Poesie
Le cose
Le cose sono tante cose.
le cose ci circondano
e sono sempre le stesse
a volte se ne aggiungono
altre se ne tolgono
cambiano di stile ,
forse di colore,
ma sempre loro sono.
Le guardo, le scruto
me ne circondo
e riconosco l’angolo
dove sostano, dove le metto
non dove loro vogliono
le cose non si muovono,
forse si annoiano.
Mute cadenzano
la vita che conduco.
Le cose che tante sono
Tante, e sono cose
che ogni giorno urgono
per il normalissimo
vivere quotidiano
molto ci danno
e nulla gli diamo.
In cantina
“Oggi mi annoio
- dice la sedia al divano –
nessuno è in casa,
nessuno si adagia
sul mio morbido cuscino.
Se faccio un pisolino,
dice, capace che al risveglio
su di me giocherella il loro bambino”.
Così fece, poverina, non si era accorta
che oramai scrostata i suoi padroni
l’avevano buttata.
Il divano,
in un angolo della cantina,
la guarda e pensa rattristito:
“Forse sarà lei la legna
che domani arderà nel camino,
lasciamola riposare
cullandosi, teneramente illusa,
nel suo sogno preferito.
Sarà meno doloroso per lei
scoprire che nessuno
l’ha più cercata, nessuno
la vuole più, nemmeno
come seggiolino”.
La sedia
Nel vuoto copernicano
della stanza, nell’attesa
di un moto di rivoluzione
e rotazione su se stessa
la sedia sta ferma al centro
sola è in fondo non gode
di proprietà cinetica di movimento.
Immobile scruta l’interno
Strabuzzando gli occhi invisibili
e smaniosi d’incontri.
E’consapevole della propria utilità,
ma la sua è una vita non vita.
Oggetto destinato un giorno al fuoco
ma vanitoso, non ama l’essenziale
scolpisce se stessa nelle pose
più incredibili e la storia la forgia
nella spessa cultura dell’arredo.
E’ il mio trono nel momento del
pensiero, ecco una sedia segna
pace.
Ancora qui ritorno
Ancora qui ritorno
a cercare,
tra i volti di pietra
e antichi cipigli,
gli sguardi più nuovi,
ammiccanti istanti
d’intesa.
La profonda parola
non detta,
non scritta
letta da pupilla a pupilla
mi sfugge
e vola distante,
irrequieta.
Eppure
ancora qui ritorno
mestamente assente,
solitaria,
senza alcuna parola
tra le mani,
travolta dagli eventi.
Vedo sparse per l’aria
vocali e consonanti
che desolate vagano
non raccolte,
ancora qui ritorno
mentre muta l’alfabeto
quotidiano.
© Paola Oliva
Alcuno sfugge
Non si schiva il tempo
che forza le sfere del
giorno.
Nell’aria è la gioia
sino al soffio finale
che ricorda di essere
ora
oltre la traccia del fu.
© Paola Oliva
Il caldo d’agosto
Nella piazza battuta dal sole
sola vaga un’ombra di cane
sonnolenta e avvilita.
Si muove modesta,
bramando,
in un’ombra di pioppo,
quel po’ di frescura
che sia di refrigerio
ad un corpo animale
trafitto dal caldo d’agosto.
© Paola Oliva
La parola monca
Ascolto sentenze mai pronunciate
che calano nude,
eppure lo sento che
è divelta qualcosa, lo sento
che tra il dire e il pensare
lei raschia stravolta la strada.
Versi mutilati da concetti logici,
dove fugge l’allegoria
di parole vuote, ovvie.
E come la saetta,
la folgore violenta
che il cielo nasconde,
l’idea ruvida e pensosa
che è là, proprio dietro
quello spazio contorto.
si cela, ma senza dubbio è lei,
veramente.
L’originalità s’è persa
e l’obiettivo si sposta,
con ogni evidenza.
Manca qualche cosa:
l’incognita algebrica,
il quid filosofico
che fa scrivere versi.
Un pochino più su
il poeta scrive comunque,
ma la parola è monca.
O di fuoco, o di pioggia (Piacere primordiale)
O di fuoco o di pioggia, il corpo si esalta,
o di fuoco o di pioggia.
