Voyager (Mike Oldfield, 1996)
Una speciale dedica ad un appassionato, come me, della musica del grande compositore contemporaneo Mike Oldfield, che ha così tristemente commentato, in lingua inglese, sotto le note dell’album del ’96 dello stesso, sulla nota piattaforma online.
Io e mio padre
eravamo soliti
ascoltare insieme
questa musica
quando io ero soltanto un bambino
Lui morì quando io avevo tredici anni
Adesso ne ho venti
e sogno il giorno
in cui ascolterò queste melodie
insieme ai miei figli
dallo stesso polveroso giradischi
Alcuni brani
sono la miglior cura
per le lacune della memoria
Intanto
Fino a che i sogni
e le illustri speranze
ci gratificheranno dei miti
e delle nobili distanze
incoscientemente andremo
verso le immaterializzabili presenze
e quando
salendo agli alti mattini
ci vedremo dover lasciare
l’aspro cammino
intanto che speranze avranno preso
le sembianze dell’infausto destino
si scioglieranno gli ultimi fatui dubbi
e ogni antica, radicata convinzione
nel fluente, placido lago della dispersione
Testo discosto
Impossibile a dirsi
e all’immagine del tempo
quel che devi
è cancellare
dalla storia e dal mondo
perché non lacrimi
e dalle ferite in tondo
non si esaurisca
la tua vita
sul far giocondo
quando cala la sera
e non ti avvedi
non ti avvedi
dell’immensità del tuo sconcerto
errabondo
E intanto è l’istante
é l’istante che naufraga
tutt’intorno
Nell’alba
Nonostante i sogni
e i corvi sorseggino
l’alba del presente
noi indaghiamo gli immensi vuoti
immaginiamo l’estasi
ed i suoi vessilli inutili
sporgendoci
appena oltre la balaustra
del gioco, o del giorno
in istanti, secoli, o frammenti
di gioia, o di preghiera
- solo il sogno potrà rendercene bandiera
fuori tempo massimo -
intanto
indagano, gli attimi di tregua,
la vicenda, immaginifica e perduta,
del suo incessabile dispiegamento
all’ombra dei sassi
ai piedi della vertigine
in cui precipitavamo,
nella voragine del tempo
e nella sua più illusiva realizzazione
o incanto
e non ne intendevamo
l’immancabile disfacimento …
solo
all’istante
e al rimpianto, perduti, ora, e risorti
nell’alba di un impossibile firmamento
Il ricordo senza giorni
Avrei voluto che
l’ombra si stagliasse antica
come a erigere l’obelisco del tempo
nei secoli infranto
e di cui, oggi, assistiamo
alla misera parodia
in un sogno o vero pseudoincanto
addentrati nei suoi meandri
futili e fulgidi
di ieratici tabernacoli del nulla
mentre divampiamo gelidi
in giornate appiattite in un nonnulla
e firmiamo fragili eccessi
senza la consapevolezza
di quegli interminabili e finti processi
dove la tua anima si spezza
senza l’estasi di amplessi
L’assenza si fa incanto
Non sono già più certo delle frasi che dichiaro
di chi sia, sgomento, alla vicenda intento
se quell’essere ai cui sogni già declino
mi rappresenti, immoto, al largo, vasto sentimento
se quei secoli d’inversa meraviglia scorti
non sian che d’imperdibile immaginatezza astratti
voci ignifughe, incorrodibili metafisiche
Senti la notte stellata che magistrale apre il verso!
Senti l’ineffabile frammento che le tue mani sfogliano!
che non contempli e che non potrai più perdere
poiché resta fra concreto e illuso
fra imprecisabile e accertato
vero falso
non nascondibile indelineato
Come una rosa
Pura, avvincente
edonistica
ineffabile come una rosa
di primo mattino
intanto che
l’incauto viandante
del tempo,
immaginario e inesistente,
della tua felicità apparente,
sull’uscio di casa
debordante
tergiversa
interminabilmente
franando nell’ombra dell’alba
inondata di rugiada
di là nella stanza
trafitta da un raggio di luce
invadente
rosseggia una rosa
incessantemente
Dagli spalti di una Berenice
Nessuna voce cancellerà
l’assenza, dal tuo sguardo
e di giorni
che le sono piegati
à rebours,
senza speranza
Non solo
all’alba
delle cose disfatte
ma meccanicamente
incendiate
dall’anima più nera
ecco cosa giace
sotto il pergolato, acceso e
rifratto dal tempo
e dalla sua invincibile
illusione
Fatti di cielo e di marmo
immortale
ora chiudesti gli occhi
per vederne il pianto
affondare
dagli spalti
di un’eterna Berenice
di giorni e di trafitti
quadri, senza cornice
Qui le arcate
del tempo
franano
incessantemente
Epitaffio
Ognuno scrive ciò che non rammenta più
verso la sera s’impantana il blu
In fondo ai corsi ricuperati di un inverno
si passerà di volta in volta, ripetibile inferno
Dietro sé soccombe l’etereità
che ti vide a sé un mattino
di incontrastata fragilità
Sussurrano le grida di una centralina
Ora è tempo di partire, di lasciare il giorno
di entrare nell’insonorità
del dolce, intero, scabro estraniamento
verso il suo tenero seno
E’ opera incompiuta e incompletabile
l’etica che ci divide dai nostri oggetti
e si posa sul cielo
Scriverò ancora cose di un male profondo
Nell’insoluto in cui ti annulli
del tuo male inondi
Verso la sera s’ impantana il blu
ognuno scrive ciò che non rammenta più
La realtà e la Moira
Non rimpiangerò il vissuto inesistente
il mio passato
che si declina intensamente
alle albe tragiche di speranze disperse
e di infrante aspettazioni o farse
al largo del lago
al centro dell’essere
oggi sfumi
come compiuto falso storico
come distrutto incantesimo
al patibolo impiccato, di primo mattino
navighi, senza coordinate
né sestanti, e ai margini
di un abisso inconcepibile
rastremato alle tagliole del tempo
immaginerai quello che è impossibile
assumerai sentenze inconfutabili
nell’arco voltaico delle relazioni
incostituibili, ma inesplicabili
naufragherai
senza alcun salvataggio
nessuna isola da raggiungere
perché il tuo presente
ha già superato il limite
del realizzabile o del concesso
e non soggiungeranno
inaspettati soccorsi
all’estremo dei giorni
e delle possibilità
che ti furono date
dalla Moira* implacabile
e definitiva
*NOTA: «… morte, generò il Sonno, generò la stirpe dei Sogni; non giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura; e le Esperidi che, al di là dell’inclito Oceano, dei pomi aurei e belli hanno cura e degli alberi che il frutto ne portano; e le Moire e le Kere generò spietate nel dar le pene: Cloto e Lachesi e Atropo, che ai mortali quando son nati danno da avere il bene e il male, che di uomini e dei i delitti perseguono; né mai le dee cessano dalla terribile ira prima d’aver inflitto terribile pena, a chiunque abbia peccato. »
(Teogonia di Esiodo, vv. 211-222)
Le Moire è il nome dato alle figlie di Zeus e di Temi o secondo altri di Ananke. Ad esse era connessa l’esecuzione del destino assegnato a ciascuna persona e quindi erano la personificazione del destino ineluttabile.