Sarebbe bellissimo vedere il colore del suo cuore

Sarebbe bellissimo riuscire a vedere il colore del suo cuore”, disse Lunetta incantata. La vista di quell’esserino che si dimenava, frignando negli spasimi della vita la turbava e la rallegrava al tempo stesso. In effetti era la prima volta che assisteva ad un parto, la prima di quelle esperienze destinate a diventare il suo futuro. Aveva cullato il sogno di fare l’ostetrica sin da bambina. Apparteneva alla sfera di quei sogni che i grandi accolgono con benevolenza, sicuri che tanto, prima o poi, con lo scorrere degli anni, la realtà avrebbe dato spazio ad altri progetti e il futuro avrebbe riservato altro.

Ma sono bellissimi i bambini quando si fanno seri seri per declamare i loro intenti, assolutamente convinti che così sarà, anche se poi, la maggior parte, cambia obiettivo in continuazione nel corso della propria esistenza. Ricordava una sua amica d’infanzia che, diceva, da grande sarebbe diventata casalinga, e lo diceva compita e con grande serietà, soprattutto vedendo la fatica della propria mamma che era operaia in una fabbrica di pentole e tornando a casa diventava anche casalinga. Era convita, ma da ‘grande’ era diventata un’insegnante capace, ed anche un’accesa propugnatrice dei diritti delle donne. Lunetta, invece, coerente con se stessa, aveva mantenuto fede ai suoi convincimenti: era divenuta ostetrica. In realtà il tutto era nato casualmente, nemmeno sapeva cosa fosse un’ostetrica. Semplicemente, un giorno, avrà avuto sei o sette anni, aveva chiesto a sua madre, guardando, su di una rivista trovata in casa, la foto di una puerpera col suo bimbo in braccio: “mamma, come nascono i bambini?”. “Li fa nascere l’ostetrica” aveva risposto di getto e con sincerità sua madre che, a differenza dell’usualità, aveva evitato qualsiasi risposta generica. Lunetta era rimasta scettica, “che cosa è ostetrica?”, “chi è vorrai dire – rispose la mamma divertita dall’espressione sbalordita della figlia – L’ostetrica è una signora che fa nascere i bambini”. Questa cosa proprio non se l’aspettava: una signora? Questa è carina, come una signora? “Perché una signora? – aveva nuovamente domandato, insistendo – come fa una signora a far nascere dei bambini? Non è che scherzi, vero mamma?”. La mamma sorniona la guardò amorevolmente e rispose evasiva “No, non ti prendo in giro, usa il forcipe, amore. L’ostetrica fa nascere i bambini col forcipe.”. Cavolo, la cosa si era fatta veramente complicata. Non solo non si sa come i bambini finiscano nella pancia della mamma, perché è lì che stanno, e lo aveva capito bene, anche se molti dicono che non è vero. Già una volta aveva provato ad approfondire l’argomento, ma ne aveva ricevuto risposte evasive, e tali erano rimaste nonostante le sue insistenze. Quella volta non ci aveva capito niente. Ma ora addirittura spunta questo strano oggetto, il forcipe, e questa volta era decisa a saperne di più: cosa sarà mai questo oggetto strano, dal nome strano. Si buttò a capofitto con le domande: “col forcipe? Cos’è il forcipe. E in che modo fa nascere i bambini?”. “Tu sei nata col forcipe – la informò la madre facendosi seria seria –. Il forcipe è una specie di pinza che prende i bambini per i capelli e li fa nascere”. Accidenti, questa era davvero incredibile, Lunetta non ebbe più il coraggio di chiedere altro. Altre volte aveva sentito di cicogne, di cavoli… ma di pinze che tiravano per i capelli i bambini per farli nascere proprio gli risultava nuova.. e anche incredibile. Due erano i fatti: o era tutto vero, e allora doveva capire il perché oppure sua madre si sbagliava. Però la parola ostetrica le girava per la testa come un frullino, rimanendo lì, fissa. Ebbe una folgorazione: “forse è un lavoro” pensò saggiamente. “L’ostetrica per caso è un lavoro?” disse, “certo, brava. E’ un bellissimo lavoro” rispose sua madre, “allora se è un lavoro da grande voglio fare l’ostetrica” e corse a dirlo, felice, a suo padre. “Papà, ho deciso, da grande farò l’ostetrica”. “Brava rispose lui – poco disposto, al contrario della moglie, ad intavola discorso su questo argomento con la figlia – allora mettiti a studiare che è tardi e per diventare ostetrica devi studiare tanto e per tanti anni”. Parole secche quelle che il padre aveva proferito condite, però, da un’inflessione tenera. Parole veritiere come ebbe a sperimentare nel corso degli anni, tanti: prima le elementari, poi le medie, poi le superiori ed infine i tre anni di ostetricia all’Università… ma alla fine ci era riuscita. Era finalmente divenuta ostetrica, ed eccola ad assistere al suo primo parto. Una grande emozione, “il primo cucciolo che fai nascere non te lo scorderai mai nel corso di tutta la tua vita. E’ un po’ come il primo amore: un sogno”, le aveva confidato una collega più anziana, incoraggiandola e rasserenandola dalle sue ovvie paure. Il bambino, per volontà del caso, era nato proprio col forcipe. Sorrise al ricordo delle parole della mamma, quelle dette tanti anni prima, l’impressione che gli aveva fatto l’idea di quella pinza che, misteriosamente, afferrava l’esserino per i capelli e tirava forte finché non diveniva un neonato, così, magicamente. Quella pinza che aveva turbato la sua infanzia, e che aveva immaginato in mille fattezze diverse, meno che nella reale. Il piccolino, minuscolo e paonazzo, strappato violentemente dal suo comodo guscio, urlava con forza il suo sbigottimento. Lunetta stupita guardò verso il medico di turno e, con innocenza, disse: “Sarebbe bellissimo riuscire a vedere il colore del suo cuore”. Turbato lui la guardò: “è di un magnifico rosso – rispose sorridendo soddisfatto, felice come tutte le volte che riusciva a portare a termine una nascita difficile – il colore della generosità”.


