compresa, quindi anche quando la fonte si cela ai nostri occhi.

 

In modo sottile e concettuale, semplicemente, si può parlare di preghiera come di un intenso pensiero colmo di speranza, fiducia, certezza di comprensione; un pensiero che pare renda l’attimo del suo divenire atemporale mentre ferma il fluire delle cose, l’immagine del mondo intorno e la percezione del sé. Un pensiero  dal cuore nascente e rivolto ad altro da noi.

 

Accolgo la palese provocazione effettuata da Ramberti, mi corregga se non è così, nei punti interrogativi presenti nelle varie sollecitazioni per la riflessione sulla preghiera.

 

In effetti possono essere tante le ragioni per le quali ci si ritrova, nei momenti e contesti più disparati, ad avere nel cuore il pensiero di cui ho parlato poc’anzi; ma prima di iniziare a vederne alcuni vorrei soffermarmi su uno dei suddetti punti interrogativi.

 

Ho accennato alla preghiera come momento di stand-by temporale, tuttavia penso non si possa parlare di “vuoto”, come accennato fra le domande introduttive della Kermesse.

 

A mio parere il vuoto è un concetto utilizzato per categorizzare qualche cosa di cui non ne comprendiamo il senso o non riusciamo a raggiungerlo per la sua distanza dallo schema della propria forma mentis, in realtà esso non esiste. 

 

Si può parlare di una diversa forma di pienezza da scoprire, o della quale essere consapevoli quando ci si ritrova a “navigarvi” senza remi. 

 

Agli occhi occorre vedere qualcosa per scoprirne l’oltre quando questo si cela.

 

Tale concetto associato alla preghiera, ne diviene un elemento costitutivo; per meglio dire tramite la potenza della parola e della spiritualità in essa intrisa ed infusa la persona abbandona una parte di sé abitualmente utilizzata nella relazione propria e con gli altri.

 

E’ un aspetto cognitivo che perde il primo piano relazionale, lascia emergere un altro livello appartenente all’”uno” della persona stessa; di qui la percezione del senso di “vuoto” intorno più che interiore. Mi riferisco alla sfera spirituale che prende voce e dona brace alle parole invocate, le guida, dona loro corpo.

 

Cerco di rendere visivamente più tangibile quanto ho espresso introducendo parole poetiche; anche la poesia è una forma di preghiera, dato che il senso del suo essere è quello di mettere a fuoco la realtà delle cose, tutto è dono, compreso ciò che non si vede (il vuoto?).  

 

Oso dire: ciò che vediamo è solo la punta di un iceberg; la poesia fa entrare negli abissi del mare della vita, nelle radici dell’iceberg per goderne a pieno, rigenerarla e rinascere con e per essa.

 

Inizio con una poesia tratta dalla mia prima raccolta “Ogni istante” edita nel 2011 dal Gruppo Albatros dal titolo PREGHIERA

 

“Ciò che si è../ Difficile misura / Eterna ricerca/ Ogni flusso è una risposta / per Chi lascia che i propri occhi / si rispecchino nel movimento del Vento/ che avvolge ogni essere / Forza necessaria per questo coraggio / è racchiusa nella semplicità che è sussurrata / a Chi è immensamente presente….Amen!/ Bisogna solo ascoltare….solo così c’è risposta.”

 

Preghiera, perché si prega? 

 

Di primo impatto la risposta non può essere altra da quella di ammettere di non bastare a sé stessi.

 

Ci si rivolge a  quel “Altro da noi” e dagli uomini di cui ho accennato, fonte dalla quale la nostra interiorità, intesa come fiamma spirituale che si ravviva nei momenti di sconforto e di gioia, “bussa di più alla porta dell’anima” e con gli occhi del cuore guarda oltre all’apparente “nulla” e “inesistente”, ad un “Lui” per invocare la sua intercessione nell’illuminazione su come giungere a compimento e ad una soluzione in situazioni particolarmente difficili e più grandi delle proprie forze. 

 

Nell’invocazione di una preghiera di aiuto, se da un lato si ha la certezza di essere ascoltati nel proprio essere polvere, dall’altro qualcosa di materiale e di terreno ci ricorda di appartenere ancora a questo mondo, piacente o meno; è la percezione del bisogno di vedere  il Dio invocato accoratamente o del “disagio” di non riuscirci con le pupille (siamo discendenti di Tommaso?).

 

A tal proposito vi leggo la poesia  “Uno sconosciuto è il mio amico”  di Par Lagerkvist, Premio Nobel nel 1951, romanziere e drammaturgo autore del romanzo “Barabba” tratto dal libro di Davide Rondoni “Mettere a fuoco Dio” pillole BUR 2007:

 

“Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco./Uno sconosciuto lontano lontano./ Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia./ Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?/ Che colmi tutta la terra della tua assenza?”

 

A mio parere tale testo, direi preghiera d’invocazione, è esplicativo dell’ambiguità presente nell’uomo fra certezza ed incertezza della presenza di Dio; anzi tale apparente stato antagonista, è presente proprio mentre c’è la pienezza nel cuore della nostalgia di qualcuno d’importante a tal punto da riempirlo; di pienezza dell’assenza, assenza  come massima espressione d’amore. Un amore, altro dal materiale, seminato da Dio nell’uomo col dono della Vita, nel libero arbitrio. Negli altri uomini è a Sua immagine.

 

Nella relatività del lungo o breve periodo di vita terrena lo stato di sentirsi vicino o lontano da Dio è una continua altalena, a risposta di un bisogno costante di certezza dell’essere “Uno” insieme, di non essere abbandonati anche dall’unica fonte rimasta, dopo aver vissuto tale condizione nella relazione umana.  

 

La preghiera è il filo che continua tale trama per tessere la vita alla vita.

 

Ecco un’altra poesia che, esprimente l’”altalena” accennata, scritta dal poeta fiorentino Mario Luzi, nella sezione “Inseguimenti” della raccolta “Per il battesimo dei nostri frammenti:

 

“Sei tanto lontano / da non poterti raggiungere / o senza avvedermene / ti ho oltrepassato…/ uscito dalla parabola / tu o io dall’inseguimento? / o l’uno e l’altro al sommo / della sua inesistenza, / l’uno e l’altro al punto / più alto / di unità / e di non differenza / equiparati / in tutto / da reciproco annullamento, / in tutto, in tutto, compiutissimamente?”

 

In tale testo è messo in risalto anche la  fusione del divino e dell’umano, per poter essere Suoi testimoni nel mondo e col mondo, parte del tutto. 

 

Compiutissimamente” termine rappresentante la pienezza di quando tutto è stato secondo disegno e della sua necessità perché ogni uomo possa essere liberato dalla condizione umana nella resurrezione e libero nell’amore assoluto.

 

Altre considerazioni, presenti, le lascio al lettore.

 

Pur nella libertà nelle diverse credenze religiose, da cristiana cattolica, non posso non accennare a quanto ci dicono le Scritture a proposito di esempi pratici di preghiera.

 

Anche Gesù pregava ogni volta che gli apostoli dovevano affrontare difficoltà o Egli stesso sapeva di dover vivere umanamente il travaglio del dolore, del tradimento, dell’abbandono o affrontare il maligno.

 

Dai Vangeli si viene a conoscenza della validità di tale invocazione in qualsiasi momento essa venga fatta di giorno o di notte; ciò sottolinea l’importanza della preghiera come base, piedistallo sul quale ergere ogni nostro giorno o ogni nostra notte perché il nuovo giorno sia ricco della pienezza del dono della vita.

 

Per fare un esempio nel Vangelo di Luca (11, 9-13) la voce di Gesù riporta: “Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”

 

Desidero sottolineare le parole “Padre celeste darà lo Spirito Santo”: Spirito Santo come forza, Amore assoluto generato dall’unione del Padre col Figlio, che anima l’anima umana diversamente sterile ed impotente, per inondare il corpo e far si che l’uomo agisca tramite di esso e del cuore nel mondo. 

 

Nelle parole e negli spazi “vuoti” dell’esempio appena accennato è messa in risalto la fiducia, condizione necessaria per l’equilibrio e la sussistenza di qualsiasi tipo di rapporto, non solo “celeste”.

 

Nel Vangelo di Giovanni  (16, 1-24) viene riportato il momento nel quale  Gesù annunzia di nuovo l’invio dello Spirito Santo che guiderà gli uomini alla verità totale, ne esorta la preghiera d’invocazione. 