Affogate nella linfa marina
le piante indiscrete dei piedi
saziano la sete della pelle accalorata,
e sguazzano ansiose e ribelli,
lusingando lembi di derma riarso.
Il massaggio umido della fresca battigia,
istiga i più segreti umori del corpo.
Le gocce salmastre si avvinghiano ai polpacci
risalendo fin sopra le gambe.
Languide, carezzano la coscia piena
crescendo in onde inebrianti di delizia,
viziose solleticano la linea accesa della vagina,
risalendo fin oltre la curva lunare dei fianchi.
Con fiotti veloci vezzeggiano la curva del ventre
e del corpo completo placano la sete.
La linfa sfacciata ovunque si insinua,
fila su per i seni ancor sodi e si disperde
in una memoria di latte versato goccia a goccia,
in ugole urlanti di piccoli fatti fuoco dal vagito affamato.
Poi sale verso la gola incalzata dal sole.
Adesso, minuti fremiti di piacere
saziano l’arsura del corpo sofferto
ormai sciolto in ebbrezza simbiotica col creato.
O di fuoco o di pioggia,
la linea all’orizzonte, libera e segreta,
sazia l’occhio mentre il corpo svapora
nella voluttà del luogo,
consapevole della carnalità della mente
in un gioco erotico del tutto innocente.
Riflessioni Nascoste
Riflessioni nascoste
vibrano nell’aria,
come leggere farfalle,
come tenere libellule.
Come fatue favelle
raccontate a fil di voce,
odorose di talco
e di violetta.
Minime considerazioni
nascoste,
fiabe proferite nella sera,
sfere proibite di un io segreto
che si ascolta e riflette
proiettando quel suo di se
nel cosmo abissale inconfessato
che silente il globo sovrasta,
eterno
Latte di Fico
Avevo i porri
alle dita delle mani,
li curavo con latte di fico:
carenza di vitamine
dicevano.
Era divertente
sentire quel latte vischioso
colare tra gli spazi paffuti
di dita infantili.
Pelle innocente e immacolata.
A ventosa, stuzzicata dal gioco,
la cute si saldava e slegava
al gesto istintivo
delle falangi.
Avevo i porri
alle dita delle mani,
ora non più.
Dov’è fuggito
quel latte di fico?
L’Onda
L’onda introversa del mare,
figlia indocile della schiuma
corre sfrontata alla spiaggia.
L’ardente chioma solare,
ostile sorella del cielo,
invade penetrando la pelle.
Bionda onda marina
nel petto discosto e stordito
schiumeggi sicura.
Regali,
legandoci a te,
liriche gocce salate.
Carezze furtive
e bagnate
sulla pianta accaldata del piede.
Il piede abbattuto
dal giorno,
dal lungo cammino percorso.
Curioso e disattento,
il passo è confuso,
incerto procede
franando nell’arenile.
Lo sa oramai
da dove viene,
ma stenta,logorato,
a capire dove va.
Sinfonia di Vita
Il sogno
è parola rupestre
che esterna promesse.
E’ frullo di vento
che cancella alitando
le orme dal suolo.
Chimera tenace,
soccombe unicamente
al mormorio del tempo.
Saldato perfetto
all’impronta più asciutta,
ferma, nel mezzo petto.
Proprio lì,
gioiello perfetto,
all’altezza del cuore.
La musica lieve
armonica si eleva,
partendo da dentro.
La canta
Il lento prolungarsi
del circolo sanguigno.
Vaga imperiosa
dall’atrio al ventricolo,
da un battito ad un altro.
Liriche melodie evolvo
di battiti prolungati
che sprizzano amore.
Versi liberi
Svelto
l’occhio si muove
e scruto te
che sei nudo adesso
come non ti avevo
mai scoperto.
Nudo di fuori
e di dentro.
Cosa hai di coperto?
-
-
E’ autunno
ma il sole cola ancora.
Il giallo fervore si spande
e inonda la piazza
sola.
Infervora , nelle case,
l’idea d’estate
che pure vola.
-
-
Ecco decifrato
l’oltraggio,
l’umore tiepido
penetra nelle ossa.