Il Maglione

(già dall’antologia sul colore rosso pubblicata da Giulio Perrone Editore – 2011)

La strada era molto affollata, poco mancava all’orario di chiusura dei negozi.

Selene doveva fare presto, il negozio che vendeva la lana distava ancora un pochino. S’era messa in testa di confezionarsi da sola una maglia di calda lana. Da anni non toccava più i ferri per lavorarci, eppure da ragazza ne era capace, ma gli impegni, gli amici, tutto. Prima lo studio e poi il lavoro gli lasciavano veramente poco tempo per queste cose.

Tra l’altro, quel poco tempo che le rimaneva preferiva dedicarlo ad altro: alla lettura, a un cinema, ad un concerto e… perché no! anche ad una tranquilla serata davanti alla televisione: “ogni tanto danno anche qualche bel programma “ diceva tra se e se.

Ma quella mattina, casualmente, entrando dal giornalaio per acquistare il suo solito quotidiano (le piaceva essere informata) gli occhi le erano caduti su di una rivista di lavoro a maglia.

Inspiegabilmente fu presa da una grandissima curiosità: “Chissà se ci riesco ancora? Diamo un’occhiata su cosa c’è di bello” si disse.

D’impulso acquistò la rivista e se la mise dentro la borsa assieme al quotidiano. Andò in ufficio tranquillamente, senza pensarci più.

Di ritorno, sulla metropolitana cittadina, si trovò a sbirciare nella borsa per prendere una mentina e, improvvisamente, si ritrovò con la rivista di lavoro a maglia in mano.

Così, tanto per passare il tempo, la tirò fuori e cominciò a sfogliarla.

I modelli erano tutti molto belli, variopinti e diversamente lavorati.