 

Al punto 21 vengono riportate le seguenti parole di Gesù: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo……….In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. (24) Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena”.

 

E’ un passo del Vangelo molto intenso, nel quale Gesù mette in evidenza la condizione umana nel proprio limite terreno, inevitabile è la sofferenza, il travaglio prima di giungere alla gioia della riuscita e del dono; proprio perché “dono” può giungere nelle mani umani solo da quelle contenenti la risposta alla vita di ciascuno.

 

L’atto del chiedere comporta il riconoscere di essere figlio, oltre che di padre terreno, anche del “Padre celeste” come si evince nelle parole evangeliche; inoltre implica la grandezza dell’umiltà nel riconoscimento del proprio limite e del proprio perdersi nei meandri della quotidianità, nel dubbio verso l’incognita del futuro, della labilità dei progetti umani quasi sempre sottoposti a più “revisioni celestiali”. Infine sottolinea la profondità della semplicità come modalità del chiedere, con parole umane.

 

Come nella poesia, anche nella preghiera l’umiltà è sul piedistallo.

 

Sempre col pensiero nelle Scritture, desidero spostare il focus di lettura sulla figura di Maria, in riferimento alla forma di preghiera da lei espressa, nel suo ascoltare la voce interiore che Le ha parlato nella propria quotidianità, nel suo saper stare in silenzio, anche quando il cuore materno grida di disperazione ai piedi della Croce.

 

 

Non a caso per la rilevazione della volontà di Dio è stata scelta una figura così semplice, al contempo forte nella propria fede e spiritualità, con le quali ha saputo affrontare ogni difficoltà della vita quotidiana, di madre di un bambino non sempre pacifico, dei pregiudizi e regole religiose di tale tempo storico; certamente si tratta di travagli da situazioni non meno ingarbugliate e pericolose di quelle di oggi.

 

Sorge in me la riflessione che in tale scelta ci sia un messaggio, una sorta di “specchio” nel quale riflettere la propria modalità di vita, raffrontarsi per riconoscere la propria preghiera da rivolgere ad altro da noi. 

 

Non a caso dopo la crocifissione Gesù affida Maria a Giovanni, dicendo “Questa è tua madre”; come a voler dire che da Lei l’umanità deve saper cogliere l’essenza per collegarla alla propria. 

 

La preghiera era in Maria.

 

Simbolicamente Lei  è stata consegnata come madre altra da quella terrena, a noi umani in quanto figli del medesimo Padre, al quale nella crocifissione Gesù si è ricongiunto spogliato del corpo materiale.

 

Questo anche se chi guarda a Maria non è una donna. 

 

A tal proposito, sempre dalla mia prima raccolta poetica “Ogni istante” vi leggo la poesia “Madre nostra” scritta dopo la visione del film “Passione” di Mal Gibson

 

“Un abito lungo col viso abbracciato / da vesti calde e serene / occhi profondi che vedono lontano / dolci che dicono “ti amo” / al mondo … quello che le genti / non immaginano. / Un sorriso scherzoso Lo avvolge / e accarezza i Suoi lunghi capelli. / Labbra carnose, umane ma che sanno / tacere e “conservare” il mistero dell’Amore / Vero / Forti, tremanti, griderebbero la gioia di essere Madre / ed il dolore nel trattenere la voce del Cuore che scoppia / Mani forti, sensibili, che sanno prendere per farsi ascoltare, / che sanno abbracciare per farsi sentire, che sanno accarezzare la Sua sofferenza, che si fanno umane con un pugno di / sassi…../ ma la forza infinita le ritrasforma in un calore che solo chi sa / il perché della morte nella quale rimane unita alla vita / può mostrare alle altre madri. / Un cuore che La guida al Suo / anche quando le pietre Lo nascondono / e La difende dall’altro, perfido, strisciante, / che attende un minimo tremore. / Attende stretta nelle proprie vesti, confortando gli occhi / altrui…/ ed il cuore grida…a presto!”

 

Come il camminare, il sorridere di fronte alle prime lallazioni di un bambino, la gioia nel volto di un nonno accarezzato dalle mani del sangue di future generazioni sono interiorizzati nel cuore e da esso sortisce serena felicità, così la preghiera dovrebbe divenire nel quotidiano vivere.

 

La preghiera, un’apparente ripetizione a vuoto di medesime parole, nemmeno troppo complesse, in realtà racchiude una grande potenza. 

 

Mi riferisco alla preghiera solitaria, detta dal cuore con le parole in esso germogliate, come quando si parla ad un amico, senza troppo preoccuparsi di dover utilizzare parole altisonanti; meglio concentrarsi sulla sincera spinta spirituale, “inchiostro” per fissare il pensiero. Da tale preghiera, resa parte di sé,  spunta il primo sprone, quando situazioni inaspettate ti distruggono la vita.

 

In relazione a tale concetto, vi leggo la  poesia “Alzati e cammina” tratta dalla mia ultima raccolta “Soffi di vita” edita nel 2016 da “Risguardi” marchio “Carta Canta”:

 

madre divenuta, / abbagliata da braccia menzognere / di colpo trasformate in lamiere/ sconcerto, stordimento / hanno ovattato l’udire / in un cuore in tal attimo caduto / di colpo senza fiato / tradimento della vita / tra le mani / alzati e cammina!

 

Quanto sopra è l’espressione anche di un altro aspetto del nostro crederci autosufficienti, per meglio dire: il bastare a noi stessi e manipolatori del tempo, come i burattinai con i fili delle loro marionette.

 

In realtà in qualsiasi cultura, civiltà o momento storico sono presenti esempi d’improvvisa caduta di progetti di vita già in attuazione o solo desiderati; molto spesso sono le circostanze valutate banali quelle colpevoli di tali disastri. Si sfiora lo scetticismo nei riguardi dell’importanza di qualsiasi azione umana, del valore stesso della vita, dato che non “è stata capace di continuare ad essere tale”, dopo l’evento nefasto.

 

E’ proprio lì, in tali brevi ed eterni momenti, che la vita prende maggior corpo, riappropriandosi di un valore inestimabile; per comprendere tale paradossale concetto occorre far salire nei bottoni sinaptici altro di non acido, di non testabile: l’amore tramite la preghiera.

 

Nella poesia di Eugenio Montale “Prima del viaggio”, sempre tratto dal testo di D. Rondoni “Mettere a fuoco Dio” pillole BUR, è “leggibile” la forte presenza dello spirito dietro la pur reale condizione di scetticismo e di tentativo di organizzare ogni cosa.

 

Inoltre, in tale testo è percepibile come noi umani siamo i tratti esplicativi e costitutivi del libro della vita intitolato “Disegno” dove tutto è già scritto.

 

E’ un testo che ricorda un aspetto del quotidiano coinvolgente la vita di ciascun lettore:

 

“Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le prenotazioni / e le prenotazioni (di camere con bagno / o doccia, a un letto o due o addirittura un flat); / si consultano / le guide Hachette e quelle dei musei, / si scambiano valute, si dividono / franchi da escusos, rubli da coperchi; / prima del viaggio s’informa / qualche amico o parente, si controllano / valige e passaporti, si completa / il corredo, si acquista un supplemento / di lamette da barba, eventualmente / si dà un’occhiata al testamento, pura / scaramanzia perché i disastri aerei / in percentuale sono nulla; / prima / del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che / il saggio non si muova e che il piacere / di ritornare costi uno sproposito. / E poi si parte e tutto è OK e tutto / è per il meglio e inutile. /…………………/ E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo.”

Per chi ha fede, ogni difficoltà, delusione, tradimento giunto nel proprio cammino di vita è un’opportunità per rinforzarne il valore, rimettersi in piedi pur stanchi e nudi per continuare la propria strada, e con essa, il senso del nostro esserci.

 

Gli accadimenti non sono mai situazioni, condizioni utili  solo a se stessi o alle persone di famiglia; piuttosto si tratta di una testimonianza per gli altri, nel buono o nel cattivo esempio.

 

Così è anche il pregare per strada, negli autobus o nel treno, mentre quasi come un dondolo, culla il  viaggiare nel “fare” e nel “dire” l’apparentemente importante ed insindacabile da comunicare con i-pod o tablet, illudendo di essere in contatto con qualcuno.

 

La preghiera è rimanere sempre con qualcuno che è in te e fuori da te, non sei solo.

