Roberta Mezzabarba - LA LUNGA OMBRA DI UN SOGNO

Copertina 3dPrefazione

 

 

La notte in cui si affacciò alla mente di Greta l’opportunità di dare una svolta definitiva alla vita che da tempo le scivolava addosso, il mare era battuto da un vento di tramontana gelido e sferzante, lo ricordava ancora nitidamente.

Aveva deciso: sarebbe scappata.

Nel buio solo onde, lingue bianche e schiumose, mosse volutamente per spezzare l’armonia di quella tavola blu fondo, avanzavano con movimenti sempre più incalzanti quasi a voler schiaffeggiare gli scogli scuri di quella baia sassosa a strapiombo sull’acqua.

La folta vegetazione, presente solo a sprazzi su quella riva, ondeggiava come avrebbero fatto verdi chiome di ninfa scompigliate da un vento fastidioso.

Tante volte fin da bambina Greta si rifugiava lì, in quell’Eden, dove poteva avvertire calda e viva la confidenza con la parte più selvaggia di se stessa: si sentiva così distante dal resto del mondo che la circondava, eppure il dolore riusciva a raggiungerla con ondate tanto vicine da farle perdere completamente la percezione di qualsiasi altra cosa.

Forse fin da bambina era stata sempre un po’ distaccata dal resto del mondo, da quello che la massa riteneva giusto… e ora dopo tanto tempo nella sua mente era sempre più ferma la convinzione che avrebbe fatto bene a continuare a mantenere le distanze con quanto la circondava: troppo spesso l’eccessiva vicinanza, la troppa confidenza rende fragili e indifesi per giudicare e combattere ciò che ci lede.

Da ragazzina le piaceva fantasticare, con lo sguardo perso nel blu cupo del mare: sognava di essere una principessa imprigionata da una strega malefica, contro la quale resisteva nell’attesa che il suo principe la venisse a salvare, sul suo cavallo bianco.

Forse proprio l’inseguimento di quel sogno, che a un certo punto era divenuto veramente esasperante, aveva infettato quella che sarebbe potuta essere un’esistenza quantomeno tranquilla.

Solo adesso che era rimasta sola, veramente sola, se ne rendeva amaramente conto.

Solo adesso che non aveva nemmeno più la forza di raccattare i brandelli della sua vita, macerie che si affollavano attorno a lei, attimi oramai perduti irrimediabilmente, aveva chiara di fronte a sé l’ombra che le aveva oscurato il sole.

Capitolo 5

 

Arrivata di fronte alla porta Greta esitò, non voleva entrare in casa sua: non aveva voglia di dormire, ma soprattutto non aveva voglia di rimanere da sola. Bussò allora leggermente alla porta di Giacomo: sperava con tutto il cuore che fosse ancora sveglio.

La porta si aprì con un leggero cigolio, che echeggiò nell’aria della piazza fino a riempirla tutta: apparve Giacomo con la sua faccia scura, sulla quale spiccavano due sopracciglia candide. Erano corrugate, come a porre a Greta la domanda che le sue labbra non si sarebbero mai permesse di pronunciare: quale era il motivo per cui si trovava lì, a quell’ora?

«Giacomo, ho bisogno di parlare con voi. Oggi pomeriggio sono stata sulla Martana con quel pescatore che mi aveva già portato sulla Bisentina…»

«Ma voi lavorate troppo… ora pure sulla Martana? Bisogna che ci vada a parlare io con quel notaio».

Il vecchio la interruppe, per sdrammatizzare la situazione: li aveva visti tornare, li aveva visti sul molo, aveva visto il modo in cui si erano stretti l’uno all’altra. Aveva visto forse più di quanto Greta stessa avesse potuto comprendere.

«Ma no, cosa dite, non ci sono andata per lavoro, magari fosse stato per quello, sono andata con Ernesto a visitare l’isola e… oh Dio mio, ho combinato un bel pasticcio, proprio un bel pasticcio! Mia madre me lo aveva detto, sono sempre la solita. Giacomo, cosa devo fare? Ditemelo voi, cosa devo fare?»

«Per prima cosa entrate, e poi ne parleremo. Venite».

Greta avrebbe desiderato tanto poter avere un’esistenza tranquilla, magari con Ernesto, ma non avrebbe potuto nemmeno pensarci, almeno fino a quando non fosse riuscita a scrollarsi di dosso i fantasmi che la insidiavano continuamente, a ogni passo. Giacomo aveva ragione, solo quello era il suo vero problema.

E Greta aveva già deciso. Sarebbe partita per la Sicilia la mattina successiva.

Aveva di fronte un foglio bianco, di carta, sul quale aveva iniziato a scrivere una lettera per Ernesto.