Lieve estingue i leniti
rimpianti dell’estate,
riscalda l’abbraccio
e riposa.
-
-
Questo sole deluso
è la dolcezza,
quella che ribelle
giace nello sguardo.
Il secolo …
questo maledetto secolo
ha maturato i suoi germi
più violenti
gettandoli a pioggia
nell’anfratto del seno.
Da ‘Il Sentiero degli Elfi’ (ed. progetto cultura 2014)
Scopro,
sulle soglie del bosco,
lusinghe terrestri
che colgono versi arroventati
dalle falde dell’cuore.
Nel Sentiero degli Elfi
incerta m‘inoltro
con occhi randagi
che frugano il vespro.
Intravedo,
nella quiete che agogno
le saettanti creature,
m’addentro,
e calpesto fugace le foglie.
Procedo, tra ricci e castagne,
lieve, per non istigare la fuga.
Ora, nel Bosco degli Elfi
ci sono, dimentica di tutto.
+++
Poggio i piedi in terra,
assaporo il profumo del tempo
nell’intanto mi avvolgo
in un balenio di sensazioni
Nel sentiero degli Elfi distesa
ascolto i sussurri lontani
che mi parlano da dentro,
come fantasmi,
come nuvole evanescenti.
Come pensieri umani
Tratta dal libro ‘Te recuerdo Pablo Neruda’
Nella voce è la verità (a Pablo Neruda)
Nella voce è la verità
passero triste di un’allegria spenta,
d’un simbolo perduto in ogni istante,
passero triste di uln’allegria spenta
chi fu,
un falco
o una civetta senza becco e senza ali?
Passero triste di un’allegria spenta
non è remota l’aria, non è lontano il volo,
chi fu
un falco
o una civetta senza becco e senza ali?
Il tamburo pulsa
di una voce vera, sincera
passero triste di un’allegria spenta,
chi fu,
un falco
o una civetta senza becco e senza ali?
Amo la poesia
Amo la poesia
come fosse porzione di vento
e sublime incanto
di ore incarnate
in suggestioni proposte dal cuore.
Il nervo ottico,
offuscato dal dubbio
estrae idiomi scheletrici
dai neuroni scettici.
quelli stessi
che dal molle globo racchiuso
nell’ossea scatola occipitale
veloci corrono
a muover la mano sul foglio
per fermare quell’attimo
che corre veloce
all’interno di scariche elettromagnetiche
che a scintille mentali si formano
e che il pensiero
da solo impone.
Ricordo di casa
Nel ricordo del tempo
il luogo figura memorie
distorte, forse,
dalla fiacca che assale
al cambiar delle cose.
Esse stesse assalgono
senza essere chiamate,
poiché hanno il diritto
di volere un’oncia
di ascolto e di tempo.
Un lasso lontano,
rammento,
di colori e profumi
che giacciono affranti,
stretti nel cuore,
da dove palpitano
dolenti o gioiosi a tratti,
perché i ricordi son tali
e non hanno futuro.
I colori sfocati del giorno,
più accesi sul far della sera
nel senno si fissano e stanno,
rannicchiati in fiato di lume,
nel sonno beato
che esilia il tormento.
Il rumore dell’Universo
L’Universo, è là,
immerso nei rumori irreali
che richiamano sirene dal mare,
dove tutto procede
in sintonia con se stesso,
nel cantico infinito
che ci disperde e ci contiene.
Ammiriamo in silenzio ora
sole, lune e stelle
dimenticando tutto il resto
che pure ci avvolge ,
e che forse è vita
ma che forse è morte.
Però, sicuro, è sorte mentale
oltre l’immaginario.
E’ realtà
talmente grande
che magia ci appare.
Capitano d’aria
Capitano d’aria
sorvolo l’Universo.
Ammiro stupita
lucciole stellari
che ammiccano,
tra un paradosso
ed uno scherno,
stremate
dal lunghissimo viaggio
nell’infinito.
Escono buchi neri,
come magneti
inclusi nella pelle.
Tutto essa ingloba e
senza eccezione alcuna
tutto attrae.
Un corpo celestiale
più o meno perfetto
catalizza l’universo,
così che ciò che intorno orbita
finisce incluso,
dissolto, unito
in ciò che già è.
