Salvatore Atzori

Poesie


Solo illusione

Quel petalo di rosa tra le pagine
di un libro dell’Ottocentonovantotto,
scelto a caso sulla bancarella
di un venditore presso il Lungotevere,

lo prendo trepidante tra le dita,
messaggio di un’amante sconosciuta,
che torna per impulso del pensiero,
compagna del silenzio del mio studio.

Avverto a destra della scrivania
una presenza diafana e un sospiro
che svanisce al cenno delle labbra
nel respiro timido di un nome.

Con una punta d’amarezza chiudo
il libro che ha aperto e insieme chiuso
un’utopia, per riporlo in libreria
col petalo che tengo tra le dita
Ma curiosa guarda alla mia finestra,
occhieggiando dall’aiuola del giardino,
la rosa aperta alla vita stamattina,
proprio nei giorni freddi della merla.

Sfida il gelo pungente della brina
traendo dalla luce la sua linfa
ma per bruciare in breve la sua vita,
figlia precoce di un’altra stagione.

Per non abbandonarla al quel destino,
ne recido sollecito lo stelo
offrendole nel vaso un’altra vita
nel tepore accogliente della casa

dove ancora si strugge di rimpianto
per il tempo che non le fu concesso,
raggio di sole e fremito di vento,
sfogliandosi protetta dall’alloro.

 


 

Assenza

Solo,
sul letto a due piazze
disfatto da una sola parte,
senza il calore dei corpi
pelle su pelle,
petto su seno
e brivido di voluttà
prima dell’abbraccio di Morfeo,
poiché l’amore è morto
e il sogno è un incubo.

E il malinconico ricordo
del tenue vagito del bambino
in mite ricerca di alimento
ravviva l’assalto dell’angoscia,
demone del silenzio della notte,
mentre le braccia brancolano
invano cercando
un impossibile contatto.

Per questo mi è amica l’alba,
anelito il sole,
che mi riportano
con la fatica del giorno
all’oblio della mia delusione.

deludendo le speranze.

 


 

Se c’è un senso

Andare e tornare,
senza sapere dove,
senza trovare un perché
a questo giorno
di luce incostante,
con le sue tenebre
e stelle vibranti.

Dai un senso
Allo stento del cuore,
ricerca qualcosa
che riempia
il vuoto
di un inafferrabile sentimento.

 


 

Oltre il tempo

In altri mondi,
tra lontananze astronomiche,
ritroverò forse
chi senso ha dato
a questo fuggente esistere.

Ad uno ad uno
ci allontaniamo ormai
senza alcun addio,
rapiti
da mano invisibile,
briciole d’universo
dove vivremo senza fine.

 


 

Eternità

Notte di luna.
Bisbigliano le stelle
pulsando tra loro
la favella delle sofferenze
e dei desideri umani.

Ma noi
nella notte astrale
cerchiamo l’illusione
di un’altra vita,
di altre vite
in un percorso perenne.

Che troveremo
forse
al termine che il destino
ha già sancito per noi.
E la chiameremo eternità.

 


 

Memoria d’uomo

All’alba,
dopo ore insonni
e tormentati ricordi,
solo la pausa di un respiro
sul letto a due piazze,
disfatto da una sola parte,

cercando di fermare
il turbine di pensieri
e di sensazioni di un tempo
che con sé mi trascina.
Fantasie, desideri, memoria d’affetti.
Ma un peso interiore,
in cerca di sollievo
nel raccontare,
origliando alla porta dei poeti,
uno struggente disinganno
fermandolo su un’amica pagina bianca.

Ma vento,
solo vento mi sfiora,
attimo fuggente,
non la cetra di Calliope,

mentre la mia stagione si disanima,
frusciando nella penombra del ricordo
malinconia e rimpianto,

giocando a coprire
con la polvere del tempo
e a scoprire questa mia
memoria d’uomo.

 


 

La parola

Dai graffiti rupestri d’Altamira
e dal mastio nuragico in Sardegna
giunge il messaggio dei progenitori
avvolto ancora in veli di mistero.

Quando però l’isola di Minosse
diede alla creta il suono della voce
il loro fiato è giunto fino a noi
trasportato sull’onda dei millenni.

Privo di lei ogni pensiero è muto,
vaghi anche i desideri e le passioni,
il gesto privo di significato
nel groviglio dei casi della vita.

La materia domata dall’artista
Realizza le forme della fantasia,
ma Michelangelo scagliò il martello
sul ginocchio al Mosè che non parlava.

Ogni animale lancia i suoi segnali,
costruisce la sua tana o il suo nido,
ma senza le ragioni del suo fare,
nemmeno il pappagallo col suo verso.

Compagna della specie nella lotta
per ritagliarsi spazio in questo mondo,
trovare un nome alle sue esperienze
e frugare il segreto del genoma.

Nelle contese lama di coltello,
sulle ferite goccia di rugiada,
per i potenti vale pace e guerra
e diritto di tutti a protestare.

In mano Spartaco brandì la spada
lanciando il grido di liberazione
e l’uomo celebra la sua potenza
assimilando dio alla parola

 


 

Come il mare

 

<<Dai, Lillicu, da oggi vieni con babbo ad aiutarlo con le pecore. Vedrai quanto ti divertirai>>.

Ambrosu tutta la sofferenza se la tiene dentro. Osserva i suoi sette figli, ma soprattutto Lillicu, il più piccolo.  Il suo affetto e la sua fatica sono stati sempre per loro. Ma lui sa solo allevare un gregge, mentre ai figli ha sempre pensato lei. <<E ora come faccio?>>

<<Babbo, lascialo qui Lillicu, che tanto lo sappiamo guardare anche noi come faceva mamma>>.

Antoni, che è il più grande e ha già diciassette anni, vuole pensarci lui alla casa perché ha imparato a preparare da mangiare e a lavare i panni da quando mamma Lisabeta si è ammalata. Siccome il babbo sta fuori giorno e notte a custodire le pecore, ora vuole essere lui a badare alla casa, che purtroppo di lavoro in campagna ce n’è poco e non può fare altro.

<<Anche se ti chiamano poche volte, tu devi essere sempre pronto; ormai i tuoi fratelli sono già abbastanza cresciuti per arrangiarsi da soli. Ma Lillicu no, lui è ancora troppo piccolo e lo porto con me>>.

Ambrosu ha deciso di tenerlo con sé il più piccolo, che ha solo sei anni, anche per fargli dimenticare in fretta la disgrazia. Perché Lisabeta l’hanno interrata da pochi giorni, poverina, che è morta per bocconi di sangue e nemmeno il dottore è riuscito a farci niente. 

Lui penserà al gregge, mentre Antoni baderà alla casa.  E poi i maschietti l’hanno imparato già da piccoli per divertimento a cercare in campagna le erbe da consumare cotte o crude e anche a cacciare qualche animale con le trappole di ferro o di spago. Le femminucce spazzano, sistemano il camino, lavano e stirano qualche capo di vestiario e fanno le commissioni. Ma Lillicu ha ancora bisogno di lui. In campagna si può divertire con i cani, con gli agnellini e così anche dentro la stalla presso la casa del padrone, dove c’è anche la stanza per il pastore. Gli preparerà lì un letto di frasche con la stuoia sopra per farlo dormire comodamente e piano piano gli insegnerà il mestiere, come hanno fatto anche con lui quando è rimasto orfano.

<<Babbo, ma per essere un vero pastore anche io devo avere la mastruca, la saia di orbace per ripararmi dal vento e dalla pioggia e per dormire all’aperto. E poi mi serve la bisaccia e un vincastro con una testa grande, così con la punta calda del coltello gli faccio i disegni come hai fatto tu col tuo. E poi ci vogliono anche le scarpe sarde chiodate, che le pecore non posso seguirle a piedi nudi >>.

<<Non ti mancherà niente, figlio mio, e diventerai un bravo pastore. Quando uno sa governare il gregge troverà poi sempre un padrone che lo paga bene e può vivere senza troppi pensieri>>. 

Ad Ambrosu si apre il cuore vedendolo così volenteroso il figlio, tutto sua madre Lisabeta, in cielo sia. Lui, pazienza. Il destino gli ha mandato questa disgrazia e ora per la famiglia deve arrangiarsi con i figli più grandicelli.

Lillicu gioca con gli agnellini e con i cani in campagna e nella stalla. Gli stessi padroni si sono accorti che è un bambino intelligente e simpatico e ogni tanto gli regalano un po’ di pane con formaggio o salsiccia e nell’ovile lo lasciano giocare anche con la loro figlioletta più piccola, che è molto vispa anche lei.

<<Tanto non hanno malizia e alla loro età possono solo divertirsi>>. 

Al primo incontro i due bambini si guardano in faccia e si fanno una sonora risata.

<<Come ti chiami?>>

<<Io Lillicu, e tu?>>

<<Io Silvia, come mia nonna, che però è morta>>.

<<Anche mia mamma è morta e l’hanno interrata pochi giorni fa>>.

<<Era giovane?>>

<<Sì, più di babbo>>.

<<Mio babbo invece dice che nonna era la più vecchia del paese>>.

Ambrosu, vedendo che i due bambini trovano subito l’affiatamento, riesce quasi a sorridere, nonostante il tormento che gli stringe il cuore. 

<<Quanti anni hai?>>

<<Io quasi otto e sono in seconda elementare, che anche se sono femmina i miei genitori mi fanno studiare per fare bella figura con la gente importante>>.

<<Io invece ne ho come le dita di questa mano più quest’altro dito, ma a scuola non ci posso andare perché devo fare il pastore, che siamo poveri>>.

<<Se vuoi te lo imparo io quello che il maestro ci insegna a scuola>>. 

<<Certo che lo voglio, e dopo chiedo a babbo di comprarmi un lapis e un quaderno per scrivere>>.

<<Ma tanto ce ne ho io anche per te>>.

Silvia ormai prova più gusto a ripetere a Lillicu quello che impara a scuola che a giocare con i cani e gli agnellini. 

<<Prima di tutto devi imparare a fare le aste, una sotto l’altra, cioè in colonna, come dice il maestro: dritte, coricate, storte da destra a sinistra e da sinistra a destra, tutte però dentro i quadretti>>. 

<<Cosa sono le aste?>>

<<Sono queste, guarda>>.

<<E destra e sinistra?>>

<<Destra è la mano per farti la croce e sinistra è l’altra. Adesso ti faccio vedere io come si fanno le aste>>.

Silvia rientra in casa dai genitori perché la chiama la mamma. Lillicu invece si siede subito al tavolo dove mangiano a fare le aste con molta attenzione. <<Dritta, coricata, a sinistra, a destra>>. E lo ripete fino a riempire tutta la pagina. 

<<Babbo, guarda se ho fatto bene il compito che mi ha dato Silvia>>.

<<Anche se non me ne intendo, mi sembra ordinato. Vedo che vi impegnate molto, però noi non possiamo darle niente a Silvia per quello che fa per te, e tu devi ringraziala>>. “In fondo però col mio lavoro le diamo molto più noi”.

<<Ma tanto siamo amici, ci divertiamo, ci vogliamo bene e a tutte queste cose che dite voi grandi non ci pensiamo>>.

Quando Ambrosu sente che si vogliono bene, pensa subito che tra un padrone e un servo ci deve essere un distacco, del rispetto, ma non affetto, che quello deve restare tra poveri e poveri e trai ricchi e ricchi.

<<Lillicu, voi non vi dovete volere bene, ma solo rispettare, che tu sei solo un pastorello e lei invece è una padroncina>>.

<<E non è lo stesso? Lei mi fa la scuola e io le faccio vedere come nascono e crescono gli agnellini e come si mungono le pecore>>. “Saranno i padroni stessi prima o poi a farvelo capire”.