Tra tutti uno attrasse la sua attenzione, un bel pullover viola, apparentemente semplice: punto traforato, scollo a v e maniche normali. Il punto traforato era però particolare, una serie di rombi incastrati l’uno con l’altro che richiedevano una grande attenzione. Si percepiva ad occhio nudo che le sarebbe bastato sbagliare un punto che avrebbe dovuto disfare tutto il pezzo.

Questa difficoltà l’intrigava molto, era un modo di misurarsi con se stessa e con la propria fantasia, nonché con la propria capacità di prestare attenzione a quello che stava facendo. Non poteva distrarsi nemmeno per un giro a maglia perché se perdeva il punto doveva ricominciare tutto da capo. Una bella prova di abilità.

Il colore poi era particolarissimo, un viola soffuso ma al tempo stesso brillante, di una tonalità che non aveva mai visto.

Si disse che doveva proprio farlo e, come sempre, nel suo carattere decise d’impulso, scese dal vagone della metropolitana una stazione prima della sua e, salendo veloce le scale, uscì fuori, in direzione di dove sapeva esserci un negozio di articoli per maglieria.

Non sapeva il perché, ma era entusiasta di questa sua idea.

In realtà quello era, per lei, un periodo molto intenso, aveva intrecciato una nuova relazione con un uomo più grande di età e di diversi anni. Un uomo molto serio ma separato da cinque anni dalla propria moglie. All’inizio aveva affrontato la cosa con grande diffidenza, un uomo separato porta dietro di se un alone di non affidabilità, sebbene i tempi siano cambiati, comunque l’irritazione per un ‘dejavù’ rimane.

Ma la diffidenza era morta presto, si trovavano bene insieme, il resto non era importante.

Ma il tempo per quel maglione aveva deciso di trovarlo. Così è.

Arrivò alla bottega in tempo utile, anche se avevano cominciato a tirare giù le serrande.

Si tuffò dentro di corsa, la proprietaria era una signora in là con gli anni, il sorriso ammiccante: “Desidera?” chiese cortesemente.

Della lana – disse – della lana per un maglione: mezzo chilo credo che ce ne voglia, e poi anche dei ferri per lavorarla”.

Va bene – rispose la negoziante – che lana e che ferri?”.

Guardi – le disse Selene indicando il modello sulla rivista – questo è il pullover che voglio fare”.

La negoziante lo guardò e gli consigliò una lana di medio spessore, da lavorare con i ferri n° quattro e mezzo, per il colore però c’erano dei problemi, quel punto di viola non ce l’aveva proprio.

Provarono una serie di gomitoli di varie tonalità, ma nessuno era sufficientemente bello per Selene.

Ce n’erano di tutte le nuances del viola, ma si avvicinavano poco a quello originale.

Stava per capitolare quando la signora tirò fuori da uno scaffale, quasi per magia, un gomitolo bellissimo di lana melangé con sfumature che andavano dal viola al lilla al ciclamino intervallati da sprazzi di bianco panna, un gomitolo coloratissimo e tenue al tempo stesso.

Selene se ne innamorò subito: “Questo è il mio maglione” sentenziò.

La padrona del negozio sorrise compiaciuta, gli era gradito d’accontentare i clienti quando poteva e con scelte quasi mai banali.

Ogni gomitolo pesa 50 grammi, per mezzo chilo vanno bene 10 gomitoli. Io le consiglio di provare subito, questa sera stessa, a vedere quanto ne va per esempio per il cannolè. Questa lana è bellissima, ma frutta poco. Per sicurezza gliene tengo da parte due o tre gomitoli in più, non si sa mai”.

Così dicendo mise in una busta rossa e dorata, i gomitoli ed i ferri da maglia.

In quel momento Selene si accorse che ad un canto del negozio, seduta su di una sedia un’altra donna la guardava e ascoltava lavorando gomitoli di lana a velocità impressionante.

Sa, noi creiamo anche modelli, vede li vendo. A volte anche su ordinazione. Siamo rimaste in poche nella città, la gente preferisce le maglie industriali più veloci e meno complicate da fare. Ma – disse porgendole un gomitolo morbido morbido – senta il calore di questa lana e lo confronti col calore di una lana industriale, vedrà che differenza.