Questo è un altro dei motivi per cui vale la pena pregare.

 

Nella vita di ciascuno sono tante le situazioni in cui è fondamentale l’aiuto dall’Alto, e di solito: prima ci barcamena per trovare soluzioni, si consultano esperti, ci si affida a mani umane che sbucano da camici verdi di medici abituati a manovrare su corpi altri.

 

In tali situazioni, quando arriva la sera e si chiudono le tapparelle, le parole interiori rombano. E’ in tali infiniti attimi che la preghiera diviene balsamo, una mano che si ricongiunge con la Sua per non perdersi nel travaglio, nella certezza di giungere a nuova vita.

 

A testimonianza di tale situazione vi leggo un’altra mia poesia intitolata “Serena disperazione”, inserita nella plaquette “Il dolore è uno specchio sfondato” relativa al progetto “Le parole necessarie” organizzato dal Centro di Poesia di Bologna e l’Ospedale S. Orsola nel 2015:

 

“Tu solo non mi lasci / mi conosci / so che ci Sei / la voce impietrita / grida / nella disperazione / su di un letto distesi / la paura il dolore / svaniscono dal cuore

 

L’interiorità di tale poesia è preghiera d’invocazione nella certezza dell’ascolto, avvenuto.

 

Nel nostro essere in questo mondo fra le cose assurde, paradossali ed incomprensibili la rabbia fa da padrona; ci si accanisce contro qualcuno o qualcosa d’incapace, d’inetto o d’incompetente, per cui le situazioni sono andate in malora. 

 

Ci si arrabbia anche con Dio, magari proprio dopo aver detto di non credere in una presenza non umana!

 

Sfumata la rabbia, lo sgomento e il peso al petto restanti ci fanno percepire il bisogno di riconciliarsi proprio con chi si è imprecato prima. La misera umana non ha limiti.

Ci si vuole riconciliare con chi si sa, anche senza comprenderne l’essenza, ci perdona se domandiamo nel giusto modo. 

 

A tal riguardo, vi leggo uno scritto di Edgar Lee Masters, scrittore e poeta popolare per la sua Antologia di Spoon River edita nel 1915, dal titolo “John Ballard”, sempre tratto dal testo “Mettere a fuoco Dio” di D. Rondoni:

 

“Nel rigoglio della mia forza / bestemmiai Dio, ma non mi badò: / come avessi bestemmiato le stelle./ Nella mia ultima malattia agonizzavo, ma fui temerario / e bestemmiai Dio per la mia sofferenza; / e Lui ancora non mi badò; / mi lasciò fare, come sempre. / Come avessi bestemmiato il campanile dei presbiteriani. / Poi, mentre le forze mi mancavano, m’assalì il terrore: / forse m’ero alienato Dio con le mie bestemmie. / Un giorno Lydia Humphrey mi portò un bouquet / e mi venne l’idea di fare amicizia con Dio, / così cercai di fare amicizia con Lui: / ma fu come se avessi cercato di fare amicizia col / bouquet. / Ora ero molto vicino al segreto, / perché potevo davvero fare amicizia col bouquet / stringendo a me l’amore che sentivo per il bouquet, / e così mi stavo impossessando a poco a poco del / segreto, ma.”

 

In tale testo c’è il richiamo al bisogno del  perdono, massima forma di libertà d’amore e di preghiera.

 

Il perdono è una preghiera che si rivolge, chiedendola nei modi più disparati, a chi ci ama per essere di nuovo riabbracciati dal suo cuore, sapere di essere ancora persone valide per qualcuno, debellare i sensi di colpa,  sentire di esistere di nuovo.

 

Inoltre esso è la preghiera (anche di questa  non sempre si conoscono le giuste parole), invocata da chi il perdono deve donarlo.

 

Umanamente parlando, siamo stati messi nella condizione di essere perdonati per primi tramite il sacramento del Battesimo.

Durante tale rito siamo chiamati ad essere “Profeti” per divulgare la Parola di Dio e “Sacerdoti” per pregare, specie per chi non ci ama come indicato nei Vangeli.

 

Altra grande ragione per pregare, in quanto parte dell’umanità.

 

Perdonati dal peccato insito nella condizione umana; altrettanto umana è la “cicatrice” del ricordo che rimane pur dopo aver  perdonato qualcuno. Il ricordo non svanisce.

Il perdono invocato con preghiere ci libera dalla catena del peccato; Lui, con la sua Misericordia, perdona e non ricorda.

 

A visione di quanto esposto poc’anzi, vi leggo uno stralcio dal testo “Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via” scritto da Franz Kafka contenuto nel testo succitato di D. Rondoni

 

Un primo indizio di incipiente conoscenza è il desiderio di morire. Questa vita appare insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire; si prega di venire portati dalla vecchia, odiata cella, a una nuova che dobbiamo ancora imparare ad odiare. Resta un granello di fede che, durante il trasporto, il Signore passi, per caso, nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: “Costui non rinchiudetelo. Egli viene con me.”

 

Oppure si prega per ringraziare della soluzione a problemi, guarigioni da malattie o per aver ottenuto quanto richiesto; purtroppo questo tipo di preghiera non è sempre naturale e spontanea fra quelle normalmente svolte, dimenticandoci spesso che nulla ci è dovuto.

 

Credo che tale difficoltà nasca dalla debolezza dell’uomo di percepirsi comunque fautore del proprio fiato, mentre anche questo ci può essere tolto in qualsiasi momento.

 

Non posso non accennare alla preghiera, senza portare il mio spirito ai Salmi, preghiera assoluta. Accenno ad essi come ad  un’antologia di 150 cantici di varia estensione costituenti una sintesi dell’Antico Testamento in chiave di poesia e di preghiera. 

La sua etimologia greca ci ricorda l’origine della lettura di tali preghiere in forma di canto accompagnate da strumenti a corda. 

 

A proposito di ringraziamento lo faccio con l’umiltà di condividere la gioia nascente dalla lettura del salmo n. 29 “Ringraziamento – Salmo di Davide per la festa della dedicazione del tempio”.

 

In esso sono racchiusi i concetti in precedenza dettagliati, le domande umane e le risposte altrettanto umane, ma anche quelle divine nelle parole celate; si potrebbe dire si tratti di un “riepilogo” delle voci lette poc’anzi. 

 

Nulla è a caso, se ci lasciamo immergere nella preghiera, troviamo domanda e risposta.

 

“Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato / e su di me non hai lasciato esultare i nemici./ Signore Dio mio, / a te ho gridato e mi hai guarito. / Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, / mi hai dato vita perché non scendessi nella / tomba. / Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, / rendete grazie al suo santo nome, / perché la sua collera dura un istante, / la sua bontà per tutta la vita. / Alla sera sopraggiunge il pianto / e al mattino, ecco la gioia. / Nella mia prosperità ho detto: “Nulla mi farà vacillare!” / Nella tua bontà, o Signore, / mi hai posto su un monte sicuro; / ma quando hai nascosto il tuo volto, / io sono stato turbato. / “A te grido, Signore, / chiedo aiuto al mio Dio. / Quale vantaggio dalla mia morte, / dalla mia discesa nella tomba? / Ti potrà forse lodare la polvere / e proclamare la tua fedeltà? / Ascolta, Signore, abbi misericordia, / Signore, vieni in mio aiuto. / Hai mutato il mio lamento in danza, / la mia veste di sacco in abito di gioia, / perché io possa cantare senza posa. / Signore, mio Dio, ti loderò per sempre.”

 

Stupenda preghiera d’invocazione, di confessione di momenti di buio del credente, di certezza del suo perdono, della condizione umana di essere polvere, del realizzarsi della vita tramite la Sua volontà, senza che ci manchi nulla; eccezionale testimonianza.

 

Sul ringraziamento vi leggo la poesia “Dono” tratta dalla mia prima silloge poetica “Ogni istante”:

 

“Strade parallele si incontrano / si guardano ed a volte si riconoscono / fonte di uno stesso essere. / Pensare di bloccare la strada per lasciare / posto all’altra attraversa la mente quando / non ascolta la voce dell’anima / i Doni spesso non si presentano come / si conoscono ma si vivono e solo allora / li senti doni / questo dà gioia all’anima che felice di essere / riconosciuta nel dono dona sé all’uno e a chi / è con esso. / La pienezza dello sguardo di chi ha avuto non  / conscio di come e quando dice che la strada / è solo una…segnata dallo stesso Amore / la mente allora ride di se stessa ed arrossendo / si “nasconde” / lascia che i passi scorrano la strada..,.”