“Caro Ernesto

forse ieri sera avevi ragione tu: la Martana causa veramente strani pensieri nei suoi visitatori, e così deve essere stato. Forse stavo solo aspettando un pretesto a cui aggrapparmi, forse era da tempo che maturavo la decisione di ritornare in Sicilia. Comunque, quale sia stato il percorso che hanno seguito le mie decisioni poco importa. Devo andare.

Porterò con me la rosa che hai colto sulla Bisentina, e tutte le cose che ho scoperto e ritrovato insieme a te. Le porterò con me nella speranza che mi aiutino a vincere tutte le mie paure e i fantasmi che si nascondono dietro a esse. Le porterò con me perché un giorno mi riconducano da te, qui, nel tuo paradiso: e se un giorno, vicino o lontano, ritornerò… sarà per rimanere.

Vorrei solo che tu non mi dimenticassi: sarebbe il dolore più grande che tu potresti darmi. Ricordami magari come una pazza che farneticava delle sue paure, e delle ombre che diceva di sentire dentro, ma non lasciare mai che altri volti si incollino sul mio, soffocandolo. Dolce traghettatore dei miei più bei pensieri, ti saluto, e non ti trattengo oltre.

Ti amo, e ti amerò per sempre.

Greta”

Scrisse quelle parole di getto, senza pensarle troppo, e senza pensare troppo a ciò che stava facendo.

Avrebbe dovuto scrivere due righe anche per il notaio De Fusco: sapeva benissimo da sola che si stava comportando ancora una volta da incosciente. Aveva quasi trent’anni, ma si sentiva vuota come un neonato: tutte le sue esperienze, le sue emozioni, il suo vissuto avevano solo transitato su di lei senza lasciare che qualche traccia sbiadita di dolore e rimorsi. Voleva risposte e ne voleva dare. Sapeva fin troppo bene che solo chiudendo un capitolo e riprendendo a pagina pulita sarebbe stato possibile ricominciare daccapo.

Non sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto per liberarsi dei suoi sogni, dalle paure che le erano cresciute dentro, per spurgare il veleno che lentamente scorreva nelle sue vene mischiato al sangue.

Non aveva nemmeno la certezza che ci sarebbe riuscita.

Ma valeva la pena provarci.

Capitolo 9

 

Dopo quella discussione con sua nonna, Greta aveva vagato a lungo nelle campagne circostanti il paese. La notte stendeva il suo manto su quelle valli, che sembravano allungarsi all’infinito, fino all’orizzonte.

Aveva iniziato a piovere da circa un’ora, ma lei non si era fermata: il sentire le gocce sulla pelle le causava brividi profondi, mentre un pugno di ferro le afferrava le viscere.

Con il passare dei minuti la pioggia che scendeva era aumentata, e Greta aveva deciso di rifugiarsi in una grotta: le urla della tempesta che si stava scatenando le provocavano vertigini, mentre la pioggia continuava a farsi più intensa. Greta era completamente bagnata e rabbrividiva allo strano pensiero che stava prendendo forma nella sua mente: forse stava per giungere di nuovo il diluvio biblico che avrebbe distrutto la vita e lavato via la sporcizia dalla terra.

Aveva paura.

Aveva paura di ammettere che ancora una volta non aveva avuto la lealtà di raccontare le cose come stavano veramente. Non aveva parlato a sua nonna di Alberto né di Ernesto: aveva continuato solo a nascondersi dietro quella moltitudine di frottole con la quale aveva da troppo tempo alimentato la sua fantasia tanto da non riuscire più a riconoscere quello che era successo realmente, da quello che lei avrebbe voluto fosse accaduto.

Pioveva sempre di più, e lei aveva deciso di nascondersi in una caverna.

La luce intensa e bianca di lampi fragorosi illuminava a giorno, solo per brevi frazioni di secondo, quell’antro colmo di ragnatele e strane piante rampicanti: Greta in preda al panico che la invadeva, vedeva emergere dalle pareti rocciose una miriade di braccia dalle sembianze umane con le mani aperte, brancolanti, protese nella ricerca di qualcosa, nel buio. Una sensazione fisica fortissima le scivolò addosso, insinuandosi sotto i suoi vestiti, sul corpo umido, convincendola di venir attirata senza scampo da quelle mani nelle viscere più profonde e buie della terra. Sentiva quelle dita adunche e fredde afferrarle ogni centimetro di pelle, fino all’anima, e spogliarla avidamente di tutte le speranze che avevano animato il suo ritorno a casa.

Forse era la fine.

Greta tremava in preda a spasmi febbrili e incontrollabili: cadde a terra, come se le forze l’avessero abbandonata all’improvviso, e l’ultima cosa che ricordò di aver visto, prima di perdere i sensi, fu il pavimento irregolare e polveroso della grotta avvicinarsi repentinamente al suo viso. Forse stava veramente raggiungendo il centro della terra.

Il sole tiepido del pomeriggio entrava dalla stretta finestra