Senza contare che io e quella signora siamo rimaste sole, vedove tutte e due, con la passione per il filato. Lavoriamo e ci teniamo compagnia, così le giornate ci passano veloci. E poi, tanta gente come lei entra e acquista la lana. A volte, le meno capaci, ci lasciano il modello scelto su di una rivista, scelgono il colore e noi restituiamo il prodotto finito. In genere rimangono tutte contente, e anche noi. Il nostro è un lavoro che si fa per passione e pazienza”.

Selene provò un’istintiva simpatia “sa, io sono anni che non lavoro a maglia, non so se mi ricordo i punti da fare: gettate, calature. Però ci voglio provare”, “vedrà che ci riuscirà, porti pazienza. Il lavoro a maglia è un pochino come il saper nuotare, una volta imparato non si scorda mai. Auguri e buon lavoro, non si dimentichi di farmi vedere il prodotto finito. Ci tengo alla buona riuscita delle cose che consiglio, sa?”.

Con un sorriso di intesa uscì dal negozio col suo quasi-maglione sottobraccio, era molto fiduciosa di riuscirci. (Giulio Perrone ed.)


Su Paese Sera On Line (22 febbraio 2013), vincitore del premio ‘Occhi sulla città’

La Maratoneta

Era bello inventare puzzle con dei cartoncini colorati, prenderne uno bianco e disegnarlo, poi con le forbici tagliuzzare gli altri colorati in piccoli pezzi da incollare ad incastro, così da ricomporlo. Ne veniva fuori una sorta di mosaico multicolore, l’effetto era gradevole; era un hobby.

Aveva cominciato da bambina, usando la carta del quaderno, la tingeva a strati con le matite colorate e faceva vestiti per bamboline anch’esse di carta, un gioco povero ma divertente, utile per l’inventiva.

D’altro canto era abituata all’arte dell’arrangiarsi, cosa utile alla sopravvivenza culturale e umana in questo stralcio di città periferica, mezza selvaggia e mezza cittadina, con storia antica mischiata a povertà quotidiana da una parte e opulenza benestante dall’altra.

Era impressionante notare come, da un lato all’altro della Via Tuscolana, la connotazione sociale/economica variasse di così tanta misura, passando dalla piccola borghesia fino ad elementi di disagio economico da un lato, e invece a ceti ramificati di medi e a tratti alta borghesia dall’altro.

Per anni la città era stata pensata e concepita propriamente come il centro cittadino, ed in effetti la maggior parte delle attività, di qualsiasi tipo: dalla collocazione dei ministeri, ai grandi ospedali, ai più importanti musei, i passeggi per Roma antica, il Foro Romano, il Colosseo, il Campidoglio, il Parlamento e chi più ne ha più ne metta, tutto al centro di questo grande complesso organico denominato città.

La periferia è da sempre simbiotica, nell’immaginario collettivo, a disagio, criminalità e miseria, retaggi d’un antico vissuto.

Oggi non è più così. Se avesse dovuto scegliere non avrebbe avuto dubbi: nella periferia.

Al centro ci vado a passeggiare e per recarmi in ufficio, ma qui è casa mia. Guarda che meraviglia – diceva – siamo circondati dalle antichità, questo era un suburbio di Roma, stracolmo di ville e acquedotti, è una zona archeologica immersa in quel grande contenitore che è il Parco degli Acquedotti, proprio sotto i Castelli Romani. Siamo a ridosso della campagna romana, cosa si può volere di più? Qui c’è meno caos e più vita vissuta, sicuramente più autentica e meno asettica. In verità amo Trastevere ma non tanto da viverci, strade strette e affollate e zero spazi verdi, anche se bellissime. Certo, c’è il Lungotevere, Castel Sant’Angelo e tutto il resto., mi piace passeggiarci ma non mi ci ritrovo, mi trovo meglio qui, nella mia periferia”.