 

Fino ad ora si è parlato di parole, di parola, di voce.

 

Ritengo opportuno soffermarsi sulla parola del silenzio: essa altrettanto tonante, potente, è vettore della voce interiore verbalizzata o silente. 

 

Oso dire che il silenzio è la voce più altisonante che ci faccia entrare in eco con quella di Dio; se si tace, ecco che entra solo la Sua voce e noi diveniamo, così,  le sue orecchie, le sue braccia, le sue labbra.

 

Tacere sembra una cosa facile da realizzare, purtroppo non è così. C’è sempre la voce interiore dei nostri pensieri, tormenti d’animo, ed altro che continuano a “chiacchierare” anche quando, con la testa sul cuscino, si cerca ad occhi chiusi il pulsante per spegnere la luce.

 

Il poeta milanese Franco Loi nel suo testo “Il silenzio” edito da Mimesis Accademia del Silenzio riporta: “..Se ripenso alla mia vita, faccio silenzio, ed ecco che in me ci sono uomini diversi e vite diverse. Mi sembrano così separate e lontane le une dalle altre, eppure così concatenate. La distanza è una delle realtà sorprendenti del silenzio a cui si ripresenta la memoria: è sempre così poco usuale e tuttavia così sostanziosa. Proprio come accade nel sogno.”

 

A testimonianza di quanto accennato sulla potenza del silenzio, nelle parole di F. Loi si può afferrare il senso della rinascita, più volte nella vita, se fermandoci diamo lo spazio al nostro essere altro che carne, per cogliere le vite che ci “attraversano” ogni giorno, nei diversi ruoli nei quali siamo proiettati, come raggi di luce o armi di distruzione.

 

Non a caso nei luoghi nei quali la preghiera aleggia nei muri, nei sassi divenuti sacri, senza udire parole, la pace s’insinua fra i capelli, nelle ossa e li rende vivi.

 

Se si riesce ad uscire dal proprio essere al centro del mondo, le voci silenti sbiadiscono, un poco alla volta diventano afone e parlano a vuoto. 

 

Nell’altro s’impara a vedere il volto che gli ha dato fiato, anche quando le labbra parlano una lingua diversa dalla nostra; anche quando le membra sono storpiate e maleodoranti.

 

A questo punto penso sia importante rivolgere lo sguardo ad un altro modo di pregare, non solo come pensiero, ma col nostro fare quotidiano, il lavoro dentro e fuori da casa, l’incontro di un passante per strada, l’accudire qualcuno.

 

Già comunemente i mass media o durante incontri con altre persone si descrivono gli impegni quotidiani come gesti, azioni per i quali ci deve essere un tornaconto, e nei quali tutte le nostre energie mentali e fisiche devono fare capolino.

 

Credo che se fosse così, a tutti “passerebbe la poesia” di consumare il proprio tempo in attività piuttosto scarne nel contenuto dal punto di vista d’interiorità dell’agire e spirituale.

 

Non sempre un lavoro importante ai fini di soddisfazione personale o di risonanza sociale, corrisponde un concreto valore umano; anzi molto spesso è nell’espressione di lavori umili che si rimane tali anche nell’anima e nel pensiero; così facendo ciò che si arricchisce è la vita stessa, innanzitutto di chi si ha aiutato, sostenuto, o semplicemente  (per modo di dire) ascoltato.

 

Penso sia doveroso iniziare questa mia riflessione con un cenno al Vangelo di Matteo (25, 40-45) con la parabola “Il Regno è per coloro che praticano l’amore servendo” :

 

“…Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fato a me.

 

Pur senza contestualizzare più di tanto, da tale parabola si può comprendere un’immensa forma di preghiera e di amore presente nel donare e prendersi cura dell’altro.

 

Preghiera intesa anche come evangelizzazione e testimonianza, mettendo in pratica quanto accennato prima in merito a quanto ricevuto col Sacramento del Battesimo.

 

E’ nelle opere la preghiera più forte, perché essa non sia solo parole, con la misericordia come collante delle azioni stesse.

 

Sentirsi strumenti di una mano più grande, è permettere che la forza della preghiera penetri l’involucro che ci definisce uomo o donna, senza preoccuparsi troppo di riuscire o meno ad aiutare veramente qualcuno, o se si possono commettere sbagli. 

 

Tali rischi sono nella condizione umana, certo donarsi con attenzione ai reali bisogni, con tutto il proprio cuore; il Signore ci conosce fino in fondo, sa che cosa in esso è contenuto, e sa come guidarci, se solo lo facciamo entrare e soprattutto, tramite la preghiera sappiamo ascoltarlo.

 

Quanto appena accennato è un’altra grande, importante, ragione per cui si prega; rimanere legati alla Fonte per il nostro cammino accanto ai fratelli in lui.

 

Donare all’altro è anche preparare il pranzo o la cena per i propri cari: è una forma di nutrimento d’amore mentre si serve il pane o la pasta. 

 

Nell’affanno e superficialità del quotidiano non si guarda a tale  semplice gesto con tale sguardo; anzi, molto spesso viene vissuto come un impegno “impegnativo” che toglie spazio ad altro di più interessante.

 

Quel pane, quella pasta bella fumante sono forme di preghiera.

 

Ancora una volta i bambini sono grandi insegnanti in questo: non a caso si sentono dire “Com’è buono il panino della nonna! Lo ha preparato apposta per me!”.

 

In una frase semplice come questa c’è un immenso tesoro: l’affetto profondo, il piccolo gesto, il tempo dedicato per esso, la gioia nel farlo e nel riceverlo, l’amore racchiuso nel tutto fino all’ultimo morso! 

 

E non per ultimo un ottimo esempio da seguire, sia affettivo, sia di evangelizzazione.

 

Per rimanere in ciò che apparentemente è piccolo e semplice, si può pensare al gesto di un sorriso donato a qualcuno conosciuto o meno.

 

Esistono diverse forme di volontariato dove è possibile dedicare qualche ora del proprio tempo, e se stessi, nell’accudire ammalati, bisognosi o soli.

 

In parte vivo questo tipo di esperienza nel contesto ospedaliero, con il naso rosso addosso; vedo situazioni familiari e non solo del paziente ricoverato veramente drammatiche, dove le parole non hanno senso, l’impotenza satura la stanza, il dolore, la paura prendono il sopravvento sulla speranza.

 

Oltre alla recita del Rosario, non sempre possibile in tali contesti, non c’è preghiera migliore per rinfrancare l’anima, donare speranza e far tornare la luce ed illuminare il progetto di vita,  di un sorriso donato col cuore; una sorta di “flebo d’amore”, non a caso è anche il titolo di un mio inedito

 

La stessa potenza la si trova nel sorriso donato in un villaggio di gente non abbiente, ghettizzata per cultura, per ragioni politiche, disumanizzata per potere ideologico.

 

A testimonianza di tale mio dire, prima di parlare di altri esempi, voglio portare il pensiero su quanto svolto da Madre Teresa di Calcutta; lo faccio leggendovi uno stralcio dal libro “La gioia di darsi agli altri” edito da Edipress 1988:

 

“Padre nostro…./ Dovete fare ogni sforzo per camminare alla presenza di Dio, per vedere Dio in tutte le persone con le quali vi incontrate, per vivere lungo tutta la giornata la vostra meditazione del mattino. / Nei vostri giri, diffondete attorno a voi la gioia di appartenere a Dio, di vivere con Dio, di essere Sue. / Per questo, nelle strade, nei sobborghi e durante il lavoro, pregate sempre con tutto il cuore e con tutta l’anima. / Mantenete il silenzio che Gesù mantenne durante 30 anni di vita a Nazaret, e che continua ancora a mantenere nel tabernacolo, intercedendo per noi. / Pregate come fece Maria, perché lei custodì tutto nella sua anima, attraverso la preghiera e la meditazione, e continua a custodirlo in quanto mediatrice di tutte le grazie. / L’insegnamento di Cristo è tanto semplice che lo può balbettare persino un bambino in tenera età. / Gli apostoli chiesero: – Insegnaci a pregare…./ Gesù rispose: Quando vi mettete a pregare, dite: “”Padre nostro…..”.

 

Un’altra forma di preghiera alta è quella trovata ed “effettuata” nel contesto della Casa Circondariale di Forlì; lo stesso concetto potrebbe essere traslato in qualsiasi altro luogo di reclusione.