Sparito come in un nulla
all’interno di me,
che altro non sono
che un grandissimo
buco nero galattico.
Ai giovani di tutti i tempi
D’altri tempi furono i pensieri, alle età precoci
degli studi noiosi, ma utili, del latino e d’altri scopi.
Pensieri veloci oltre i vetri di un edificio scolastico
troppo stretto per contenerli.
Banchi in fila, amici goliardici e cortei, scioperi,
occupazioni.
L’età dell’ideale puro si cela dietro
il recondito pensiero del ritorno al passato,
al ricordo d’un bacio e di una fuga,
al ricordo del calore di un’aula di assemblea,
dove tutto era sincero, nulla corrotto.
Quando era possibile osare sempre,
pensando al domani sicuramente glorioso
e non grigio, e se grigio era
lo era perché apparteneva
alla scala cromatica dei colori.
Purezza di pensiero sebbene a volte annoiato
in un’ ora di studio tedioso, con barlumi
d’interesse per quello che nel passato
era stato, per quello che nel futuro
era a venire.
Oggi ancora, a volte, mi calo in quel pensiero
e raccolgo il buono che vedo
e riscaldo la pelle in una carezza di luogo
così lontano, così vicino, così intimo
da sembrare eterno.
Promesse d’autunno
L’odore, ecco,
l’odore intenso di non so cosa
di ben definito.
L’odore profondo dell’umido
e del muschio che piano
s’innalza dal suolo e penetra
nei pori, in attesa del corpo.
Profuma di nuovo,
come se vita fosse
il bosco bagnato di fresco
nel quale passeggio,
e ti anche passeggi.
Perduti nel senso profondo
che ci ispira
di una foglia bagnata,
di un ramo che gronda rugiada,
un filo d’erba nascosto
che irrora le scarpe
entrando fin dentro le calze.
Una passeggiata nel bosco
senza pretendere il mondo
è un sollievo profondo
Che invade da dentro.
la corteccia bagnata
D’un castagno
rivela promesse d’autunno
che se ascolto, le intendo.
La nuvola
Punge il ventre, impudente,
l’idea soffice, mostrata,
della nuvola che solca
l’ignoto.
Leggiadra veleggia
e nel cielo s’ingegna
a segnare la rotta
che nell’infinito si eleva
e rimane lì,
come impulso potente
che al corpo imprime
il brivido d’un volo.
Quello che, entusiasta,
non conosce ostacoli
e nel vento disegna
la sua pelle, risalendo
a piccoli brividi
che paiono onde.
Sulla nave volante
le chiome scompiglia la brezza
felice di odorare di carezze
di vento e di nubi
L’alba
Cammino per le strade all’alba,
è un silenzio
composto di lievi rumori.
E’ un silenzio
misto al sonno e al dovere,
mi sorpassano correndo
uomini incappottati,
frettolosi.
E’ l’ora dei cantieri,
delle officine,
delle fabbriche.
Il tram è affollato
da un’ educazione strana,
assonnata,
un rispetto reciproco,
misto d’umanità e comprensione.
Com’è lontano il caos del giorno,
com’è più immenso
il volto dell’alba.
(1974)
Il luogo
La sento gravitare lieve,
nel silenzio confuso del giorno,
la mancanza d’un luogo.
Esattamente quello stesso
ch’era spazio gravido d’ombra,
non caleidoscopio di luce.
Ne’ cono smorto di segreti pudori,
ma riparo quieto di solidali cospetti
essi sì, illuminanti il buio.
Ombra di luce, bagliori di noi in spazi
di buio totale, ossimoro di vita e riflesso
di speranza, dove l’io è l’ombra
in un noi di luce.
Come spazio d’anima e incontro
dove il posto non segna veleno
ma tesse trame di intenti e silenzi,
non inchiostro di verbo o fonema
che sa di falso.
Ora, In punta di penna lo ritrovo,
ed è là che si eleva il ricordo.
Il Big Bang
All’inizio dell’inizio del mondo
mare e monti erano uniti
nel tripudio totale della terra
esattamente come allora era.
Le lune sibillavano in tante,
nel canto stonato dell’astratto
come allora era, ed oggi anche.