Questo pensava, e questo diceva.

Nascere a Roma è una fortuna, in nessun altro luogo al mondo c’è una concentrazione di storia e architettura pari a qui, e ovunque ce lo riconoscono.

Certo, è vero che visto con i nostri occhi la cosa cambia: città caotica e faticosa, con grandi distanze da coprire, difficile per regolare i propri tempi di vita. Ma da amare profondamente.

Pensava a questo mentre, con calma, usciva di casa.

Era una bella giornata di tarda primavera. Ancora meno di un mese e sarebbe arrivata l’estate, la stagione più desiderata dell’anno per la promessa di vacanze che cela dietro le sue giornate.

Oggi e’ un magnifico sabato: e il sabato non si lavora.

Aveva deciso di dedicarlo a tutta salute, indossò dei pantaloni da tuta, una felpa e scarpette da trekking.

Così, a passi misurati si avviò all’auto e poi verso il parco poco lontano, una bella corsetta nel verde era proprio quello che ci voleva, un lusso da concedersi nel fine settimana.

Arrivata nei pressi dell’ingresso parcheggiò la macchina e scese a passi veloci addentandosi nel parco, uno dei più belli della città, forse il più bello e grande d’Europa, anche se poco curato. Un grandissimo polmone verde ricolmo di alberi secolari, strade sterrate, antichi laterizi.

Faceva parte di un progetto più ampio chiamato Parco Regionale dell’Appia Antica, circondato da antiche mura e dagli archi degli acquedotti: un vero patrimonio per la città intera.

Correre lì era come fermarsi nel tempo, ed era frequentatissimo dai residenti, vicino a lei c’era anche qualche altro “ginnasta della domenica”, altri a passeggio col cane e, un paio di coppiette mano nella mano.

Lì il bello non era solo il contatto con la natura, ma il tuffo nella storia coniugato con la vita moderna. Una vasta oasi ecologica nella città, dove i rumori arrivano attutiti ed è ancora possibile respirare quiete a pieni polmoni cullati dal lontano fischio del treno che percorre la ferrovia che lo attraversa.

Sfilavano veloci altre persone, giovani e meno giovani, anche loro in pantaloncini e maglietta, altri pedalavano in bicicletta.

La domenica successiva era prevista una maratona che lo avrebbe percorso in lungo ed in largo: quest’anno voleva parteciparci e, per questo, si era allenata tutto l’inverno percorrendo sempre lo stesso tratto su strada sterrata sfiorando gli acquedotti.

Aveva passato ore intere a leggere i messaggi incisi sulle antiche mura, alcuni decisamente simpatici, altri erano lì oramai da decenni.

Con tenerezza e curiosità s’immaginava le passeggiate dei romani nelle varie epoche.

Era stata, ed in piccola parte ancora lo è zona contadina, di pascolo e coltivazione.

Il terreno era stato di proprietà dei Gerini, ramo della più famosa famiglia Torlonia; negli ultimi decenni era divenuto, in buona parte, proprietà pubblica, e il resto fruibile anche se sempre privato.

Chissà di quanti eventi nascondevano i segreti quei laterizi, che pure non potevano raccontarceli, duemila anni almeno.

Così pensava mentre correva a passo sostenuto.

Ad un certo punto vide in fondo alla strada, tra gli alberi e le mura, un gruppetto di persone che avanzava: si fermavano, guardavano, parlavano e poi di nuovo riprendevano ad avanzare per poi fermarsi ancora.

Incuriosita guardò meglio e si accorse che avanti a quell’assembramento di sei sette persone, c’era una sua amica: Ginevra.

Era concitata, parlava e spiegava, poi si chinava e spiegava di nuovo, rispondeva a domande e con ampi gesti mostrava ora le mura ora gli alberi, ora guardava verso il cielo indicando non si sa bene cosa.

Non ci si poteva meravigliare, lei faceva parte di un’associazione ecologista che collaborava con l’Ente Parco e la domenica organizzavano visite guidate al suo interno, girandolo per lungo e per largo.