A Silvia ogni giorno, appena tornata da scuola e aver pranzato, non le sembra l’ora di correre da Lillicu a insegnargli quello che ha imparato, a fare le addizioni e le sottrazioni, ma anche a guardare cosa fanno lui e il padre.

 I mesi e gli anni passano tra giochi, scuola e pecore. Solo che ogni tanto Lillicu deve anche uscire in campagna ad accompagnare il babbo e i bambini devono aspettare con premura che arrivi la sera per rivedersi nell’ovile.  

Silvia osserva bene tziu Ambrosu quando munge e fa il formaggio, mentre lui le dà anche della ricotta, come le tosa e come aiuta a far nascere gli agnellini. Anche Lillicu, che è già cresciuto abbastanza, ha imparato a fare tante cose con il padre, ma quando le pecore le fa passare tra le gambe per mungerle, tocca appena per terra con la punta dei piedi.

<<Vedrai che fra qualche mese i piedi li poggerai bene, come è capitato anche a me>>.

<<Babbo, quanto sono già alto?>>

<<Come la groppa dell’asino. Ma non avere fretta, tanto supererai anche me>>.

Silvia ascolta tutto quello che dicono e aspetta di insegnargli le cose di scuola, ma intanto inventano anche dei giochi per divertirsi. 

<<Dai, fammelo vedere come adesso sai mungere una pecora>>.

<<Credi che non la monto ancora bene?>>

<<Adesso dell’asino sei già un po’ più alto, come ha detto tuo padre>>.

<<Te lo faccio vedere subito che ci riesco. Menduedda, vieni qua. Sai, ogni pecora ha il suo nome, proprio come noi cristiani>>.

Mette Menduedda tra le gambe e comincia a spremerle le mammelle imitando il babbo. Per osservare meglio Silvia si china fino fino a sfiorargli la guancia. Si guardano, e giù una risata.

<<Lo bevi questo latte bello caldo?>>

<<Si, dammene una tazza>>.

<<Ti piace?>>

<<Ma lo sai che è buono! Forse hai imparato veramente a mungere>>.

<<Da oggi tutti i giorni riempio solo per te una scodella di latte con la spuma, che è più saporito. Ma per berlo ancora caldo devi stare qui vicina a me>>.

<<Allora dico alla serva grande che di mattina il latte non me lo deve più preparare>>. 

In campagna c’è anche tziu Mineddu a pascolare il gregge vicino ad Ambrosu, che canta molto bene ed è un grande suonatore di piffero. Lillicu lo ascolta incantato.

<<Tziu Mineddu, me lo impara a cantare e a suonare il piffero anche a me?>>

<<Ma certo, Lillicu. Ma prima devi imparare a cantare i mottetti e a costruirlo il piffero>>.

Prende dalla bisaccia un grosso coltello a serramanico, cerca tra le canne lì vicino, le controlla per bene, ne sceglie una e comincia a spiegargli il segreto per costruire un buon piffero.

<<Anche i pifferi non sono tutti uguali. Basta una canna un po’ diversa o un piccolo difetto e il suono non è più quello>>.

<<Se ha un po’ di pazienza, ci provo anch’io>>.

<<Ma certo. Però devi tentarci molte volte senza stufarti, finché non impari davvero. E ricordati che dopo il lavoro la musica è la cosa più importante, specialmente per noi pastori, perché scaccia la noia e attira la gente sia in campagna che durante le feste del paese>>.

Lillicu prova e riprova, ma tziu Mineddu continua a fare di no con la testa.

<<Lillicu, col piffero non ci siamo ancora e anche quando canti, della tua voce devi essere padrone tu e non devi farla uscire dalla bocca solo per farti sentire>>. 

<<Mi presta il suo coltello a serramanico, tziu Mineddu, che è meglio del mio?>>

<<Eccolo un segreto per un buon piffero: una buona canna senza nodi come questa, un buon coltello, un buon taglio obliquo in alto col tappo che lascia filtrare solo il fiato e i fori alla giusta distanza, come ti ho fatto vedere>>.

<<Ora provo a suonarlo>>.

<<No, devi stare dritto e in avanti, le dita devono giocare meglio sui buchi e il pollice sul foro di dietro muovilo seguendo la musica>>.

Giorni e giorni di prove, finché il ballo sardo, andimironai, lairelairelallara e gli altri mottetti della tradizione prendono forma, che è un piacere ascoltarlo, come dice tziu Mineddu stesso. Anche la voce, quando canta, è sicura e delicata. 

<<Adesso puoi andare anche alle feste, puoi fare le serenate e accompagnare i balli. E in campagna non ti annoierai>>.

<<Sto anche imparando a scrivere e a leggere con Silvia, che va a scuola, e di certo non mi annoio più a stare tutte queste ore con le pecore>>.

<<Silvia chi?>>

<<La figlia del padrone di babbo>>.

<<Ma quella è anche la tua padroncina>>.

<<Sì. Ma noi a queste cose non ci badiamo e continuiamo a chiamarci Silvia e Lillicu>>.

Dopo alcuni anni Lillicu ha imparato già tutto quello che Silvia gli ha insegnato e adesso lei gli porta anche dei libri da leggere. Il primo è quello di Pinocchio, che lo diverte molto, poi Gian Burrasca e altri ancora.

<<E allora io, che non ho altro, ti ripago con una suonata del mio piffero e ti canto dei mottetti>>.

<<Non me lo hai mai detto che suoni il piffero e nemmeno che sai cantare. Voglio proprio sentirti>>.

<<Lo faccio solo per te, Silvia, e non sarà mai troppo per tutto quello che mi insegni>>.

<<Fammeli sentire spesso il piffero e i mottetti, che mi fanno sognare>>.

Silvia si siede, socchiude gli occhi e mentre lui canta e suona sulla testa sente come una brezza leggera, quella che porta il verde e i fiori della primavera. “Lillicu, ti voglio bene”.

<<Silvia, ascolta>>.

<<dimmi, mamma>>. 

<<Abbiamo notato che sei diventata molto amica di Lillicu>>.

<<Sì, è simpatico, sa parlare, ha già imparato tutto quello che ho studiato io e in più sa mungere le pecore e le aiuta a far nascere gli agnellini. E poi adesso canta e suona il piffero e mi fa sentire tanta musica>>.

<<Ora però non siete più bambini, tu sei una padroncina e lui è solo un pastore. Lillicu è molto diverso da te>>.

<< Forse perché è maschio. Ma anche se non ha un’azienda e il padre è un nostro servo, noi due insieme stiamo molto bene>>. 

<<Tu devi farti altre amicizie e frequentare giovani di famiglie come la nostra. Alcuni di loro ti guardano già con interesse>>.

<<A me non m’importa nulla degli altri. Lillicu e io stiamo bene insieme e ci vogliamo restare>>.

Signora Claudia capisce tutto, ma questa figlia deve restare una padroncina. “A scuola l’ho mandata per questo, anche se è donna, proprio per farla figurare bene nel nostro mondo, altro che pastori!”.

<<Sarbadoi, lo vedi come si comportano tua figlia e Lillicu?>>

<<Sono solo due bambini>>.

<<Non sono più bambini. Silvia cominciano già a guardarla diversi padroncini, specialmente Simoni>>.

<<Senti, Claudia, vediamo allora di farla stare con questi giovani organizzando feste e ricevimenti e vedrai che di Lillicu, che è solo un pastore, si dimenticherà>>.

Signora Claudia e i figli non si risparmiano nei ricevimenti con i giovanotti delle famiglie ricche. Silvia c’è sempre, anche se sembra piuttosto indifferente.

<<Io mi diverto solo se viene anche Lillicu e se per i balli è lui che canta e suona il piffero>>.

<<Il piffero? Quello è uno strumento da scalzacani. Qui facciamo venire la fisarmonica o le launeddas. E poi Lillicu cosa ci sta a fare qui? Lui deve stare con le pecore, mettitelo in testa>>.

<<Siete voi che non capite che non c’è bisogno di essere dei padroni per stare bene insieme>>.

I giovanotti la invitano a ballare e lei si presta con tutti, non nascondendo il poco entusiasmo. “Con te, Lillicu, con te vorrei ballare tutti i giorni”.

<<Siccome ha fatto la quinta elementare Silvia si crede già una dottoressa>>.

<<No, attenzione, amici, è che in testa le è entrato Lillicu, quel servo pastore>>.

<<A parte che è un povero pastore, cosa può darle più di noi?>>

<<Niente. Sarà anche bello, ma si veste come tutti i campagnoli e sa solo mungere le pecore>>. 

La gelosia comincia a insinuarsi tra di loro. Simoni specialmente non nasconde il suo disagio perché è convinto che quella bella ragazza tocca a lui, che è il più ricco e che insieme possono formare la più grande azienda del paese.

Signora Claudia le pensa tutte per allontanare senza forzature Silvia dall’ovile dove si incontra con Lillicu.

<<Sarbadoi, facciamola uscire anche fuori dal paese a divertirsi. Io direi di portarla in città dai nostri parenti, che ne hanno anche loro di figli della sua età e sono istruiti quanto lei>>.

<<Tentiamo anche questa e vediamo. Io, in cambio dell’ospitalità, porto loro della roba che produciamo qui in azienda e che in città difficilmente riescono a trovare>>.

<<E poi possiamo anche invitarli qui per le feste importanti, che chi abita in città nemmeno se le sogna le cose che facciamo noi nei paesi>>.

Silvia in città si diverte e fa tante amicizie. La portano a teatro, cosa mai vista, l’accompagnano per le strade, tra i palazzi e dentro i negozi dove compra tanta roba, specialmente stoffe preziose e moderne per farsi dei bei vestiti e così in paese la invidieranno tutte le altre signorine. “E Lillicu sarà più fiero di me”. Con le serve e con le amiche va dai pescivendoli in riva al mare a comprare il pesce fresco, che ne hanno di tante specie, piccoli e grandi, e qualcuno anche con una lunga spada sul muso, che si chiama proprio pescespada, come c’è scritto nel sussidiario di scuola. Si fa accompagnare dagli amici sugli scogli più alti e si ferma a osservare a lungo quella immensa distesa d’acqua, che sbatte sotto di lei contro le rocce facendo una schiuma che assomiglia a quella del latte delle pecore di Lillicu e le viene quasi voglia di assaggiarla. “Come è grande il mare! e laggiù lontano il cielo e l’acqua si toccano”.  A volte l’acqua del mare le bagna i piedi e schizza sulla persona e il suo rumore le sembra la musica che certe volte Lillicu suona col suo piffero. Vorrebbe vedere anche i pesci più grandi, soprattutto i delfini e i pescecani, come ha imparato a scuola, ma le amiche le spiegano che quelli riescono a vederli solo i pescatori quando vanno lontano con i barconi, dove c’è solo acqua e cielo.

<<Forse ce la facciamo, e Silvia avrà un marito degno di lei>>.

<<Sarbadoi, sai bene che i sentimenti non sono dei portafogli o un’azienda, anche se per noi ricchi vengono prima quelli e poi l’amore, come è capitato anche a noi due>>.

<<Che importa se anche a Silvia succede la stessa cosa? E poi anche noi ci siamo voluti bene, no?>>

<<Sì, ma non avevamo la loro età e i conti li sapevamo fare, fin troppo>>.

“Quante cose ho da raccontargli a Lillicu quando tornerò in paese”.  Lui è sempre presente nei suoi pensieri e tutto ciò che vede lei vorrebbe che lo vedesse anche lui, ogni cosa che fa vorrebbe farla con lui. Di notte non si addormenta prima di avergli parlato a lungo con la faccia schiacciata sul cuscino. “Un giorno staremo insieme e ti porterò io qui a vedere come è grande il mare”.

Rientrata in paese, il giorno dopo Silvia torna all’ovile.