 

Si  tratta di un’altra mia esperienza vissuta col naso rosso: insieme a poche altre persone si è cercato di rendere meno doloroso il momento d’incontro e di momentanea ricongiunzione dei carcerati con i familiari, i figli o le madri:  col gioco, la creazione di piccoli oggetti o disegni da parte dei figli da donare ai loro padri o madri ritornati ad essere “abbracciabili”; col coinvolgimento di altri carcerati e parenti in un “girotondo di canto e ballo-gioco”, mentre le guardie alle porte con le pistole ben in vista fanno fatica a trattenere un sorriso giunto in un viso apparentemente indurito dalla divisa.

 

Col sorriso nel cuore e negli occhi, un palloncino nelle mani, ho pregato dentro di me che le parole rivolte alla moglie di un detenuto le siano d’aiuto perché le proprie possano essere “scongelate” e ritornare a dirgli, come compagno e padre della propria figlia, di amarlo così com’è, anzi di più. 

 

La figlia li vede, li sente.

 

Comprendo la strana sensazione di pesantezza al petto, di farfalle nello stomaco al pensiero di persone recluse e ritenute socialmente pericolose, in un esempio come quello appena accennato.

 

Dal dialogo avuto con alcuni di loro, uomini o donne, mentre copro il loro capo con una strana forma di palloncino o prendo le loro mani per far rinascere un abbraccio così intenso da far dimenticare gli sguardi degli altri detenuti, delle guardie, della stanza con le sbarre alle finestre, è emersa tanta sofferenza, senso d’ingiustizia e richiesta di perdono.

 

Non di meno ho udito il bisogno d’aiuto perché il proprio figlio non si dimentichi del padre, e del pensarlo comunque una persona valida, importante; in tale persona, pur avendo sbagliato,  nella consapevolezza del proprio errore c’è la tortura della propria disperazione.

 

Cosa di fatto accade in questi momenti?

 

Nelle tre ore di tempo in cui questi incontri hanno luogo c’è la condivisione di vissuti allucinanti e allucinati da violenze causate e vissute; la rabbia e dolore miscelati dal desiderio di rinascita e d’amore; l’atmosfera è intrisa di preghiera singola e collettiva, in quanto i presenti sono uniti dalla stessa condizione di morte nella vita.

 

Ma non da meno, oltre a quanto di visibile e parzialmente percepibile, si aggiungono anche: il giudizio è stato sconfitto e con esso la paura di non essere amati, di non valere più nulla per le persone fondamentali nella propria esistenza; le differenze di sesso, di età e d’esperienza pregressa sono diventate una risorsa per creare un momento unico  ed uguale per tutti, anche mentre si assaporano un po’ di dolci e di leccornie del buffet preparato apposta per l’occorrenza.

 

Inoltre si sono aggiunti i ricordi del dono di sé, di risate e di sguardi sereni, del profumo della moglie lasciato impresso sulla guancia ancora calda del marito, dell’attesa dell’incontro successivo che accadrà dopo circa trenta lunghi giorni.

 

Quando il tempo è scaduto tutto questo è portato stretto al petto,  mentre il rumore delle sbarre fa trasalire un po’ tutti i presenti e quelli che invece liberamente lasciano alle spalle un luogo grigio per un po’ divenuto luogo d’incontro.

 

La preghiera è entrata in diversi modi e momenti, singola e di comunità, è passata pur senza farsi vedere.

 

E’ vero, fra i detenuti ci sono quelli che forse hanno avuto la umana giusta risposta ad un loro agito non corretto, ma chi siamo noi mentre si pensano tali parole? Siamo sicuri di essere esenti dal pericolo, per le più probabili ed improbabili ragioni,  di divenire uno di loro?

 

Ho fatto mie alcune parole di Papa Francesco, le vivo col naso rosso addosso, e non. Sono tratte dal libro “Parole di gioia” edito dal Centro Ambrosiano; una raccolta di riflessioni espresse dal Papa durante i suoi diversi incontri; le parole qui sotto trascritte sono state espresse il 5 giugno 2013 presso Casa Santa Marta:

 

Pregare – Con la carne e col cuore – Le persone che soffrono devono entrare nel mio cuore, devono essere un’inquietudine per me. Il mio fratello soffre, la mia sorella soffre; ecco il mistero della comunione dei santi. Pregare: Signore guarda quello, piange, soffre. Pregare, permettimi di udirlo, con la carne. Pregare con la carne, dunque, non con le idee; pregare con il cuore”.

 

Quando si sente parlare di profughi, li si vede ammassati, denudati della propria identità, accolti ma come elemento di strategia politica, ascoltati ma con l’udito della differenza anziché della ricerca di comprensione del perché hanno rischiato e perduto in mare parte di sé nei figli in esso caduti, allora qualcosa deve vibrare nel proprio cuore.

 

Si potrebbe dire tanto, in ambiti ed a livelli diversi; ci sono persone colte e competenti per farlo, ma tutti possiamo fare un semplice, complesso gesto interiore, pregare.

 

Lo stesso discorso è sovrapponibile nei riguardi di chi si occupa di persone ammalate o anziani soli: prendere la mano di una donna ricurva sotto al  peso della vita già trascorsa ed aiutarla per portare la spesa o attraversare la strada è una grande preghiera.

 

Ogni volta che ci si dedica col cuore e con le azioni ad aiutare qualcuno, si è di fronte anche ad un altro elemento, puramente umano, il tempo.

 

Molto volte ci si arrabbia perché nonostante le preghiere, si dice fatte col cuore, la grazia richiesta non accade. Allora non è mai colpa nostra, ma sempre di chi non ha ascoltato. Innanzitutto è di per sé poco opportuno parlare di mancanza di grazia, o per lo meno non visibile, come di una colpa.

 

Ribadisco il concetto che nulla ci è dovuto, e tanto meno in quale forma e quando esso debba accadere.

 

La pazienza, la temperanza sono alcune delle virtù cristiane. I frutti non mancano.

 

A tal riguardo vi leggo un mio inedito dal titolo “Seme” selezionato per la raccolta relativa alla XVIII edizione di “Habere Artem 2016”  Aletti Editore:

 

tempo di vita e di morte / nel seme profuso / forza latente / il germoglio dal putrido risorto / è sentinella di attimi senza fine / fiore nelle mani / chine raccolgono l’umana / ricompensa / saggezza di vita”

 

E’ nella crescita spirituale umana il dover fare i conti con qualcosa che non è possibile raggiungere mentre cerchiamo di salvare la vita a qualcuno col mestiere di medico, con quello di psicologo o con l’amore di amico che ascolta le pene del tuo cuore.

 

Metto fra i peccati anche quello di non accorgersi, mentre ci si lamenta di ciò che non riceviamo, di quanto in realtà abbiamo ottenuto di diverso, di altro dalla nostra richiesta. Proprio in tale stupore sta lo scoprirsi e il prendere consapevolezza del Disegno più grande previsto per ciascun essere.

 

Ho accennato allo “scoprirsi”, nel suo significato di conoscere più profondamente il proprio limite, ma anche le potenzialità donate; diverse per ciascuno, ma comunque a Sua immagine.

 

Credo di non dire nulla di nuovo se accenno alla fatica presente in certe giornate quando si deve svolgere un lavoro non più rispondente alle proprie aspirazioni o predisposizioni cognitive; quando ci si accorge di essere divenuti altro, ma per diverse ragioni non si può cambiare nulla, per lo meno nell’immediato.

 

E’ un’ottima occasione per mettere in preghiera l’impegnarsi comunque con coerenza e dedizione verso un obiettivo diverso dal proprio, ma del quale si è comunque parte in causa e piccolo tassello, insieme alla condivisione con altre persone del raggiungimento di tale traguardo.

 

Giunge la sera, la preghiera agìta fa si che le proprie pupille, momentaneamente rassegnate, possano continuare a  vedere i raggi di luna ed il dono offerto.

 

Durante un periodo di tale condizione, è nata la poesia  “GPL”, eccola:

 

e’ uno strano carburante / non si consuma ama la natura/ di umile somiglianza impregnato / è come il legno per il camino / la benzina per il viaggiare / l’acqua per il vapore / camminando in silenzio s’espande / pervade tutte le viuzze le vie a precipizio / le strade più sconquassate / forza motrice perpetua / da cinquanta grani in docili mani / rifornita / guardando l’insegna all’incrocio / del silenzioso cammino / è inciso / Guarda Prega Lavora”.