Prima del grande Big Bang ferale.
Io c’ero in anima o in corpo?
Non ricordo altro che passi lunari
sulla terra sperduti.
Nell’inconscio la coscienza del luogo,
ma spaesata scrutavo l’intorno
non capendo il fatto assodato
che ero donna appesa al cielo
forse, o forse ancora
nuotavo nel fondo del mare.
Noi, minuscoli ossuti cammelli,
incedenti nel gretto deserto,
incuranti dei fatti del mondo
avanziamo pensando al futuro,
al bagliore che illumina il tutto
ed è il Big Bang che ci aspetta
giù in fondo.
Il mercante di caldarroste
La mano brinata,
frustata dal gelido inverno
si cela nel varco irreale
della statua del Santo Francesco.
Dove il gelo velato
si risolve nel calore bollente
dall’odore fragrante
che evolve sospinto dal vento
dal carretto del mercante di caldarroste.
La vista con l’olfatto si appanna
e dilaga ridente
scrutando curiosa il tizzo bollente
scoppiettante nel rigido luogo.
E’ il calore di una misera
castagna ammiccante,
abbrustolita in un lato di strada
che richiama quel poco che l‘ode
di gente distratta dal tutto..
Il venditore ambulante,
abitante forzato del luogo
emette ogni giorno, riluttante,
lo stesso medesimo suono.
Un sussurro mite e invocante
che attira il distratto passante
su quel poco che offre a buon prezzo:
calore suadente d’un istante
avvolto in carta di paglia
Un soldo, solo un soldo a castagna,
per dirci che è inverno, stagione dell’anno
che riserva quel tanto di buono
riscaldando il freddo del luogo.
Nel tempo e nello spazio
Scorro col dorso di mano
i dettagli della notte, carezzo il corpo
cercando conforto nel tatto con l’idea
astiosa di chi teme che non c’è
altro momento.
Una volta volgevo lo mente altrove
col timore del luogo e dello spazio.
Ora attesto, con succinto orgoglio
l’idea di me in ogni suo luogo.
Ti volevo e volevo la vita,
assetata ne suggevo il succo.
Ecco che la donna soccombe
alla forma del tempo che
perseguita tutti, non lo temo
perch’è anch’esso vita
e lo proteggo nell’ampolla
che un giorno nell’urna cadrà,
come impronta di patto compiuto.
Bisogna essere convinti di esistere
per avere la forza di godere
dell’istante e dello spazio rimasto.
© Paola Oliva
Il verbo essere
C’è qualcosa di diverso oggi nell’aria.
Un odore lacrimoso che sa di fumo
e ha aromi d’inchiostro e di timo,
come fosse richiamo d’antico borgo.
Suono di borghi e rifugi nel centro
del bosco, ed invece è città
col rigore del tempo.
Odore di camino acceso che non è,
inganno olfattivo involontario,
d’un senso desiderato.
C’è nulla nell’aria, nell’ ideale
Profondo che pare remoto,
passato, ma è presente indicativo
d’un verbo noto.
Non lo spregio dell’essere, è il sogno
dell’avere e dell’esistere.
© Paola Oliva
Poesia stellare
Poesia è anche niente
un vuoto di parole
un sapore riposto
di silenzio profondo
e felicità latente
Poesia è galassia lontana
che ascolta e ripete
il canto suadente del mondo.
Un soffio profondo
di attimo fuggente
(da ‘Riflessa, specchiata nel Cosmo’)
© Paola Oliva
Circolazione poetica stradale
Visioni poetiche stradali,
oggi visibili
difficili segnali
tra uno stop ed
un dare precedenza.
Rombante motore
s’ appresta alla corsa
al segnale d’avvio
d’un semaforo freddo
votato al comando
Forse
Forse,
le formali parole
che il cuore mi detta
sono figlie d’un età che vaga
in senso inverso
dal battito del cuore.
Triste paesaggio dipingo,
forse per stanco percorso
non sempre benevolo
e non sempre veloce
e diretto.
Forse le stanche parole
urgono le corde vocali
e lì rimangono
correndo veloci nel pensiero.
Domani riposo ma nell’intanto
inondo un foglio sbiadito di dubbi
su di me e sul mondo.