<<Finalmente! Pensavo che con quei i nuovi amici che ti sei fatta, qui non tornavi più e che ti eri persa in mezzo a tutta quella gente della città>>.

Silvia sorride e sta per abbracciarlo, ma lì vicino c’è Ambrosu.

<<Lì di gente ce n’è davvero tanta e ho anche fatto amicizia con ragazze che mi hanno fatto divertire. Ma mentre stavo con loro, io pensavo a te e che ti avrei raccontato tutto>>.

<<Dimmi la prima impressione che ti viene in mente, così, senza pensarci>>.

<<Il mare! Com’è grande il mare! Tu l’hai mai visto?>>

<<Una volta babbo mi ha fatto salire col gregge sul monte di Santu Mauru, che è molto alto, e mi ha indicato una striscia di luce molto lontana>>.

<<Cos’era?>>

<<Vedi, mi ha detto, quello è il mare illuminato dal sole. A me sembrava una grande lama di luce. Poi mi ha spiegato anche che ogni tanto qui arrivano quegli uccelli con le ali molto grandi, col becco lungo, che fanno craaa craaa. Vengono anche loro dal mare e cercano animali morti, uova nei nidi, insetti grandi e si chiamano gabbiani>>.

<<Non lo sapevo che quelli uccelli arrivavano dal mare. E allora pensa com’è grande se si vede anche da Santu Mauru e ci vivono uccelli così grandi>>.

Il padrone Sarbadoi, che non dimentica le parole della moglie, comincia a infastidirsi per tutta quella confidenza.

<<Ragazzi, adesso ognuno a casa sua>>.

<<Sì, padrone Sarbadoi, avviso babbo e torno nella stanza del pastore>>. 

Prima di andare via, però, Silvia gli si avvicina e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio.

<<Ti voglio bene>>.

<<E come mi vuoi bene?>>

<<Come il mare>>.

<<Anch’io, Silvia>>.

Il signor Sarbadoi e signora Claudia vogliono capire se facendola distrarre, la figlia cambia e cerca altri amici.  

<<Ti è piaciuto stare in città?>>

<<Sì, babbo, ho visto tante belle cose e ho comprato anche delle stoffe per farmi i vestiti più belli del paese. Ma il mare, com’è grande il mare!>>

<<Potrai tornarci quando vorrai se avrai un marito del tuo livello che ti potrà accontentare>>.

<<Sì, ci voglio tornare per farle vedere anche a Lillicu tutte quelle cose>>.

<<Ma come fa quel giovane ad accontentarti, che ha solo qualche pecora?>>

<<Ma io sono la figlia di un grande proprietario, o no?>>

Marito e moglie si guardano sconsolati e capiscono che Lillicu è ormai parte di lei e che non sarà facile separarli. Allora il padrone ci tenta in altro modo.

<<Senti, Ambrosu, mia figlia e tuo figlio si sono incontrati da bambini e si sono frequentati divertendosi e anche studiando insieme. Ma ora che sono cresciuti, tra loro sembra nato un sentimento che tu sai bene che nella mia famiglia non lo possiamo accettare. Qui non si è mai visto che una padroncina si metta con un pastore. Cosa può dare lui a lei?>>

<<Sì, signor padrone, e anche io gliel’ho spiegato a mio figlio, ma lui non ne vuole sentire>>.

<<E allora dobbiamo trovare il modo di spezzare la loro amicizia. Per adesso facciamo così, Lillicu qui nell’ovile non ci viene più e le pecore le accompagni fuori tu e con lui le portate a pascolare e poi, al rientro, tu le porti di nuovo dentro, ma lui torna a casa tua e qui non deve mettere piede. Tanto è già grande e ormai se la sbriga da solo>>.

<<Sì, signor Sarbadoi, anche se adesso ad avere bisogno di lui sono io>>.

<<Ti sei sempre arrangiato bene. In fin dei conti devi badare al gregge solo qui nell’ovile, mentre in campagna ci pensa lui>>.

<<E non è poco. Il gregge è grande. Fino alla disgrazia della mia povera Lisabeta avevo quell’altro ragazzino come aiutante, che ho dovuto lasciare andare per prendere Lillicu e tenerlo vicino, piccolo com’era. Dunque da oggi devo fare tutto da solo, uscire col gregge per consegnarlo a Lillicu e dopo riportarlo all’ovile, mungere, preparare e pulire le stalle, curare le pecore, assisterle quando figliano e sbrigare altri lavori che richiedono tempo e fatica>>.

<<Ambrosu, in campagna resta ancora come aiutante tuo figlio. Non c’è altra soluzione. A meno che non lasci anche tu il mio gregge e io cerchi un altro pastore>>.

<<Questo non lo voglio e a Lillicu glielo dirò. Anche se non sarà facile>>.

“Cambiare padrone? Non sarà semplice trovarne un altro per me e per lui. E poi qui sono trattato bene e ormai il padrone sta dando anche a lui la paga dell’aiutante”.

<<Lillicu, babbo ti deve dire una cosa>>.

<<Dimmi, babbo>>.

<<Quando sei venuto qui avevi sei anni e con Silvia ti divertivi come tutti i bambini. Ma adesso sei già grande, sei il mio aiutante e per questo sei anche pagato>>. 

<<Babbo, ho capito, io Silvia non posso più incontrarla perché lei è ricca e noi siamo solo dei poveri servi. Ma lei fa parte di me e i soldi non ci interessano. Possiamo andarcene insieme anche senza niente e ricominciare un’altra vita>>.

<<Ma Silvia è guardata dai giovani ricchi del paese e non solo, e i padroni non accetteranno mai che voi due vi facciate una famiglia insieme. La tradizione e l’educazione non lo permettono. A ognuno la sua sorte, da quando nasce>>. 

<<Qual è allora la mia sorte? Essere nato povero, restare povero e quindi non potere stare con lei?>> 

<<Col signor Sarbadoi abbiamo deciso che d’ora in poi tu le pecore le porti solo in campagna e qui nell’ovile non entri più, e tu e Silvia non vi dovete incontrare>>.

<<Ma allora anche tu stai dalla loro parte>>.

<<Per forza, figlio mio, io devo far vivere la nostra famiglia. Quando sarà tempo, una brava giovane la troverai di sicuro>>. 

<<E va bene. Io nell’ovile non entrerò più e qui tu farai tutto da solo. Ma io Silvia non la lascio lo stesso>>. 

<<Stai attento, figlio mio, che i ricchi fanno di tutto per ottenere quello che vogliono>>.

<<Cioè?>>

<<Il padrone può mandare via anche me, e me lo ha anche fatto capire. E tu sai cosa vuol dire questo, vero?>>

<<Babbo, in quest’ovile non metterò più piede, te lo prometto, ma a Silvia non ci rinuncio lo stesso>>.

Anche Silvia si è resa conto che Lillicu nell’ovile non ci entrerà più. Ha capito quello che i suoi stanno tramando per separarli e decide che comunque al suo amore non rinuncerà. Lillicu sta già pensando come continuare a incontrarla, consapevoli l’uno e l’altro che non sarà più un gioco da bambini. 

Dalla finestra della camera che dà sulla strada lui le fa filtrare un foglietto.

“Silvia, quando senti il mio piffero, apri la porta del pagliaio della strada a fianco”. Lei si avvicina e sussurra.

<<Sì, la apro e l’accosto solo, così tu potrai entrare e staremo insieme. Ma il piffero, attento, solo un respiro, che babbo e mamma ci stanno spiando>>.

<<Fidati, Silvia>>.

Intanto signora Claudia si dà da fare con feste e ricevimenti. Ad ogni anniversario, ad ogni compleanno, ad ogni festa, importante o meno importante, i giovani ricchi del paese si ritrovano nel salone dei ricevimenti a banchettare e a ballare. Silvia è sempre presente, ma non dà mai molta confidenza. Si intrattiene con tutti come vuole l’educazione, mentre i giovanotti fanno a gara per farsi notare con battute di spirito, cantandole dei mottetti e invitandola al ballo. “Balla, Silvia, pensando a Lillicu”. 

Lillicu però si trova in campagna, canta e suona, legge qualche pagina di libro per scacciare il pensiero di quei giovani ricchi che le girano intorno. E li immagina tutti ben vestiti, con scarpe da signori e un profumo di cipria sulla persona. Ma nel pagliaio, durante i loro incontri segreti, Silvia a lui dà tutta se stessa.

<<Come il mare, Lillicu, come il mare ti voglio bene>>.

<<Anche io ti voglio bene come il mare, se non esiste qualcosa di più grande>>.

<<Nessuno ci separerà, nessuno di quei signorini vanitosi che mi stanno intorno>>.

<<Sono geloso, Silvia, e qualcosa la farò per rompere finalmente il nostro segreto>>.

<<Cosa stai pensando? Attento, che se sbagliamo una mossa la paghiamo cara>>.

<<Qual è la prossima festa che farete?>>

<<Quella di sant’Ambrosu del sette dicembre, che è anche l’onomastico di tuo babbo>>.

<<Quello sarà il giorno giusto, e sono contento che sarà proprio la festa di mio babbo. Ma per te sarà una sorpresa. Non chiedermi di più>>.

Si stringono forte, si baciano con passione e Lillicu si affaccia per controllare che qualcuno non lo veda uscire dal pagliaio.

La sera di sant’ Ambrosu tutta la ricca gioventù del paese si ritrova a casa del signor Sarbadoi per i soliti festeggiamenti. Allegria e risate favorite dalle bevute, note di fisarmonica e striscio di scarpe sul pavimento a ritmo di musica. Il solito corteggiamento alle ragazze e una stretta guardia di Simoni a Silvia. “Da oggi deve capire che è destinata a me”. 

Appena tramonta il sole Lillicu consegna il gregge al babbo e si piazza presso la parete del salone delle feste, che lancia risate, musica e canti dalle finestre aperte. Appena la brigata interrompe il chiasso per buttarsi sui dolci e sulle bevande, “Questo è il momento”, intona alcuni mottetti e col piffero suona il ballo tondo andando avanti e indietro lungo il muro del salone.

<<Chi sarà?>>

<<Però, suona bene>>. 

Tutti si fanno alle finestre e qualche donna lo applaude. Silvia si avvicina con calma, mentre Simoni e qualche altro padroncino nemmeno si muove. 

<<Come il mare, Silvia>>.

<<Come il mare, Lillicu>>.

La musica del ballo tondo continua finché Lillicu svolta all’angolo e il piffero suona sempre più lontano. Adesso è tutto chiaro e Silvia non si aspetta i complimenti. La festa stenta a riprendere, dolci e bevande vengono ignorate, mentre solo lei ne consuma a soddisfazione. Alla fine solleva da sola il bicchiere di cristallo per il brindisi finale.

<<Alla prossima>>.

I padroncini, e Simoni in particolare, fingono indifferenza, le voltano le spalle, stringono mani ed escono parlando tra loro concitatamente.

<<Ci ha fregati tutti>>.

<<Questa è solo la prima parte della commedia, vedrete>>.

<<Ci vogliamo far umiliare da un pastore?>>

<<Macché, sarà lui a pagarla come si deve e non si farà più vedere>>.

Signor Sarbadoi e signora Claudia non sanno cosa dire e cercano tutti gli argomenti per non far fallire la festa, mentre Silvia e i fratelli rivolgono un sorriso e qualche parola a tutti gli ospiti stringendo loro le mani mentre si congedano.

<<Signorini, naturalmente le feste non finiscono oggi. Solo con la morte finisce tutto>>.

<<Qui continuerete a divertirvi con i padroncini di questa casa, maschi e femmine, con l’allegria di sempre>>.

<<Intanto siete già invitati alla prossima festa>>.