 

Le riflessioni potrebbero continuare a lungo; volutamente non ho accennato alla similitudine della presenza di un credo legato a qualcuno o qualcosa d’altro rispetto a se stessi presente in molteplici culture e tradizioni diverse da quella di mia appartenenza.

 

Come accennato nel preambolo, ho voluto lasciare traccia di una chiave di lettura altra da qualcosa di specificatamente antropologico e/o teologico anche se “il nero su bianco” ne parla fra le righe.

 

Lascio agli occhi del cuore saper cogliere quanto altro è celato nelle mie parole.

 

Concludo la mia riflessione, direi quasi divenuta preghiera, con l’ultima poesia inedita “A mani nude”. Vuole essere il sunto di una profonda riflessione, nella nudità del mio essere polvere e di ringraziamento.

 

Grazie 

 

 

“in un occhio che non vede / nelle mani stanche avvizzite / il sudore della vita / scorre nelle vene, / passo dopo passo, sul binario tracciato / fra cambi di corsia e lunghe linee / piedi stanchi e a mani nude / il fiato trasuda dal petto / in un’invocazione a te / gridata risorta alla luce / dice / grazie della vita”



L’ESSENZA: LO SCARTO DI ESSA

 

Pesantezze, prolissità, zavorre: leggere tali parole o udirle nel quotidiano interloquire è di per sé un rallentamento della fluidità della vita nello scorrere del tempo; si avverte un senso di oppressione, di ristagno dell’azione prima mentale, poi nell’agito della persona nella sua interezza nel relazionarsi col mondo.

 

Nella scrittura l’obiettivo  di ridurre tale ridondanza implica il rischio di essere raggiunto solo in parte; nella parola è intrisa la proprietà esplicativa di senso e di significato di un concetto, ma al contempo ha il limite di essere un contenitore dai contorni definiti, per natura riduttivo ; il senso ed il significato per tale ragione  sono “ristretti” o parcellizzati.

 

Si è di fronte ad una sorta di “scarto” necessario.

 

Tale limite è percepito nel momento stesso in cui metto nero su bianco queste brevi riflessioni, che voglio traslare sul piano esistenziale.

 

Pensare alla vita come ad un palcoscenico dove le persone sono attori e registri del proprio esserci; uscire di scena, divenire spettatore e guardare al di là di quello che accade, della visione di oggetti, delle situazioni nelle quali ci si lascia trascinare o si decide di immergersi; decentrare il focus dell’attenzione dall’esterno per riappropriarsi della visione di se stessi, possono essere strumenti per saper comprendere e discernere ciò che è essenziale per la vita nella vita da quello che può  solo apparire tale.

 

Programmi televisivi, altri mezzi di comunicazione argomentano sul mondo ridotto alla superficialità dell’esistenza, sull’affanno per racimolare denaro, capitali materiali,  su cosa sia migliore per l’uomo; si sbiadisce così la vita colpevolizzando di ciò la società stessa.

E’ più comodo e semplice proiettarne la responsabilità verso gli altri  invece di prendere atto che essa è fra i diritti e doveri di ciascuno.

 

Ci si dimentica che “l’altro” siamo noi.

 

Ecco il richiamo alla visione centrata sulla persona, non come atteggiamento e pensiero egocentrico ed egoistico, ma al contrario, come strumento per alleggerirla da bisogni indotti, condizionanti scelte non  essenziali solo legate ad un sistema economico e politico, fagocitanti l’evoluzione umana anziché per favorirne il miglioramento.

Avere occhi per vedere, accogliere con coraggio la scoperta, raccogliere la similitudine nella differenza come dono e specchio dello sconosciuto a noi e di noi stessi.

Per quanto sopra sono necessari valori dei quali a volte ci si vuole dimenticare, in quanto impegnano l’individuo a scavare nella profondità di sé ed a mettersi davanti ad uno specchio nel quale riflette un’immagine non voluta, rifiutata: “No io non sono così! Non è vero! 

 

Mentire a se stessi non è poi così difficile.

 

Amare la condizione di essere polvere, il valore dell’umiltà, di essere solo un granello di sabbia nell’immensità della creazione, una goccia d’acqua dalle mille sfaccettature, la quale nella propria metamorfosi è dono diverso per gli altri mantenendo la propria essenzialità; solo così si lascia lo spazio per una crescita spirituale e della persona nella sua interezza, rinforzando i passi nella salita degli “scalini” per giungere all’oltre, al di là della vita terrena.

 

Tutto questo è anche un “antidoto” alla superbia, alla polvere sottile che s’infiltra nell’animo umano di credersi Dio in terra, strumentalizzando conoscenze e competenze di per sé estremamente valide; diventa così un fatto di sopravvivenza scartare tutto ciò che può intaccare il piedistallo d’argilla sul quale si erge lo status sociale.

 

A proposito di essenzialità, non posso non pensare alla poesia quale sguardo con cui entrare nella vita, la meraviglia dello stupore, con la stessa capacità e naturalezza del bambino di saper apprezzare il nulla, saper riscoprire l’ovvietà, il nuovo nel conosciuto, ma anche saper stare nel dolore, nella sofferenza, nel “grigio” che emergono al di là dell’apparenza delle cose.  

 

Essa sa arrivare al centro della vita, l’attraversa e n’estrapola il nocciolo; tramite  la poesia la vita si esprime nella coerenza del continuo suo crearsi e ricrearsi in ogni istante.

Come dice Davide Rondoni, “La poesia mette a fuoco la vita”.

 

Nel mio essere polvere, dalla mia prima silloge di poesia-lirica “Ogni istante” vi leggo una poesia, dal titolo esplicativo:

 

ESSENZA

 

Un sorriso / Una lacrima /Un abbraccio./Ecco ciò che “nutre”/ Il “tutto” racchiuso nell’anima/ L’Essenza dalla quale attingere/ per “essere” ed “esistere”/ Accompagnando chi ci sta accanto / con uno sguardo / Superando ciò che il Corpo non può

 

Ognuno, leggendola, ha una risonanza ed interpretazione diversa, e ciò deve essere.

 

Le parole appena lette mi hanno attraversata dopo l’esperienza avuta come educatrice presso una struttura di accoglienza per adulti in situazione di handicap psico-fisico.

 

A distanza di tempo dalla sua stesura scopro qualcosa di nuovo, come vuole la coerenza della poesia con la vita.

 

L’utilizzo abbondante dell’iniziale maiuscola porta ad una nuova chiave di lettura,  è una sorta di poesia nella poesia.

 

Nell’esperienza succitata si sperimenta, in maniera diversa, l’importanza e la pienezza  delle piccole cose: la potenza dell’amore col quale viene data una carezza, donato un sorriso, allargate le braccia per accogliere l’anima incagliata, incatenata in un corpo rattrappito. 

 

L’amore gratuito a Sua immagine, fonte della nostra essenza, sgretola muri psicologici e sociali, penetra i cuori incartapecoriti, rivitalizza l’animo di chi si trova in una condizione altra da lui, incoraggia a rialzarsi quando le situazioni e le persone responsabili di abbandoni e di pregiudizi stigmatizzanti hanno fatto piegare le ginocchia.

 

Non da ultimo, con umiltà e piccolezza, è saggio riflettere con più profondità sui limiti oggettivamente inesistenti in quanto tali, ma che ci diamo da noi stessi. 

 

Essere non attenti a quanto su espresso è uno scarto da estrapolare dall’essenzialità della vita; troppe volte i limiti autoimposti impediscono l’utilizzo dei talenti come strumento per mettere in pratica la ragione del nostro essere al mondo, del nostro contributo nel migliorarlo ad uso di tutti.

In tal modo si lascia carta bianca a coloro i quali per potere sociale possono disporre, normativamente o per delega ricevuta, della vita altrui; si favorisce la monopolizzazione subdola dei pensieri e delle debolezze per atrofizzare l’uomo nella volontà  contro tale sopruso e tenere a bada la consapevolezza di chi si è e del proprio valore. 

 

Eistein durante una intervista disse: “Meglio essere credenti che creduloni”.  

 

Anche il corpo viene strumentalizzato in tal senso per accecare il cuore con pregiudizi nei riguardi di coloro le cui forme non rientrano nei canoni di bellezza imposta dalla cultura di appartenenza; non da meno per coloro che per ragioni di salute o per natura sono diversamente abili.