© Paola Oliva
Maggio 2018
PER PASOLINI
Ho visto Salò,
e la vita è mutata.
L’ho ascoltata,
una voce stentata
affondata nell’asprezza
dei luoghi e delle strade ossute
irrorate di sangue e castighi.
Violenta vita anch’essa,
a suo modo,
e di violenta vita assetata.
Tra i vissuti di fonda periferia
in una città non sua,
fatta vetro e cemento
e di furti e di sangue.
Dov’era il senso del bello?
Quel bello che pure c’era
nascosto al suo sguardo?
Dov’era finita
la pulsione speranzosa
d’un cambiamento?
Uomini di vita senza futuro.
In quella casa periferica,
ch’è stata anche mia, di casa,
vissuta orgogliosa
in una periferia sperduta,
dimenticata dalla furia domestica
d’una città allora lontana
e parca di enfasi per i diversi
di borgata.
E tu, intellettuale senza meta,
sicuro, io penso, d’una fine
randagia,
perché pensavi?
Non v’era dolcezza evidente
né commiserazione, né speranza.
Autore autorevole,
e voce alta della comunità
razionale di sempre,
speranza del futuro di mai.
Perché non hai fatto di tua vita
pulsione d’amore,
preferendo cadere
nel fondo senza fine?
Noi, ragazzi allora,
emuli del ’68,
figli, come tu dicevi,
della borghesia,
tuoi estimatori e non detrattori
ce lo chiediamo tutt’ora…
Grande l’artista, l’intellettuale,
ma l’uomo cos’era?
Dovrei non chiedermelo.
Il tuo vissuto,
oltre la fase mortale
inquieta e fa parlare.
Nessuna condanna certa
per la tua morte
è così forte quanto
la considerazione inevitabile
del male profuso ad un corpo
mortale già violato dalla vita
e da un sé abissale,
negato alla gioia
e negato all’amore.
Nel giardino d’inverno
La strada scavata è scoscesa,
penosa deriva di luoghi,
là dove incombe furtiva
un’ombra di fiato
stordita dal gelo.
Un’anomala visione
è unione di luce riflessa
e neve caduta a fiotti,
cagliata in steli intirizziti.
Germogli glaciali di gemme
appaiono, gettate per caso,
e disordinati, reietti pensieri
raffreddati e goccianti.
L’inverno neonato è giocoso
fluidifica durante il giorno
in venature curiose di cespi d’erba,
e corolle fiorite di candido lume
nel manto schiumoso invernale.
Meraviglia terrestre
stordisce il fiato ghiacciato
che fuoriesce da bocche ridenti.
Mi ricordo di cristalli di neve,
come fiocchi dipinti
ed erano veri miraggi geometrici
mentre noi, selvaggi pensanti,
sinceramente storditi ed incerti
accarezzammo con mano vibrante
il velo bagnato di neve e di ghiaccio,
scrutando , sul niveo lenzuolo,
l’apparire educato e pensoso
d’una tremula violetta dischiusa,
nel bianco superbo del giardino d’inverno.
Il colore del fumo
Il colore del fumo,
ecco, solo questo.
Il colore del fumo s’insedia,
è riflesso nel racconto lontano.
Un filo nefasto dal puzzo di strazio,
soverchia il ricordo di vita,
strazia la mente,
svuota l’incanto di mondo.
Quel filo lontano è memoria:
è cruccio.
E’ fetido ghigno che effonde disgusto,
partendo dal mezzo del petto.
Reclama, questo spazio, la quiete
poiché tanta è l’asprezza provata
che ne sente il disagio profondo
raccolto all’intorno e inciso sul corpo.
Un viaggio ad Auschwitz
idealmente mi accingo a viaggiare,
la valigia è il passato,
lo schianto dell’oggi è quello che trovo.
La iena feroce che rode le membra,
incendia le menti, sprofonda nel ghiaccio.
La cetra dal salice raccolgo,
lì,
dove le anime per sdegno
l’avean riposta.
Ora si, ora si, che possiamo
elevare il canto all’immenso diverso,
salutando innocenti quel filo
di pensiero lontano.
Separando, con grande coraggio,
ciascuno a suo modo, la verità dal sogno.