<<Stiamo pensando di farla la notte del 31 dicembre per il nuovo anno>>.

Mentre escono, i giovani ringraziano fingendo soddisfazione e non dimenticando i sorrisi d’occasione.

<<Intanto grazie per questa serata e arrivederci>>.

<<Festeggeremo il nuovo anno tutti in allegria>>.

La casa si svuota, le serve raccolgono gli avanzi del ricevimento e in casa i si raccolgono con signor Sarbadoi e signora Claudia parlando animatamente.

<<L’avete fatta la bravata tu e Lillicu>>.

<<E adesso tu, Silvia, con chi pensi di sposarti?>>

<<Io il mio uomo ce l’ho e tutti lo conoscete>>.

<<Se farai quello, non sarai più nostra parente, uscirai da questa casa e vivrai allevando le pecore>>.

<<I vostri figli non saranno nostri nipoti e perderai il diritto all’eredità della nostra azienda>>.

<<Questo non lo decidete voi, la mia parte resta a me e la famiglia ce la costruiremo con il nostro lavoro, Lillicu e io>>.

<<A questo punto è meglio che anche Ambrosu lasci il nostro ovile>>. 

<<Con quei giovani che ti girano intorno con interesse, tu mandi tutto in fumo e io non mi rassegno. Chiederò a zio Gustinu di tenerti un po’ a casa sua a Pula, così ci penserai meglio>>.

<<Gustinu poi ci ha sei figli e uno sta anche per diventare dottore>>.

Silvia si chiude nel silenzio. Si dirige nella sua camera a pensare al suo futuro con Lillicu.

Il giorno dopo Sarbadoi mette la sella al suo cavallo migliore e va dal fratello a Pula.

<<Benvenuto, Sarbadoi, quanto tempo è passato dall’ultima volta!>>

<<Questa volta ti devo chiedere un piacere molto grande>>.

Spiega al fratello e alla moglie la situazione e aspetta una risposta.

<<Guarda, Sarbadoi, tra fratelli ci dobbiamo aiutare, specialmente nei momenti difficili e Silvia può venire e fermarsi con noi per il tempo che vuole. Ci penseranno i cugini a farle compagnia e a farla divertire, che qui i bei posti non mancano>>.

<<Io verrò ogni tanto con la madre e vediamo se intanto cambia. Naturalmente alle spese ci penso io, che grazie a Dio me lo posso permettere>>.

<<Di questo non ci preoccupiamo né tu, né io>>.

Sarbadoi decide ormai di rompere ogni rapporto anche con Ambrosu e così Lillicu non avrà più nemmeno la scusa di avvicinarsi a casa sua. Ma infondo non trova il coraggio di licenziarlo, che è sempre stato un servo fidato e onesto. Riflette per qualche giorno.

<<Ambrosu, credimi, sto soffrendo quanto te, ma ti devo dire che qui non puoi continuare a lavorare>>.

<<Signor padrone, non lo faccia, anche se quei due ragazzi non si stanno comportando bene secondo le regole della nostra tradizione>>.

<<O do un taglio, o perdo>>.

<<Ma io ho una famiglia>>.

<<Lo devo fare, e per aiutarti ti lascio pascolare le tue pecore sui miei terreni. Pagherai quando potrai>>.

Ormai alla famiglia di Ambrosu restano solo le poche pecore che il padrone gli ha dato per contratto e con quelle deve pensare come far campare la famiglia. Lillicu non sta mai fermo e il gregge lo tiene fuori di giorno e di notte, che loro in casa non hanno nemmeno lo spazio di un ovile. Durante il giorno si mette a leggere e al buio si fa compagnia col piffero.

<<Senti, tu!>>

<<Cosa volete?>>

<<Niente, ma il piffero non ti serve e lo butti, che serenate non ne devi più fare, capito?>>

<<Io non butto niente. Siete voi che dovete buttare quella maschera >>.

<<Tu invece butti il piffero e ci ascolti. Conosci Silvia, la figlia del padrone Sarbadoi?>>

<<Quanto la conoscete voi, che siete venuti di notte, mascherati, proprio per lei>>.

<<Non darti troppe arie! Silvia non è per te e non l’avrai mai>>.

<<Vivrò e morrò per lei>>.

Uno dei tre lo prende per le braccia, gliele torce alle spalle e gliele lega. Lillicu scalcia, urla e si dispera perché capisce cosa sta per capitargli. Un altro lo abbranca alle gambe, gliele lega e poi tutti e tre lo sollevano e lo dondolano con scherno sulla bocca del pozzo.

<<Quello che farete vi separerà ancora di più da Silvia>>.

<<Uno, due e tre>>.

<<Silvia, come il mare!>>

Lo lasciano cadere dentro il pozzo de Is Brabariscas, che è quasi pieno d’acqua, e dopo qualche gorgoglio Lillicu cala a fondo. La mattina, come ogni giorno, il padre va da lui a mungere le poche pecore. Non lo vede. Il piffero è per terra.

<<Lillicu, dove ti sei cacciato? Lo sai che dobbiamo mungere, no?>>

Nessuna risposta. Si allontana dal gregge urlando il suo nome, che non sia andato a Gùturu Schirru a prendere fichi da quelle piante. Niente. Comincia a pensare al peggio. Torna indietro, raccoglie il piffero presagendo un disgrazia. “Lillicu il piffero o lo tiene in mano o nella bisaccia”. Cerca il figlio tra i cespugli, tra le pecore ancora accovacciate e trova il cane a terra con la testa fracassata. Allora, “Ma non può essere vero”, si affaccia al pozzo e sul fondo intravede la sagoma di una persona. “E’ lui. Maledetti”. Si mette a urlare per richiamare alcuni contadini che lavorano in zona.

<<Lo hanno ucciso. Aiutatemi>>.

Il corpo di Lillicu viene tirato su, messo su un carretto d’asino e portato a casa. Ambrosu lo segue piangendo come un bambino. La notizia si sparge subito in paese.

<<Questa è una punizione per le sue pretese su nostra figlia>>.

<<Sarbadoi, questi commenti te li puoi anche tenere. Tu che ne sai?>>

Tutti in casa di signora Claudia tacciono anche per non allarmare Silvia, che però ha intuito tutto, facendosi un’idea anche degli assassini. Entra velocemente in camera sua, si sdraia sul letto e piange, piange affondando la faccia sul cuscino fino a bagnarlo completamente delle sue lacrime.

<<Come il mare, Lillicu, come il mare!>>

Quando la famiglia si riunisce a tavola, lei non mangia e chiede di andare subito a Pula.

<<Qui non riesco più a starci>>.

<<Domani mattina andiamo, figlia mia. Oggi prepariamo il carrettone, quello a quattro ruote che è grande e comodo, e andiamo da zio Gustinu e dai tuoi cugini>>.

<<Sì, questo paese lo voglio dimenticare per sempre>>.

<<Nonostante tutto, mamma ti capisce e farà di tutto per ridarti un po’ di serenità>>.

<<Tutta la famiglia capisce quello che senti, perché l’amore è amore e non c’entra essere ricchi o poveri>>.

<<Babbo, questo lo dovevi dire prima. Il male che ho avuto in questa casa non lo dimenticherò mai>>.

Nessuno osa aprire bocca. Silvia si prepara da sola il bagaglio, la vestaglia bianca da notte e altra roba di uso quotidiano, che a Pula vuole uscire solo in campagna e andare al mare e non a divertirsi alle feste. 

La mattina è fresca, il carrettone con la copertura di giunchi è pronto. Sarbadoi e Claudia si siedono sul sedile davanti, mentre Silvia si mette alle loro spalle. Durante il percorso dentro il paese incrociano il corteo con la barella di Lillicu coperto da un lenzuolo del corredo da sposa della mamma. Sarbadoi vuole cambiare strada.

<<Segui il corteo fino alla chiesa, che Lillicu lo voglio accompagnare nell’ultimo viaggio>>.

Quando la barella sta per entrare in chiesa, Silvia lo saluta col gesto della mano e col fazzoletto si asciuga le lacrime. “Come il mare, Lillicu!”. Il carro prosegue nel silenzio dei tre. Lo sguardo di Silvia si perde nella campagna, ma la mamma capisce che il suo interesse non è per la natura.

<<Figlia mia, un po’ di fortuna ci sarà anche per te>>.

Zitta. Continua a guardare la campagna tra i sussulti del carro. I genitori parlano tra loro e ogni tanto le rivolgono la parola. Ma lei nemmeno li ascolta.

<<Figlia mia, ormai il tuo dolore è anche il nostro e spero proprio che i tuoi cugini, che sono tutti istruiti, specialmente Clemente che sta studiando da dottore, trovino le parole e i modi per ridarti la serenità>>.

<<Il tuo dolore è come morire anche per noi>>.

“Questa è la mia morte, non la vostra”.

A tarda sera il carrettone entra in un ampio cortile e si ferma presso alcune persone in attesa.

<<Ecco zio Gustinu, la moglie Caterina con i tuoi cugini. C’è anche la servitù domestica>>.

<<Pensa che sono tutti qui non solo per farti compagnia, ma per darti conforto>>.

“Il mio conforto era Lillicu”.

Scendono dal carro, si abbracciano scambiandosi il benvenuto e signora Caterina li accompagna nelle loro stanze perché si mettano a loro agio. Per Sarbadoi e Claudia c’è la stanza degli ospiti, mentre a Silvia viene assegnata una camera al piano di sopra, spaziosa, dalle ampie finestre e arredata di ogni comodità. Dalle finestre si vedono da una parte i monti e dall’altra il mare. “Il mare, come il mare, Lillicu!”.

<<Grazie, molto gentili>>.

<<Ai parenti stretti bisogna offrire il meglio>>.

<<Io e Claudia dobbiamo ripartire domani mattina, che l’azienda non possiamo abbandonarla per troppo tempo>>.

<<Silvia si fermerà quanto desidera, tanto ci sono i cugini a tenerle compagnia e ad accompagnarla dove le piacerà andare>>.

<<Io e Sarbadoi, però, ci permetteremo di farvi visita ogni tanto. Anche per rivedere nostra figlia>>.

<<Sarete sempre i benvenuti>>.

La tavola è apparecchiata e intorno si accomoda un’allegra brigata. Clemente si siede vicino a Silvia, che però resta triste e silenziosa, per intrattenerla e tirarle su il morale, lui che studia da dottore.

<<Silvia, qui a Pula ci sono tante cose interessanti e lasciamo a te la scelta delle visite che vorrai fare>>.

<<Potrai conoscere gente nuova e luoghi antichissimi che si trovano qui vicino>>.

Dopo cena si fermano per un po’ al fresco sui sedili dell’ampio cortile, ma per rispetto degli ospiti, stanchi del viaggio, si danno la buona notte e l’arrivederci alla colazione dell’indomani.

Silvia indossa la sua vestaglia bianca si stende sul letto e abbraccia il cuscino sul quale scarica tutta la sua amarezza. Il sonno è interrotto da incubi e da veglie, con l’idea continua di Lillicu. “Con te voglio stare, per sempre”. 

Ai primi rumori del mattino si alza e incontra lo zio Gustinu con la moglie, suo padre e sua madre.

<<Noi torniamo subito in paese, che il viaggio è lungo, ma torneremo presto>>.

<<I cugini saranno per te una bella compagnia. Silvia, puoi stare qui quanto vuoi>>.

La casa intanto si rianima e tutti si accomodano per la colazione. Clemente la prende poi affettuosamente a braccetto e comincia a parlarle di Pula, ma soprattutto di Nora. Escono per strada e girano per il paese.