 

Chi è veramente in situazione di handicap?

 

Per continuare la riflessione a tal riguardo prendo spunto dal libro  di Davide Rondoni “Si tira avanti solo con lo Schianto” edito nel 2013 da Whiteflypress,  Premio Penne-Mosca 2015, dal quale vi leggo la seguente poesia:

 

Il ragazzone ritardato sulla spiaggia con la carriola / che corre nel vento e con il mare grosso / e avanti a tutti, grida di che oscura / felicità / urla lui urlano le onde / e io morendo / trasformo tutto questo in silenzio / per farlo durare nelle parole / e nei nostri cuori / ritardati e di vento.

 

Le diverse modalità espressive verbali o non verbali del vivere umano sono il risultato di una miscela fra un’identità individuale cresciuta con valori e atteggiamenti di vita interiorizzati in primis nell’ambito familiare, e da un’identità sociale sorta nel relazionarsi con gruppi di persone  inseriti in un contesto culturale che li avvalora o li sminuisce. 

 

Non mi sorprende che il sorriso, una lacrima, un abbraccio o “grida di oscura felicità”  siano espressioni per alcuni considerate superflue o infantili e perciò scartate dal repertorio di un comportamento consono ad un vivere civile.

 

Esse fanno sobbalzare, vanno a toccare corde impolverate da tempo, si riagganciano al ricordo della naturalezza del proprio sé bambino che sorride per fare amicizia con uno sconosciuto, per richiedere un abbraccio, per dire “ci sono”, il perdono ad un malfatto.

 

La maturità della persona sta nel saper trasformare espressioni emotive apprese in fasi della vita precedenti in una modalità relazionale adeguata al tipo di contatto e di rapporto preso a riferimento, non certo nel censurarle a se stesso o nel scartarle.

 

Un atteggiamento interiore tarpato nella modalità espressiva affettiva, spesso per mancanza di fiducia, non facilita l’apertura verso l’altro da sè e all’accoglienza; è inevitabile l’aridità di cuore per una comunicazione “filtrata” e resa in parte sterile per una vera conoscenza ed integrazione. 

 

L’uomo s’indebolisce.

 

Il vuoto generato da tale condizione induce la persona a doverlo riempire con qualcosa di psicologicamente e/o fisicamente subito appagante, attraverso lo scuotimento, il travestimento interiore ed esteriore del corpo, per poi ricadere nel vuoto più inteso.

 

Sempre più spesso, lo si sazia momentaneamente trovando riscatto  nel denigrare e “uccidere” la dignità di persone vicine, di fratelli stranieri o comunque considerati “diversi” , con la parola divenuta un’arma o con  la mancanza di considerazione, cioè l’indifferenza.

 

E’ divenuto un fatto “normale” vedere immagini di persone  su precarie imbarcazioni in fuga dalla guerra e dal terrore ; guardare volti straniti dall’angoscia, lacerati dal dolore dopo aver perso tutto di sé con ancora fisse sulle pupille le visioni di getti di sangue, di grida senza fiato, di braccia dalle quali sono strappate le mani dei propri figli.

 

Si dice tanto sui disastri ambientali per mano umana, sui maltrattamenti gratuiti anche domestici, a proposito di cibo gettato come i corpi di bambini morti di fame, od anche su discussioni accese e movimentate da parte di chi deve giungere a normative per “rimettere in riga” una società civile.

 

In tutto questo l’attenzione è rivolta a quelli che sono i sintomi di ciò che si può similare ad una malattia; si continua ciecamente a cercare  il giusto medicamento per lenirli, rallentarli o anestetizzarli in modo da neutralizzare il problema senza meditarne seriamente l’origine. 

Occorre molta umiltà.

 

Allontanarsi dalla Fonte che ci ha voluti, creati e resi limitati proprio per poter attingere da essa la “benzina” necessaria per il nostro cammino umano, a mio avviso è la causa della frammentazione dell’uomo e delle relative conseguenze.

 

Come il tronco di un albero è inerme di fronte all’attacco di funghi e batteri fino ad essere svuotato all’interno, così l’essere umano si “svuota” se non mantiene e ricerca continuamente il contatto con l’amore di Cristo. 

 

Dell’uomo resta solo lo scafandro costituito di futile materialità.

 

Dimorare nell’essenza scoperta in ogni istante dell’esistenza, in ogni forma e situazione che ci vengono incontro al sorgere del dono di ogni giorno, spesso dato per scontato, è la base da cui iniziare e continuare la crescita.

 

Se si acquisisce la consapevolezza dell’essenza della dimora in Cristo, l’energia che l’uomo sprigiona può essere solo positiva, amore e come tale essere la vera “arma” per combattere la guerra. 

 

Siamo tutti chiamati alla santità ed a essere discepoli.

 

La guerra non solo il conflitto fra paesi stranieri; mi riferisco anche a quella generata con se stessi nel combattimento a rinforzare le virtù della Fortezza e della Temperanza per saper trovare l’equilibrio fra la materialità delle cose ed il soddisfacimento di bisogni umani.

 

Dopo tali riflessioni vi leggo un’altra poesia dal mio testo “Ogni istante”, della quale non faccio commenti:

 

TENERSI PER MANO

Canzoni, campanelli, rosso / Frenesia, affanno, fatica / Il mondo sembra stia per finire…./ Cosa realmente avviene…../ Lo smarrimento, l’abbaglio delle apparenze / lo svuotamento dell’uomo / Ritorno all’infanzia ormai persa ed irraggiungibile / per alcuni mai conosciuta / 

Solo una piccola Calorosa Luce frena tutto. / E’ ora di fermarsi…..tenendosi per Mano!

 

Nell’”Evangelium Vitae” il Papa Giovanni Paolo II al punto 21 cita: “Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, non ci si può fermare all’idea perversa di libertà (fa riferimento a quella intesa come individui sentiti reciprocamente come nemici, senza legami, ognuno pensa per sé). Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo Dio si tende anche a smarrire il senso dell’uomo……”

 

Questo scorcio di riflessione dovrebbe essere riportato su di un pezzetto di carta, riletto nei momenti di disperata impotenza, frustrazione, solitudine, situazioni umanamente difficili, di fronte al nostro essere niente. Riletto ancora per un ringraziamento.

 

Ancor di più meditata come “linee guida” , prevenzione contro lo sgretolamento totale del creato.

 

Nella libertà di pensiero si rispetta anche chi si definisce non credente; mi preme sottolineare come l’amore, motore per azioni di carità verso il fratello, nel donare tempo all’ascolto o nel servire il prossimo anche in famiglia, nasce dalla stessa Fonte; anche sorto da miscredenti è comunque amore.

 

Non ho ancora avuto esperienza di persone che, pur definendosi atee o non credenti, in situazioni dove hanno “toccato il fondo” non abbiano imprecato “qualcuno lassù” prima d’invocare il nome della propria madre; potrebbe essere un’ulteriore riflessione sulla dimora dell’essenza e come scoprirla.

 

Nel periodo attuale di Quaresima, si pone in rilievo, oltre alla preghiera e alla carità, il digiuno dalle carni.

Si può fare una riflessione a più livelli: collegare il digiuno con la diminuzione di assunzione di cibo ci riporta al corpo inteso come un mezzo per riconoscersi, essere individuati e nei rapporti col mondo stesso. Avere cura di esso significa avere rispetto oltre ai Chi ce lo ha donato, anche per sé, per la dignità di uomo e per quella delle persone con le quali tramite di esso entriamo in rapporto. Rientra nel volersi bene come Lui ci ha amati.

 

Quante volte si parla del corpo senza sminuirne il valore, rendendolo oggetto, trasformandolo in merce di scambio, o strumento per vendere beni di consumo? 

Durante ricerche di alcune Forze dell’Ordine il corpo umano viene ritrovato nei bidoni della spazzatura, come si trattasse di un rifiuto da consumo. 

Non ci sono parole.

 

Inoltre il corpo è lo scrigno contenente la parte spirituale del nostro esserci; è un prolungamento materiale della forza interiore infusa nel battesimo.

L’Eucarestia è la massima espressione del Corpo di Cristo. 

 

Pregare in un corpo non sazio di nutrimento materiale significa lasciare spazio a quello spirituale perché esso penetri ogni capillare, la persona ne sia inondata  rendendola come “membra vive”.