Gli argomenti erano vari e tutti deliziosi, a volte il tema era storico; altre prettamente naturalista; altre ancora semplicemente una visita ai luoghi che sono stati in passato luoghi di set cinematografici (ed erano molti).

Oggi il tema era l’Acquedotto, cosa non semplice visto che a Roma ci sono ben 11 acquedotti e sei di questi traversano il luogo, più un settimo che è poco distante.

Sono opere di ingegneria incredibile, longeve e perfette, quasi un miracolo se si pensa che ancora oggi, dopo più duemila anni, in parte alcuni sono ancora funzionanti.

Antichi come il Colosseo, ma addirittura più imponenti.

Non solo, qui vivono una vegetazione ed una fauna impressionanti, con centinaia di varietà viventi assolutamente uniche.

Decise di avvicinarsi per salutare Ginevra, senza fermarla.

Lei era concentrata nella sua spiegazione e la guardò di sottecchi, allora decise di accompagnarli per una parte del percorso.

L’altra la guardò e sorrise divertita, sapeva che la domenica e il sabato lei veniva al parco per correre, ma non pensava che si inoltrasse fino a quel punto che è un luogo isolato e con qualche pericolo, rappresentato soprattutto dai cani, sia i randagi che quelli da pastore intenti a vegliare il gregge o – più semplicemente – per qualche umano malintenzionato, che anche quelli ancora oggi ci sono.

Dopo un cenno di saluto riprese a spiegare: “Questo è l’acquedotto Claudio, voluto dall’imperatore Tiberio nel 38 secolo d.c. e terminato dall’imperatore Claudio nel 52 secolo d.c.. Portava a Roma un’acqua altrettanto buona come la famosa’acqua marcia che passa per un altro acquedotto vicino, e serviva la gran parte della città e dell’agro. Questo tutt’oggi è il più grande acquedotto d’Europa, lungo ben 91 km..

Qui ci sono i resti di alcune antiche ville, tra l’altro ben conservate come la villa dei Sette Bassi, la villa delle Vignacce e, poco distante, la villa dei Quintili, vicine in linea d’area, tanto che si può raggiungerle anche a piedi tagliando da quella parte – disse indicando il verso – non solo, ma sotto questi alberi, anche grandi scrittori, come Goethe sono venuti qui a trarre ispirazione, facendosi ritrarre all’ombra di un albero con un libro in mano. Egli stesso, nel 1789 ha scritto:’… Rovine che sembrano foreste e piante indigene di una terra composta dalla polvere dei morti e dei ruderi degli imperi…’.

Come lui, altri altrettanto importanti ne hanno scritto e parlato nei secoli.”

La visita durò per altre due ore.

Li voleva seguire per un pochino, ed invece rimase fino alla fine della visita guidata.

Conoscere tutto questo è bellissimo – disse – mi prenoto per la prossima visita” sorrise a Ginevra facendole l’occhiolino, “è tra quindici giorni” rispose l’altra, “bene” disse correndo verso la macchina.


Un miagolio d’amore

Andante notturno

 

Era felice, pareva una sera tranquilla, tutto invitava ad una notte serena. L’’aria era calda,  soddisfatta e asciutta. La mente  rapida vagava da un pensiero ad un altro.

Con gesti misurati, si alzò dal divano e senza fretta si avviò verso il bagno per le abluzioni serali.

Qui raccolse i capelli sulla nuca chiudendoli in un mollettone, mise la fascia di spugna intorno al viso per non bagnare le radici della chioma e versò del latte detergente sulla spugnetta. Con gesti misurati deterse il viso, lasciandolo pulito e fresco.

Versò su di un palmo un po’ di crema per la notte, la scaldò massaggiandola con cura da un palmo all’altro e poi la distribuì uniformemente sul viso.

La pelle ne assorbiva il beneficio assetata dopo una giornata di sole.

Con cura passò un asciugamano bagnato sul corpo, fermandosi più a lungo sulle braccia, inondando così di fresco le vene, poi immerse i piedi in un catino d’acqua, lavando via le durezze della giornata.