<<Qui c’è la villa di santa Maria di Gaetano Cima, delle belle chiese e in campagna c’è la più famosa, quella di Sant’Efisio, costruita proprio dove fu martirizzato il santo, che ogni anno portano qui da Cagliari sul carro a buoi e che noi festeggiamo il tre di maggio. Qui vicino c’è la foresta de Is Cannoneris, dove la gente va a cercare erbe e animali da caccia. Di là, vedi, c’è il mare, con molte spiagge. Ma la zona più interessante, anche se ora è in rovina, è Nora>>.

<<Nora? Mi fa pensare a una signora del mio paese che ha questo nome>>.

<<Quel nome deriva proprio dal fondatore della città, il fenicio Norace, e si è diffuso in tutta la Sardegna. Se vorrai visitarla, conoscerai qualcosa di nuovo. Sempre lì, a Nora, su un promontorio roccioso, ricco di insenature, c’è la torre del Coltellazzo>>.

<<Lì voglio andare. Il mare, il mare con le onde contro le rocce e la schiuma che ti schizza addosso>>. 

<<E allora domani tutti alla torre del Coltellazzo>>.

I cugini un po’si meravigliano di questo interesse, ma Silvia è forestiera, pensano, e sceglie un po’ a caso. Clemente però pensa che “Qualche motivo deve averlo per scegliere un posto come quello”.

Al rientro passano il tempo chiacchierando di parenti e amici, visitano le dipendenze della casa con gli alloggi padronali, il giardino, l’orto e le parti destinate ai lavori agricoli. La cena conclude la giornata con tante lodi per le cose che Sarbadoi ha portato dalla sua azienda. Silvia assaggia solo, risponde alle domande, chiede anche qualcosa su Nora, sulle tombe fenicie e sul tophet, nascondendo così il suo disagio. 

Il giorno dopo il gruppo si muove dialogando animatamente fino a Nora, alla penisola e alla torre.  Silvia sale sugli scogli per prima, cerca quello più alto, osserva le onde e spinge lontano lo sguardo. La torre sembra non interessarla, mentre con i cugini preferisce staccare conchiglie dalle rocce e conservarle nel grembiule per tenere con sé un po’ di mare. Le porta in camera, le stende sul pavimento sopra il grembiule e abbraccia ancora il cuscino sfogando tutto il suo dolore.

<<Per domani, prima della torre del Coltellazzo, vi propongo una visita alla chiesa di sant’Efisio>>.

<<Che ne dici, Silvia?>>

<<Andiamo pure alla chiesa, ma poi voglio rivedere gli scogli>>.

La mattina i cugini sono in piedi pronti per la visita alla chiesa di sant’Efisio, ma lei non c’è. Bussano alla porta. Nessuna risposta. La cugina Agnese l’apre pian piano, la chiama, vi entra, vede il letto disfatto, ma lei non c’è. 

<<Deve essere uscita da sola per andare al mare. Ieri mostrava un grande interesse per rocce e insenature>>.

<<Sentite, è meglio che la cerchiamo cominciando proprio da lì>>.

Si muovono spaziando con lo sguardo da tutte le parti, la chiamano confondendo le loro voci con il rumore della risacca. Clemente a un certo punto ha un sospetto. Sale sugli scogli e guarda in basso, finché in una delle insenature non scorge una sagoma bianca mossa dall’onda.

<<Che qualcuno torni a casa e corra col cavallo più veloce ad informare la sua famiglia>>.

Questa notte, più delle altre, infatti, per Silvia è stata un tormento di incubi, una disperazione senza fine, un pianto senza sfogo. Si alza e alla luce della luna, sotto una cappa di stelle che all’orizzonte si confondono col mare, percorre il cammino verso gli scogli. Sale sul più alto, contempla per alcuni minuti le onde che sembrano giocare con quella luce, chiude gli occhi e fa un passo nel vuoto.

<<Come il mare, Lillicu!>>

 


 

Casa paterna

Ogni tanto percorro quel cammino
che riporta i miei passi in fondo al vico
oltre la soglia senza chiavistello,
tetti crollati e muri scalcinati.

Passi lunghi tra sterpi e il melograno
e altre piante incolte del cortile
strappando ragnatele alla memoria
alla ricerca di antiche impronte.

Echi sommessi nelle stanze e il comò
dei segreti frugati di nascosto,
il letto grande sul quale il genitore
ingaggiava la sfida con Morfeo.

Nella stanza assegnata alle sorelle,
affastellate in cerca di riposo,
litigi per trovar la posizione,
finché il sonno vince la battaglia.

Nel vano destinato alla cucina
voci intrecciate a tintinnio di piatti,
camino stretto e tracce di fuliggine,
graffiti a carbonella alle pareti.

In primavera dall’incannucciata
sbirciate di lucertole indiscrete,
pigolio tra i rami e nelle brecce,
con il solito geco sullo stipite.

Lo spiazzo animato del cortile,
crocevia della fauna casalinga,
confusa con la ridda dei miei giochi,
mentre i gatti scorrazzano sui tetti.

Razzolio di galline starnazzanti
e il maiale fetido di brago,
i conigli con fare sospettoso
e ogni tanto tubano i colombi

Più di tutti lei rompe il silenzio,
la mia Flora degli anni dell’infanzia.
Mi ammetteva a coccolar la cucciolata
nel solito rifugio sotto il forno.

Allontano i fantasmi e torno indietro
rimuovendo l’astuzia del rimpianto,
seppellendo tra cure quotidiane
quella vita che mi ha dato vita

 


 

Fu la fine

Il sole si è spento all’improvviso
durante un pomeriggio dell’estate
per Michele, che volava con la Yamaha
sulle strade tortuose del Gerrei.

Sogni e progetti ha inghiottito il buio,
e la luce ora spenta nei suoi occhi
ha abbandonato anche la sua sedia,
ancora calda della sua presenza.

Non ha chiuso la porta della camera
per la fretta di correre per strada,
conclusa sotto il velo del sudario
senza vestire l’abito da sposo.

Straziato dallo strazio dei parenti
cammino pensieroso tra la folla
percorrendo la via del cimitero
con tormento e lacrime a ogni passo.

Un gruppo di persone alla mia destra
elabora il suo lutto chiacchierando,
ma io devo masticare fil di ferro
non trovando uno sbocco al mio tormento.

M’avvicino al gruppo delle pie donne
che biascicano il rosario salmodiando,
intercalando il requiem non col gloria
ad ogni posta di dieci avemarie.

Intanto mi ritrovo in camposanto,
requie per sempre al sonno di Michele
assieme a quello degli altri trapassati,
e la gente che dà le condoglianze.

Mentre mi avvio all’uscita del sacrario
per affrontar di là la mala bestia,
osservo vecchie foto sulle lapidi
che seguono attente i passi miei.

Mani invisibili toccano le spalle
tirandomi la giacca e la camicia
a ricordare tra pietà e preghiere
la sorte della mia precarietà.

E dall’angolo laggiù una risata

 


 

Passione vana

Forse sorpreso dai capelli biondi
la conduco per mano sulla pista
a ballare al ritmo di un tango
il lento veloce veloce lento.

Dai vestiti trapassa sulla pelle
il flusso lieve della melodia,
unendo alle lusinghe di Afrodite
vibrazioni veloci a tutto il corpo.

Vaga la nostra mente senza meta
energia libera oltre la materia
mentre l’orchestra batte in sottofondo
il lento veloce veloce lento.

Intanto il sangue spinge nelle tempia
marcando in chiaroscuro la cadenza
antioraria dei passi nella sala,
morso vano al galoppo delle ore.

Abbozzano le labbra una promessa
di passione e voglia di domani
poi che il batterista smetterà il ritmo
del lento veloce veloce lento.

Allora ci stringiamo petto a petto
per trattenere ancora la chimera
nella ressa di altri sognatori,
cercando di rubare tempo al tempo.

E intanto si spengono le note
sciogliendo insieme il nodo delle braccia
con la fine dell’ultima battuta
del lento veloce veloce lento.

 


 

Mito e fantasia

 <<Guarda, babbo, questa notte la gatta ha fatto i gattini>>. <<Una bella covata, Antonicu>>. <<Questo qui è grande più del doppio degli altri e li caccia via quando si avvicinano a succhiare. E allora lo chiamo subito Satzagoni>>. <<In questi casi, nello sforzo del parto mamma gatta per lo più ci lascia la pelle. Ma si vede che questa è forte e l’ha scampata. Vuol dire che gli altri li faremo crescere col latte delle pecore. Intanto teniamoli dentro il nostro alloggio, che fuori girano cani randagi, volpi, donnole e altre bestie pronte a farsene un boccone>>.

 Così Bastianu munge qualche ciotola di latte in più che Antonicu porta ai gattini. Ma Satzagoni, appena li vede avvicinarsi, li impaurisce per bere anche quello tutto lui. <<Miaooo…grrr…>>.  Il pastorello però lo trattiene a costo di graffi e morsi per dare il tempo anche agli altri di nutrirsi. <<Questo gatto diventerà grande quasi come un agnello, sarà violento e assalirà gli altri animali anche in campagna>>. Infatti, abbastanza cresciuto, Satzagoni comincia a uscire fuori, difendendosi, aggredendo e rientrando con qualche preda tutta per sé. Si arrampica sugli alberi per scovare i nidi e azzannare gli uccelli e insegue le altre bestie, che si nascondono nelle loro tane o nel folto della vegetazione. I gatti suoi fratelli lo temono e preferiscono stargli lontano a giocare tra loro e con la mamma e a cacciare i topi e le lucertole che vi hanno fatto il nido. 

Antonicu però vuole domarlo Satzagoni, che non deve averla vinta lui. Ci tenta avvinghiandolo per legarlo al piede del tavolo. Niente da fare. Lui si libera mordendogli le mani e graffiandolo con rabbia. <<Miaooo… grrr…>>. <<Antonicu, questo non è come gli altri, gli antichi lo chiamavano gatu mioci perché, oltre che grande, è selvatico e violento, ma per fortuna di questi ne nasce uno ogni morte di papa. Vuole vivere solo e sono le altre bestie a temerlo e a difendersi da lui. Si arrampica sugli alberi e a terra fiuta dappertutto per scovare tane e nascondigli. E’ meglio lasciarlo andare e semmai stare attenti agli agnellini, perché aggredisce anche quelli, e qualche volta anche i bambini>>. Antonicu sente un brivido, ma col babbo fa il coraggioso. <<Che ci provi con me>>. <<Attento, figlio mio, che queste bestie assalgono all’improvviso e il tuo coraggio serve a poco>>. 

Una mattina Bastianu e Antonicu trovano dentro il loro alloggio tutti i gatti sgozzati, mentre Satzagoni non c’è, segno che ormai ha abbandonato per sempre il posto in cui è nato e cresciuto. <<Ha seguito il suo istinto e ora bisogna considerarlo un nemico pericoloso>>.

Bastianu, dato che su gatu mioci è in giro e fa paura anche ai cani da guardia, <<miaoooo…grrr…>>, ha qualche preoccupazione per il figlio che ormai è già suo aiutante e vorrebbe lasciarlo a custodire il gregge le notti d’estate per consentirsi di trascorrere qualche ora in famiglia ei dormire sul letto matrimoniale, come gli altri pastori. <<Antonicu, ora sei il mio aiutante e hai undici anni, conosci le pecore una per una anche di nome, sai pulire l’ovile e preparare la lettiera e fra non molto sarai più alto e potrai anche mungere, tosare e governare il gregge. Il coraggio di stare solo i non ti manca anche se in giro c’è su gatu mioci, vero?>>. <<Certo, babbo, non ti preoccupare, non sono più un bambino>>. <<Da oggi e per tutta l’estate di sera andrò a casa e rientrerò qui la mattina a mungere le pecore. Tua mamma e tua sorella verranno con me a prendere il latte e tu rientrerai in paese con loro. A pascolare e ad abbeverare il gregge ci penserò io durante il giorno. Tu torna verso il tramonto e gli animali li troverai già nella stalla>>. <<Tanto adesso gli agnellini non ci sono ancora, che nascono a dicembre, e su gatu mioci andrà a cacciare da altre parti>>. <<Prima di ritirarti nel nostro alloggio, ricordati di fare quello che faccio sempre io, di bloccare l’ingresso dell’ovile con quel licio bello spinoso che ho ammucchiato vicino e la porta del nostro alloggio chiudila col chiavistello, che non si sa mai>>.  <<Babbo, hai più paura tu di me. Vai tranquillo e a domani>>.Bastianu si carica la bisaccia sulle spalle con una lepre cacciata al laccio e un po’ di erbe fresche per la cena, dà un bacio al figlio e si avvia in paese. Il ragazzo lo segue con lo sguardo finché non sparisce tra i mirti, i corbezzoli  e la fantasiosa vegetazione della macchia. 