 

Nelle Sacre Scritture si fa spesso riferimento al corpo, come tempio, come apparente forma di scarto, o come strumento umano a disposizione per poter “toccare” le vesti di Gesù. 

Quando abbracciamo qualcuno ci si pensa mai?

 

Per una terza riflessione sul digiuno penso ad esso come rinuncia dentro noi stessi, “scartare” l’egoismo, l’indifferenza, il giudizio dallo sguardo verso l’altro. 

Iniziare quindi a saper riconoscere il volto di Cristo nella persona per la quale non si gode troppa simpatia, per quella vestita con indumenti strani, per il viso sporco e gli abiti lerci di chi incontriamo distesi lungo la strada; saper andare oltre alle apparenze esteriori.

In tale ricerca è il risveglio di noi stessi; gli occhi, specchio dell’anima, avranno le lenti giuste per saper discernere ed andare oltre il corpo guardato, amato, abbracciato.

 

In riferimento alle riflessioni fino ad ora esposte e alla disgregazione dell’umano in tanti frantumi, con lo sguardo della poesia mi sorge spontaneo pensare a quella di Mario Luzi, nella quale la parola viene riportata alla sua essenza ed al suo senso, alla acuta coscienza del poeta fiorentino della frammentazione del mondo nel quale il pensiero è destinato ad essere bruciato subito per lasciare il posto ad altri, in una sorta di consumismo, divorati dalla modernità. 

 

Al pensiero non viene dato il tempo di sedimentare, di scavare in profondi meandri mentre l’oggetto di conoscenza subisce una metamorfosi per scoprirne tutte le sfumature, effettuando poi analogie e similitudini all’interno della cultura fondatrice.

 

Voglio solo prendere alcuni spunti per continuare la riflessione, una sorta di meditazione per rimanere “nel centro” dell’essenzialità della vita, una sorta di “antidoto” all’esser trascinati nel vortice dei condizionamenti socio-culturali.

 

All’ultima fase della poesia dell’autore fiorentino si fa risalire la raccolta “Per il battesimo dei nostri frammenti” , opera datata 1985,anche se l’autore stesso fa intendere la mancanza di una stretta linea cronologica. Essa è attualissima nel mettere a fuoco quello che accade oggi nel mondo e nella frammentazione dell’uomo stesso, con le conseguenze che vediamo ogni giorno. 

 

In tale opera egli parla di frammenti, ogni poesia è a se stante, mai troppo lunga, pur tuttavia in ciascuna di essa si riflette tutta l’opera, una sorta di dire “olistico”. Ciò può essere inteso anche come la  sacralizzazione del frammento. 

 

Interessante l’apertura della raccolta con il  Prologo del Vangelo di Giovanni: “In lei (la parola) era la vita; e la vita era la luce degli uomini.

La fede di Luzi è presente in questo volume, non sempre in maniera esplicita, la parola Dio non viene mai verbalizzata,  come Dante non pronuncia mai la parola Inferno.

In un suo discorso Luzi afferma: “…E’ proprio il discorso impossibile su Dio e il colloquio linguisticamente non esprimibile concettualmente non pensabile con Lui che rimandano al centro dell’umano”

 

Il senso profondo dell’opera è probabilmente nel riconoscimento del mistero della parola, del nome, esattamente come lo è per la creazione ed il sacro.

 

A similitudine col decadimento dell’uomo così anche l’uso del linguaggio, della parola stessa. Questo anche per contrapposizione all’agito dell’uomo e delle creature divenendo a loro volta linguaggio altro. Una sorta di scarto fra linguaggio e realtà

 

Il silenzio è altrettanto importante della parola.

 

In riferimento alla riflessione sull’essenza ed il tenersi legati ad essa, al suo ricordo  vi leggo la prima delle tre poesie di cui la raccolta “Per il battesimo dei nostri frammenti” è composta nella sezione  “Dizione”:

 

“C’era, sì, c’era – ma come ritrovarlo/quello spirito nella lingua / quel fuoco nella materia. / Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia? / Sepolto nelle rocce, / rocce dentro montagne / di buio e grevità – / così quasi si estingue, / così cova l’incendio / l’immemorabile evangelio……

 

La seconda parte della suddetta raccolta è quella  intitolata “Notre-Damme la pauvre femme”: le poesie cercano d’immergerci nel caos e il non senso del mondo e dei sentimenti, sotto il dominio del dubbio, dell’angoscia, l’amore umiliato e il sangue sparso nel mattatoio nel quale la città terrorizzata è divenuta.

Tuttavia la disperazione vacilla di fronte alla speranza comunque presente.

All’inizio di questa parte nelle poesie di Luzi viene introdotta  la madre; la figura materna o meglio la mancanza di essa, compare spesso come forze generatrice della poetica luziana. 

Il termine madre, in molte poesie viene utilizzato anche come simbolo di una speranza. 

 

Fra le poesie presenti nelle diverse sezioni o parti di esse mi pare adatta a richiamare il periodo quaresimale in cui ci troviamo la poesia intitolata “Perché luce ti ritrai”: una meditazione sull’assenza di luce, una sorta di scomparsa dell’uomo nel buio della storia, in preparazione d’un amore pieno. 

Si tratta di un dialogo fra il poeta e la luce, che rimanda alla citazione di San Giovanni collocata in esego . 

L’ambiguità fra l’intreccio del positivo col negativo riproduce il concetto del senso che divora se stesso. Tuttavia la luce si ritrae solamente, indipendentemente dalla visione del poeta, in quanto essa si ritrae anche da ciò che non si vede. Il lei dell’ultima terzina è riferita alla mente.

 

Perché , luce, ti ritrai/da me nelle cose guardate/e più addentro ancora/nelle altre non vedute?/Chiusa la storia, cancellata la persona,/perso o vinto l’agone?/ Oppure/è l’altro che matura/e splende, l’amore pieno,/il pieno annientamento/in cosa? In che unica sostanza,/in che totale inessenza -/ impossibile saperlo,/non c’è testimone, non c’è canto?/Lei pensa o sogna che qualcuno pensi/nel risucchio di pace/ del mulinello cruento…

 

A proposito di buio/luce e della parola come strumento per l’uomo per rimanere nell’essenza di sé e della realtà fino al “celestiale appuntamento”  del poeta fiorentino vi leggo la bellissima  poesia dal titolo Vola alta parola, nella quale il poeta prega la parola di non dimenticarlo, una sorta di preghiera verso Dio:

 

Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenit della tua significazione, / giacchè talvolta lo puoi / sogno che la cosa esclami / nel buoi della mente / però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mo ricordo sii / luce, non disabitata trasparenza…/ La cosa e la sua anima? / O la mia e la sua sofferenza? / Vola alta, parola.

 

L’essenza  profusa anche nella natura e l’unione dell’uomo con essa è per restare in armonia con il creato e con l’intimo di sé,  senza perdersi nelle devianza di sfruttarla per una migliore vita.

Egli con suo pensiero e le sue opere fa sorgere la domanda sulla reale posizione dell’uomo in relazione con la natura e al sacro.

 

Vorrei riproporre il richiamo alla natura, similitudine con l’essere umano e la nostra essenza in un tempo umano leggendovi una ultima mia poesia estratta dalla silloge “Ogni istante”, dal titolo Lumaca:

 

Bruciato, dorato, ruggine / Canarino, rosso antico / Vecchio col profumo di arcano e nuovo./ Rabbia, sensazioni, urgenze….correre…correre./ /Lumaca fragile, piccola e grande, mostra la tua / Forza a colui che ti calpesta! / TU uomo alza gli occhi al Cielo e grida il tuo Perdono!

 

A proposito di perdono, concludo il mio intervento facendo riferimento all’Anno giubilare della Misericordia che si concluderà il 20 novembre 2016, citando alcune parole di Papa Francesco estratte dalla Bolla “Misericordiae Vultus”: “…La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo, il quale, grazie all’enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non ami prima conosciuto nella storia, è diventato padrone ed ha soggiogato e dominato la terra (cfr Gen 1,28). Tale dominio sulla terra, inteso talvolta unilateralmente e superficialmente, sembra che non lasci spazio alla misericordia…Ed è per questo che, nell’odierna situazione della Chiesa e del mondo, molti uomini si rivolgono, direi, quasi spontaneamente alla misericordia di Dio”.

Grazie

 

Marzo 2016