<<Miaooo…grrr>>. “Il gatto selvatico sta girando da queste parti”. Antonicu stipa subito il licio all’imboccatura dell’ovile, entra in fretta nella sua stanza e chiude la porta col chiavistello. Il sole è ormai calato da un po’ e dalla finestrella penetra appena un po’ di luce. Accende la lucerna e cena con una fetta di formaggio e di ricotta, un po’ di pane e frutta, che in campagna ce n’è molta, e si organizza per la notte stendendo una sull’altra due stuoie, la sua e quella del padre, e ripiegando il sacco di orbace e la mastruca per poggiarvi la testa. Si toglie le scarpe chiodate e la fasciatura di panno ai piedi che ammorbidisce il contatto col cuoio, slaccia i gambali, spegne la lucerna e si sdraia per dormire. Ma il pensiero del gatu mioci, gli strepiti delle donnole, delle faine, dei ramarri, delle civette, dei gufi, dei barbagianni che gli arrivano da fuori e le scorribande dei topi e delle lucertole che nel buio gli passano anche addosso lo tengono sveglio. Sperando di prendere sonno si gira verso la finestrella su in alto cercando compagnia nella tenue luce della luna. 

D’un tratto vede entrare e volare un uccello poco più grande di una tortora, vestito di luce. Ne resta sorpreso. Mai vista una cosa del genere. Però non può essere un uccello, con quella luce può essere un angelo o, come dicono i grandi, anche un diavolo che si traveste da angelo per prendersi l’anima delle persone. Per riconoscerlo bisogna guardargli i piedi, che non li nasconde mai. Se ha le zampe con le grinfie è senz’altro un demonio. “Non starò sognando?” La strana tortora a un certo punto vola su di lui e la può osservare da vicino e rendersi conto che non si tratta di un uccello, ma di una donna, più piccola di un neonato, vestita di luce, che sa anche parlare. Spande per la stanza un bell’odore di mirto e, fermandosi su di lui, gli sussurra qualcosa con voce soave. <<Non temere, Antonicu, sono una jana e sono venuta a visitarti perché un giorno la tua anima sarà mia e tu vivrai per sempre nel mio regno. Mi chiamo Selene, perché mia madre è la luna e mi ha concepita con la luce>>.  <<Allora sei anche una regina. Ma buona o cattiva?>> <<l’una e l’altra, quando serve>>. 

Selene vola via e solo allora il ragazzo dorme di un sonno profondo e tranquillo. La mattina il babbo, la mamma Silvia e la sorella Marcella devono battere con insistenza alla porta per svegliarlo. <<Non sarà capitata qualche disgrazia al bambino?>>  <<Macché, mamma, a quell’età i ragazzi dormono profondamente>>.  Antonicu si sveglia finalmente dall’incantesimo della jana e si alza per aprire la porta. <<Non riuscivamo a svegliarti e tua madre ha pensato che fossi morto>>. <<Macché! Ieri, prima di addormentarmi, è entrata nella stanza una donna poco più grande di una tortora, vestita della luce della luna, che mi ha parlato e mi ha fatto dormire>>. Bastianu ha fretta, che il latte deve arrivare fresco in caseificio. <<Lasciamo stare le chiacchiere. Piuttosto, Antonicu, avvicinami le pecore una per una, così ci sbrighiamo>>. Il ragazzo ubbidisce e in poco tempo i recipienti sono pieni. Silvia e Marcella se li caricano uno ciascuna sul panno arrotolato sulla testa e rientrano in paese assieme al fratellino. <<Babbo, sarò qui stasera, come d’accordo>>. <<Va bene, ti aspetto>>.

Durante il cammino Silvia e Marcella vogliono capire meglio del sogno di Antonicu. <<Mamma, non era un sogno. Ero ancora ben sveglio quando dalla finestrella è entrata quella donnina luminosa, che mi ha parlato con voce delicata dicendomi che un giorno la mia anima andrà a stare con lei nel suo regno>>. <<Oiamomia, figlio mio! Quella è una jana, di quelle che abitano ancora nelle grotte di Is Concas. Dicono che le janas stanno scomparendo e questa deve essere una delle poche che esistono ancora. Esce solo di notte e, se trova qualche finestra aperta, entra nelle case volando silenziosa e cerca bambini, meglio se in culla. Ne prende l’anima e abbandona il loro corpicino senza vita. E non è buona, ma cattiva e non devi credere a quello che dice. Se torna, tu fatti subito il segno di croce. D’ora in poi, siccome teme le cose sacre, ti porterai sul petto un crocifisso benedetto e quando si ripresenterà, tu mettiglielo proprio davanti agli occhi>>. <<A me non è sembrata cattiva ed è riuscita a farmi dormire nonostante lo strepito degli animali notturni e la mia paura per su gatu mioci>>. Anche Marcella è preoccupata e fa tante raccomandazioni al fratellino. <<Se esci a controllare il gregge, sta’ attento a Satzagoni e alla jana, che di buone non ce ne sono e su gatu mioci ti può assalire quando tu non te lo aspetti>>.

La sera Antonicu torna dal padre ancora a luce. <<E non confondere quello che vedi da sveglio con quello che sogni. Anch’io alla tua età ne facevo di sogni strani, ma appena mi svegliavo andavo dalle pecore e a pulire la stalla e me ne dimenticavo. Ora per cena mangia quello che ti ho lasciato sul tavolo e preparati a dormire. A domani, Antonicu. E non farci buttare giù la porta per svegliarti>>.

Rimasto solo, il pastorello è preso da dubbi e da qualche preoccupazione. “Avranno ragione mamma e Marcella o babbo?”. Protegge l’imboccatura dell’ovile col licio, entra nel suo alloggio e si assicura che il chiavistello sia ben inserito. Accende la lucerna, consuma la cena, stende le due stuoie con il sacco d’orbace e la mastruca per poggiarvi la testa e si sdraia. Ma anche oggi il sonno non arriva. Anzi stanotte gli animali della campagna sembrano ancora più agitati e i loro strepiti più forti, mentre i topi e le lucertole annidati nell’alloggio si rincorrono passandogli addosso con più insistenza. “Se non arriva Selene, addio sonno!”. Però se arriva, anche se per lui è una jana buona, si farà lo stesso la croce per far piacere alla mamma.

D’un tratto sente graffiare con furia alla porta, per fortuna ben chiusa. <<Miaooo, miaooo, grrr…>>. “Questo è lui, Satzagoni. Deve aver sentito il mio odore”. Antonicu si rannicchia con la testa tra le ginocchia per farsi compagnia finché la bestia non si allontana. “Penso proprio che Selene stanotte non si farà vedere, con quel gatto che gira da queste parti. E poi cosa può fare una donna piccola come lei a quella bestia?” Mentre pian piano nella campagna torna il silenzio, Antonicu cade in un sonno profondo, perché gli è bastato pensare a lei per sentirsi tranquillo. E sogna che Satzagoni e la jana si affrontano. Ma lei vola alto e il gatto selvatico, anche saltando e arrampicandosi sui muri, non riesce nemmeno a sfiorarla. Si sveglia. “Questo può fare”. 

Un tocco alla porta e si alza subito per far entrare il babbo, la mamma e la sorella. <<Anche stanotte è venuta la tua amica?>> <<No, ma si è fatto vivo su gatu mioci. Miagolava e grattava la porta e allora per paura mi sono accovacciato sul sacco d’orbace e sulla mastruca finché se n’è andato. Poi ho pensato alla jana, mi sono addormentato e ho sognato Satzagoni che cercava di acchiappare Selene, ma non riusciva nemmeno a sfiorarla>>. <<Povero figlio mio. E’ proprio vero che di notte gli spiriti cattivi si scatenano contro le anime innocenti. Gatu mioci e jana insieme, più di così! Ma tu prega, che nessuno è più forte di Dio e lui ti proteggerà>>. <<Silvia, alla sua età le fantasie e i sogni come questi sono molti. Non fargli credere che tutto quello che sente e vede è vero, altrimenti crescerà pauroso e resterà sempre attaccato alla tua gonna. Su gatu mioci cerca altri animali, le janas non esistono più e basta. Io sono cresciuto in campagna e tutto questo non l’ho mai visto>>. <<Babbo, ma su gatu mioci esiste e tu lo conosci bene, che è nato proprio qui, le janas lo stesso, che fin dall’antichità i nostri vecchi ne hanno raccontato>>. <<Anche gli antichi avevano le loro fantasie. Ora riprendiamo il nostro lavoro, che il latte dovete portarlo in caseificio col fresco del mattino>>. Antonicu avvicina le pecore al padre, che le munge e in breve riempie i recipienti che le donne si caricano sulla testa per portarlo in caseificio. <<Allora a stasera, Antonicu>>.

<<Ma allora su gatu mioci è sempre in giro>>. <<Sì, Marcella, e noi pure dobbiamo stare attente, anche se siamo grandi>>. <<Dicono che quando questi gatti non sono stati allattati solo dalla madre si lasciano imbrogliare dall’odore del latte>>. <<Meno male che la madre non è morta quando l’ha partorito. Ma povere noi, che ne abbiamo ben due bei recipienti che possono attirarlo. Versiamone un po’ per terra e andiamo via in fretta>>. <<Io però sono sicuro che mi difenderà Selene>>. <<E chi sarebbe questa Selene? Che nome strano hai inventato figlio mio!>>. <<Non l’ho inventato, me lo ha detto lei che si chiama così perché è figlia della luna>>. <<Mi viene da pensare che ha ragione tuo babbo, che hai molta fantasia. Comunque la croce fattela sempre quando la vedi e stasera ti do un crocifisso benedetto>>. <<Mamma, se è solo una fantasia non servono i segni di croce e i crocefissi>>. <<Non si sa mai, Marcella. Meglio che qualcosa di benedetto ce l’abbia>>. Le donne camminano in fretta guardandosi intorno e ad ogni rumore rabbrividiscono pensando a Satzagoni. Antonicu invece si sente più scuro e per la prima volta lui è più coraggioso dei grandi. <<Non temete, tanto ci sono io>>. Arrivati in paese portano il latte in caseificio e tornano a casa. Silvia fruga subito i cassetti per trovare il crocifisso benedetto dal parroco proprio il giorno del suo matrimonio. <<Eccolo. D’ora in poi tienilo sempre appeso al collo, che ti salverà sia dalla Jana con quel nome strano, sia dal gatu mioci>>. <<Va bene, mamma, ma solo per accontentarti>>.

Di sera Antonicu torna come al solito all’ovile a sostituire il babbo. <<E non stare a pensare a quelle cose strane come le janas, che non esistono più da tanto tempo. Chiudi gli occhi e dormi>>. Il pastorello ora è più sereno e de su gatu mioci, dopo quel sogno di Selene che si libera di lui, non ha più paura. Come le sere precedenti sbarra l’entrata dell’ovile col licio ed entra nel suo alloggio chiudendo la porta col chiavistello, consuma la cena che gli ha preparato la mamma, stende le stuoie col sacco d’orbace e la mastruca e si sdraia con lo sguardo alla finestrella. Ed eccola entrare la jana e volargli intorno col suo profumo di mirto. <<Ti aspettavo, Selene>>. <<Bravo, da te non mi allontanerò più. Hai visto che bella luna c’è in cielo?>>. <<Sì, con la tua luce illumina tutta la stanza>>. <<Anche tu vivrai sempre nella luce e giocherai nel giardino della mia reggia, dove troverai i bambini che ho già portato su>>. <<Ma non abiti nelle grotte di Is Concas, come dicono i grandi?>>  <<No, Antonicu, io esco solo di notte con la luna e lì ci vado solo per proteggermi dalla luce del sole di giorno quando scendo sulla terra a cercare le anime dei bambini>>. <<Io mi faccio la croce lo stesso e ti faccio vedere il crocifisso benedetto, come mi ha detto mamma>>. <<Non ascoltare certi consigli. Ti ho detto che sono buona e cattiva. Buona con chi sa amare, cattiva con chi odia e fa del male>>.  <<Io voglio bene a babbo, a mamma, ai miei fratelli e ai parenti. Invece ho paura degli uomini che ci picchiano e ci sgridano. Voglio bene agli animali e mi piace stare con le pecore assieme a babbo. Ma il gatu mioci lo temo, che mi graffiava già quando era piccolo se difendevo i suoi fratellini per farli succhiare o quando gli portavo il latte delle pecore e li cacciava per berlo tutto lui. Un giorno io e babbo abbiamo trovato qui dentro i gatti e la loro mamma tutti sbranati>>. <<Antonicu, io sono una fata, che voi chiamate jana, e sono qui per proteggere i bambini buoni, che sanno solo amare. Tu sei uno di quelli e stanotte la tua anima la porterò con me sulla luna e vivrai nella luce. Il gatu mioci non potrà più fare del male>>. <<E a babbo chi lo aiuta con le pecore?>>. <<Non ti preoccupare. Lo aiuterà Iagu, Il tuo fratellino piccolo. Con la tua luce guiderai lui e proteggerai la tua famiglia>>. 

Intanto, pietra dopo pietra, Satzagoni si arrampica verso la finestrella dell’alloggio fiutando l’odore di Antonicu. Con un ultimo balzo sale sull’imboccatura e si affaccia. <<Miaooo…grrr…>>. Un balzo ed è dentro. Selene vola verso di lui, gli gira intorno più volte finché riesce a catturare il suo sguardo. L’animale poggia sul pavimento le zampe posteriori per balzarle addosso, ma gli occhi della jana lo immobilizzano in quella posizione trasformandolo in una statua di ossidiana, nera come la sua cattiveria. <<Ora non farà più male a nessuno. Adesso tu sdraiati, abbassa le palpebre per un sonno da cui sulla terra non ti risveglierai, mentre la tua anima mi seguirà sulla luna>>. Il pastorello, preso da un senso di pace, si sdraia, si rilassa e si sente salire in alto con Selene, sempre più in alto, verso la luna, mentre sul giaciglio resta il suo corpo con un sorriso sulle labbra.

Puntuali come ogni mattina Bastianu, Silvia e Marcella arrivano all’ovile. Il babbo bussa con delicatezza alla porta. Nessuna risposta. Ci tenta con più forza la mamma. Niente. Silvia batte con le due mani. Niente lo stesso. Allora cercano di forzarla spingendola insieme a spallate. Tutto inutile. <<Ho la sensazione che questo non è solo un sonno profondo>>. <<Santa Maria mia, può essergli capitato qualcosa. Bastianu, fai il giro e cerca di entrare dalla finestrella>>. Il babbo, in grande ansia, non se lo fa ripetere. Passa in fretta dalla parte posteriore e si arrampica tra le fessure del muro fino ad aggrapparsi al finestrino e a infilarci la testa. L’odore del mirto lo pervade e dubita che il bambino avesse ragione quando parlava della jana. Con sforzo riesce a introdursi all’interno e a scendere a terra. Lo scenario è appena rischiarato, ma lui capisce tutto e corre ad aprire la porta. La statua nera di ossidiana del gatto, l’odore del mirto e la posizione tranquilla di Antonicu fanno capire cosa è capitato durante la notte. <<Figlio mio adorato, avevi ragione, non erano fantasie le tue e ti ho lasciato solo, nonostante il crocifisso, a difenderti da certi esseri malvagi. Selene ti ha portato sulla luna lasciandoci il tuo corpo, proprio come dicevano gli antichi>>. Marcella stringe a sé il fratellino, baciandolo e carezzandolo per tutta la persona. <<Guardate, se n’è andato sorridente. Era una jana buona>>. <<Macché buona, se fa morire i bambini>>. Triste e umiliato Bastianu sbotta in un pianto dirotto, insieme alla moglie e alla figlia. <<Io, io, dovevo restare qui la notte, che mi sarei difeso da su gatu mioci e da Selene>>. <<E’ stata la volontà di Dio>>. <<La volontà della jana, mamma>>.

 


 

Crudele destino

Trentun dicembre del duemilauno
è la data incisa sulla lapide
che chiude l’apertura dei due loculi
e la vicenda di Marino e Giorgio,
fratelli in vita e gemelli in morte.

Acqua amara alla sete di un domani,
alla fame di affetto pane duro,
amarezza che brucia ogni speranza
se vivere è morire ogni mattina,
alba nuova quando morire è vivere.

Nemmeno la memoria del passato
ha rallentato la voglia della fine
quando il ricordo è freddo mattutino,
sguardi severi e carezze negate,
mentre di fuori giocano i bambini.

Forse, chissà, se la mano del destino,
togliendoli dal posto nella fila
dove in attesa ognuno è collocato,
ha voluto attuare una vendetta
del cappio usato dai progenitori.

Con l’oppressione di un dolore muto,
sfoglio mentalmente il calendario
dei giorni che non vedranno più,
fermando il mio pensiero a San Silvestro
e intuire cosa c’è dietro il sipario.

Ma i nomi con le date sulla lapide
si confondono pian piano nella mente.
Così mi volto per tornare indietro
e consegnare i volti alla memoria

 


 

Solo illusione

Quel petalo di rosa tra le pagine
di un libro d’Ottocentonovantotto,
scelto a caso sulla bancarella
di un venditore presso il Lungotevere,

lo prendo trepidante tra le dita,
messaggio di un’amante sconosciuta,
che torna per finzione del pensiero
compagna del silenzio del mio studio.

Avverto a destra della scrivania
una presenza diafana e un sospiro
che svanisce al cenno delle labbra
nel respiro timido di un nome.

Con una punta d’amarezza chiudo
il libro che ha aperto e insieme spento
un sogno, per riporlo in libreria
col petalo che si sbriciola col sogno.

Ma fiera si presenta alla finestra,
occhieggiando dall’aiuola del giardino,
rossa e viva una rosa stamattina,
proprio nei giorni freddi della merla.

Sfida il gelo pungente della brina
prendendo la sua linfa dalla luce,
ma bruciando in breve il suo colore,
figlia precoce di un’altra stagione.

Per non abbandonarla a quel destino
ne recido sollecito lo stelo
offrendole nel vaso altra speranza
nel tepore accogliente della casa

dove però si strugge di rimpianto
per il tempo che non le fu concesso,
raggio di sole e alito di vento
e sfogliarsi all’ombra dell’alloro.

 


 

La gara della vita

A crocchi la gente accorre a Santu Milanu per rivivere ad ogni vigilia della Festa Grande una tradizione che viene dalla profondità del tempo. <<Quest’anno hanno scelto dalla mandria di Nicheddu Arxolas una vitellina che non sta ferma nemmeno quando dorme>>. <<Meglio così, che i concorrenti se li devono sudare il trofeo di seta e la donna>>. <<Alcune volte giovenche molto vivaci hanno impegnato per ore o anche per tutto un giorno i cavalieri più abili del paese>>. 

Alle sei del mattino da Piscinitu arriva il branco di tziu Nicheddu, gli scapoli su cavalli di razza e sul carro addobbato il priore Àngiu Ucheddu con la prioressa Natalina, sposi da poco, accompagnati dalle launeddas di Tatanu. Seguono i quattro obrieri e le tre vice prioresse. Né manca il gruppo degli sposati per movimentare la partenza della gara. <<Guarda, c’è anche Parroi Figus su quell’angloarabosardo chiamato Lampu, prestato dal padrone Loi Seci, che l’ha anche adottato come figlio d’anima>>. <<E c’è anche Aliseu Arxolas, con Pinnigosu, un ginnetto che alla partenza è rapido come un pugno in faccia. Il padre glielo ha regalato per il compleanno, che è rimasto figlio unico dopo quella malattia alla natura che lo ha reso sterile e così se lo coccola ancora come un bambino>>. <<Allora ci divertiremo, che loro due anche in paese si contendono la stessa giovenca. Ma si sa che lei è tutta presa da Parroi>>. 

I due si guardano di sbieco gironzolando tra gli altri cavalieri e Parroi ogni tanto allunga la mano sul laccio preparato la sera prima, spalmato di grasso e sagomato in tondo in acqua nel fondo di un barile. Già prima dell’alba Parroi si alza, lo prende e lo stringe al petto. <<Aiutami a legarla a me per sempre>>. Poi si avvicina a Lampu.  <<Lampu, oggi per me è il giorno della vita, non deludermi>>. Lo prepara con i finimenti e con un bacio sul muso, cui l’animale risponde con uno sbuffo di piacere, aggancia il laccio a destra della sella e monta in groppa col frustino. Anche la madre Maria Gràtzia non ha chiuso occhio e anche lei si alza. <<Sono preoccupata, Figlio mio. Sai, dopo la disgrazia…>>. <<Vieni mamma, che ti do un bacio, oggi sarai contenta>>. 

Aliseu invece, lui che è ricco, guarda tutti con orgoglio, sicuro di vincere perché la giovenca viene dal suo branco.  Nicheddu l’ha voluta a tutti i costi proprio per lui. <<Tu non sai quanto ho brigato con gli altri proprietari per scegliere la nostra giovenca e aiutarti in quello che desideri e avere nella mandria un capo benedetto dalla Santa>>. Gli obrieri si avvicinano al branco, separano la vitellina e la portano davanti al priore. <<Avvicinatevi. Siete… uno, due, tre… tredici. Questa gara tramandata dagli antenati deve svolgersi nella massima cavalleria. Chi non osserva le regole è escluso, per rispettare l’aspirazione per cui ognuno di voi gareggia. Ricordate che la giovenca potete catturarla solo a tutte e due le corna e dopo dovete riportarla qui da me. Che vada come ognuno desidera e che vinca il migliore>>.

 Sirvestru Moi fa partire un razzo per avvisare che la gara è iniziata. Il priore pungola la giovenca e gli obrieri la incitano a fuggire. Il gruppo degli sposati invece si piazza davanti ai contendenti gesticolando e beffandoli per ostacolarne la partenza. I fantini li aggirano, ma nel baccano qualche cavallo si impenna sbalzandolo e lui lo rimonta rosso in faccia, mentre la vitella fugge a rotta di collo. Parroi trova una via di fuga e lancia Lampu al galoppo, sentendo alle spalle l’alito di Pinnigosu e di Aliseu che lo sprona. Allora si china sulla criniera del suo cavallo sussurrandogli le parole che gli danno la carica. <<Dai Lampu, sei tu il migliore>>, con un tocco di frustino e una stretta di ginocchia ai fianchi. Uccelli e altri animali, ancora intorpiditi, fuggono spauriti dal chiasso dei concorrenti e dei cavalli. La vitella si lancia negli spazi della campagna, mentre Lampu e Pinnigosu le stanno vicino fino a soffiarle sul dorso. La giovenca salta un fosso, si butta a destra e a manca, aggira mucchi di pietre, alberi e cespugli. Aliseu e Parroi quasi si sfiorano. Aliseu urla per incitare Pinnigosu, ma anche per irritare Lampu. <<Dai Lampu, sei tu il migliore>>, e il cavallo allunga la falcata lasciandosi dietro il concorrente. La giovenca intanto si incastra impaurita in un garbuglio di alberi e sterpi, ma riesce a sfuggire puntando a monte, svoltando poi per un pendio e scavalcando il muretto di uno stabbio. 

Nella mente di Parroi riaffiora allora quel fatto, mille volte sentito dalla madre già dai quattro anni, del padre agonizzante a Is Brabariscas, steso tra le pietre, la testa rotta e a fianco la berretta insanguinata. Due barracelli di guardia si avvicinano, si chinano su di lui proprio mentre pronuncia l’ultima parola e gira gli occhi dentro le orbite. <<Ma è Bissenti Figus, il capo dei servi di Loi Seci. Poverino, con un figlio di soli quattro anni. E povera Maria Gràtzia. E l’ultima parola è stata proprio Parroi>>. <<Io ho capito Ddaddoi>>. <<Lascia perdere e corri a chiamare il medico e la giustizia>>. Il cavallo di Bissenti intanto pascola tranquillo poco distante. La notizia si sparge e dal paese la gente accorre numerosa, che Bissenti era molto stimato. <<Dicono che è stato sbalzato mentre tentava di scavalcare al galoppo un muretto, perdendo l’equilibrio e sbattendo la testa sulle pietre>>. <<Non ci credo. Era un uomo prudente e di cavalli se ne intendeva, tanto che vinceva quasi sempre lui la corsa il pomeriggio della festa>>. <<Non sarà stato quel malandrino di Ddaddoi Annis, il pastore, a spaventare la bestia?>> 

Bissenti infatti, sentito più volte il padrone lamentarsi di furti di granaglie e di fave, vuole scoprire il ladro. Una sera, al rientro dalla campagna, scorge qualcuno allontanarsi veloce dalla porta dell’orto. Lo insegue e lo afferra alla mastrucca. <<Ah, sei tu, Ddaddoi! E’ questa la riconoscenza per chi ti fa lavorare?>> Gli strappa un sacco di fave dalle spalle e gli urla che dirà tutto al padrone. <<Bissenti, attento. Sai che sono povero, non mandare in malora la mia famiglia o te la faccio pagare>>. Ma Loi Seci lo caccia senza pietà.

 Il maresciallo, arrivato col pretore, allontana i curiosi, mentre il medico visita il corpo di Bissenti. <<Sfondamento cranico in regione temporale, frattura di tre costole e graffi al volto e alle braccia>>. Il pretore allora ordina la rimozione del cadavere e a trasportarlo piangendo sul suo carro è proprio il padrone, mentre la moglie Emma vuole adottarlo subito l’orfanello, poverino. Arrivato a casa, Maria Gràtzia sta per cadere rigida come un bastone, sostenuta in tempo dalle amiche Fefa e Norina. Nei giorni seguenti la donna sfoga il suo dolore ripetendo a Parroi, anche se ha solo quattro anni e poco capisce, e a quelli che incontra la sua disgrazia. Così la morte del padre è rimasta impressa nella mente del giovane, come vi avesse assistito di persona. 

La giovenca rallenta su una salita e i cavalli si avvicinano. Aliseu agguanta il laccio, lo fa ruotare per aria, lo lancia, ma aggancia un solo corno dell’animale, che se ne libera imbizzarrito allungando la corsa, mentre Parroi sta a poche falcate. <<Lascia stare, Parroi, che non è per te>>.  <<Se ci riesci, prendila>>. Sembra un gioco, ma c’è di mezzo lei, la giovenca dei loro sogni. 

La vitellina si lancia tra pendii e cespugli puntando poi verso una salita. <<Questo è il momento. Dai Lampu, sei tu il migliore>>. Lampu allunga il passo e si riporta dietro la giovenca. Parroi agguanta il laccio, lo ruota, lo lancia e la imbriglia alle corna. L’animale punta le zampe anteriori e solleva quelle posteriori per scalciare, ma lui la tira a sé con forza. <<Sei mia>>. Gli altri concorrenti gli battono le mani riconoscendo la vittoria.  A denti stretti anche Aliseu. <<Tutto regolare. Ti sei fatto onore>>. E tornano dal priore a Santu Milanu con la giovenca imbracata. La sera prima Parroi raccomanda ad Annixedda che al suono delle campane prenda il mazzo di fiori che lui stesso ha curato nel vaso e le tre spighe della croce dell’ultimo covone dategli dal padrone, vada a casa del priore e aspetti il corteo da Santu Milanu. <<Tranquillo, farò come chiedi>>. 

Durante il tragitto però lui pensa solo a Lia, mentre dietro i compagni commentano. <<Certo che Parroi a Aliseu lo scherzo glielo ha fatto. Ha preso la sua giovenca e gli ha tolto la donna>>. <<E’ il più ricco del paese, ne troverà un’altra, magari ricca quanto lui>>. <<Con le donne però non ci sa fare>>. <<Il denaro può fare tutto. E se è proprio necessario c’è anche il paraninfo>>. 

Arrivati a Santu Milanu, Sirvestru fa partire un razzo per avvisare che la giovenca è stata presa e Aròniu suona le campane per dare inizio alla festa. Àngiu Ucheddu scende a terra, consegna al vincitore il velo di seta legato a una canna verde e un po’ di soldi, secondo la tradizione. Parroi li conserva nel taschino del corpetto, poggia il trofeo sul piede sinistro e con la mano destra tiene le briglie. Alcuni uomini intanto spingono la giovenca su un carro, la fanno sdraiare sul ventre legandole le zampe per evitare movimenti pericolosi. Tziu Tatanu, dietro il priore con la moglie e gli obrieri e le viceprioresse, rallegra il corteo con le launeddas. La gente segue, ride e commenta.  <<In fondo lo ha meritato di vincere. Il suo cavallo è il più forte e lui lo sa comandare; in sella sono una cosa sola>>. <<E poi è anche un povero orfano, serio come il padre buonanima e grande lavoratore. Loi Seci lo ha voluto non solo come figlio d’anima, ma anche per dirigere l’azienda>>. <<Sarà contenta anche Lia, la figlia di Balentinu Massa, occhi da gatto e faccia d’angelo, che già si guardavano di nascosto>>. <<Ma anche Alisau è suo pretendente >>, tanto che mamma Doloreta ce l’ha col marito. <<Guarda figlia mia, se prendi Aliseu per noi è importante. Ma io ti dico di seguire il tuo cuore, perché con un uomo ci devi stare tutta la vita>>.  <<Ma va’, Aliseu con i suoi cinquecento starelli di terra dà lavoro a me e ai nostri figli perché per noi la terra è come l’aria>>. <<A me Aliseu non mi piace, è grosso, sembra padrone di tutto, ha la faccia butterata e quel desiderio scuro sotto l’occhio>>. E pensa a Parroi, al suo profilo delicato, ai suoi modi gentili e a suoi sguardi intensi che la fanno sognare.

Al portone di casa del priore c’è tanta gente in attesa.  Quando arriva il carro con la giovenca lo aprono per far entrare nel piazzale il carro, il priore, gli obrieri e le prioressine. Annixedda allora si avvicina a Parroi col mazzo di fiori e le spighe. <<Raccomanda a mamma di preparare il ricevimento per i partecipanti alla gara e di mettere il vino e il rosolio nell’acqua del pozzo per rinfrescarli, che fa caldo>>. 

Nel cortile c’è chi lucida il pelo alla giovenca, chi le mette i limoni alle corna, chi la collana di carta colorata per dare allegria e chi le sistema in fronte lo specchietto. Parroi a quel punto scende dal cavallo, si avvicina e vi aggiunge il mazzo di fiori con le spighe, chinandosi a sfiorarle il muso con le labbra. Il carro, abbellito con mirto, canne verdi e fiori, trainato da una coppia di buoi anche loro parati a festa, con i limoni alle corna e le collane variopinte tessute in cotone, si avvia seguito dal corteo per le strade che la statua della Santa percorrerà in processione al suono delle launeddas e al canto del rosario, priore e moglie davanti e dietro obrieri e viceprioresse, assieme ai cavalieri attorno a Parroi che tiene con con la destra il trofeo, mentre alle porte e alle finestre si affacciano curiose e allegre le donne che stanno sbrigando le faccende domestiche. Arrivano davanti alla chiesa e sulla rampa che porta al sagrato a Parroi aumentano i battiti del cuore. Il parroco si avvicina con i chierichetti e benedice lui e la giovenca. <<Oggi avete rinnovato una usanza sempre viva qui in paese, tramandataci dai nostri antenati. Voi giovani scapoli avete dimostrato tutto il vostro valore con una prova di grande cavalleria, anche se il vincitore è uno solo, quello che ha scelto la Madonna. Onore anche a questo animale che rappresenta non solo qualcosa che ognuno di voi ha nel cuore, ma anche una benedizione per il lavoro agricolo. A Parroi Figus auguro che il Signore lo aiuti in quello che per tradizione dovrà compiere>>. Il parroco lancia ancora acqua benedetta sul vincitore, sulla giovenca e su tutti i presenti, commossi fino alle lacrime. <<Voi concorrenti siete invitati a casa per il rinfresco>>.  Parroi riprende i fiori e le spighe e il gruppo lo segue, mentre la giovenca viene riportata sul carro a casa di Nicheddu Arxolas con tanti ringraziamenti. 

Tzia Maria Gràtzia apre la porta e fa gli onori di casa con un sorriso di benvenuto. <<Che si accomodi questa bella gioventù. Grazie dell’onore che fate a mio figlio e a noi povere donne>>. Annixedda si muove agile tra loro, con un corsetto che le fa risaltare il seno e un leggero odore di cipria sulla persona. La madre versa il vino e il rosolio nei bicchieri e lei li offre coi dolci sul piatto d’argento, sorridendo e scambiando battute. I giovanotti la osservano con piacere e anche Aliseu, con cui si scambiano uno sguardo furtivo, sembra interessato a quella figura disinvolta. Il ricevimento finisce e gli ospiti cominciano a uscire. <<Fate buona festa, tzia Maria Gràtzia e Annixedda. E a te Parroi, che quello che farai vada come desideri>>.  <<Lo stesso auguro a voi, che dopo di oggi non siete più avversari, ma amici come prima>>. Uscendo di casa anche Aliseu stringe calorosamente la mano a Parroi. 

Ma gli resta l’ultima cosa. La più importante. <<Mamma, piega il drappo di seta e mettici sopra il mazzo di fiori e le spighe>>. Lega Lampu, prende il trofeo di seta con fiori e spighe e va con passo deciso e cuore in tumulto a casa di Balentinu Massa.<<Benvenuto in casa mia, Parroi Figus, è la buona sorte che ti porta. Lo ha voluto la Madonna in un giorno come questo. Doloreta, venite che c’è Parroi>>. Anche Lia si affaccia, rossa in faccia, e Parroi le posa tra le mani il panno di seta con i fiori e le spighe. Lei se lo porta al viso e piange. Piange la madre e il padre con i fratelli hanno gli occhi lucidi. <<Questo pomeriggio vengo a prenderti e andiamo insieme a braccetto alla processione della Santa e poi a vedere le baracche>>. Eccitato, volta le spalle per andarsene salutato da tzia Doloreta. <<Vai con Dio, figlio mio>>. <<Vi accompagni sua Mamma>>.