Pochi gesti di ginnastica facciale per ridare tono ai muscoli del viso e, appagata, mosse in camera.

La stanza era vivibile, indossò il pigiama e si immerse nel letto indecisa se leggere alcune pagine di libro o regalarsi completamente al sonno: optò per questo e spense la luce rilassata.

Aveva gli occhi chiusi quando dalla strada le arrivò uno stridente miagolio: erano gatti in sospiri d’amore, ma il loro verso pareva un tormento. I miagolii durarono a lungo, spezzando la catena del sonno. Atroce, pareva di averli accanto.

L’inquietudine s’impossessò della stanza, la tranquillità  era volata via, la notte fottuta.

Tutta la fatica fatta per  una nottata serena era svanita.

“Maledetti gatti in amore” pensò prima di gettare il cuscino in fondo alla stanza in un gesto stanco: “la semplicità del sonno uccisa dalle complicazioni della realtà” pensò rassegnata.


 

La Maratoneta

 

Era bello inventare puzzle con dei cartoncini colorati, prenderne uno bianco e disegnarlo, poi con le forbici tagliuzzare gli altri colorati in piccoli pezzi da incollare  ad incastro, così  da ricomporlo. Ne veniva fuori una sorta di mosaico multicolore, l’effetto era gradevole;  era un hobby.

Aveva cominciato da bambina, usando la carta del quaderno, la tingeva a strati con le matite colorate e faceva vestiti per bamboline anch’esse di carta, un gioco povero ma divertente, utile per l’inventiva.

D’altro canto era abituata all’arte dell’arrangiarsi, cosa utile alla  sopravvivenza culturale e umana in questo stralcio di città periferica, mezza selvaggia e mezza cittadina, con storia antica mischiata a povertà quotidiana da una parte e opulenza benestante dall’altra.

Era impressionante notare come, da un lato all’altro della Via Tuscolana, la connotazione sociale/economica variasse di così tanta misura, passando dalla piccola borghesia fino ad  elementi di disagio economico da un lato, e invece a ceti  ramificati di medi e a tratti  alta borghesia dall’altro.

Per anni la città era stata pensata e concepita  propriamente come il centro cittadino, ed in effetti la maggior parte delle attività, di qualsiasi tipo: dalla collocazione dei ministeri, ai grandi ospedali, ai più importanti musei, i passeggi per Roma antica, il Foro Romano, il Colosseo, il Campidoglio, il Parlamento e chi più ne ha più ne metta, tutto al centro di questo grande complesso organico denominato città.

La periferia è da sempre simbiotica, nell’immaginario collettivo, a disagio, criminalità e miseria, retaggi d’un antico vissuto.

Oggi non è  più così. Se avesse dovuto scegliere non avrebbe avuto dubbi:  nella periferia.

“Al centro ci vado a passeggiare  e per recarmi in ufficio, ma qui è casa mia. Guarda che meraviglia – diceva – siamo circondati dalle antichità, questo era un suburbio di Roma, stracolmo di ville e acquedotti, è una zona archeologica immersa in quel grande contenitore che è il Parco degli Acquedotti, proprio sotto i Castelli Romani. Siamo a ridosso della campagna romana, cosa si può volere di più? Qui c’è meno caos e più vita vissuta, sicuramente più autentica e meno asettica. In verità amo Trastevere ma non tanto da viverci, strade strette e affollate  e zero spazi verdi, anche se bellissime. Certo, c’è il Lungotevere, Castel Sant’Angelo e tutto il resto., mi piace passeggiarci ma non mi ci ritrovo,  mi trovo meglio  qui, nella mia  periferia”.

Questo pensava, e questo diceva.

Nascere a Roma è una fortuna, in nessun altro luogo al mondo c’è una concentrazione di storia e architettura pari a qui, e ovunque ce lo riconoscono.

Certo, è vero che visto con i nostri occhi la cosa cambia: città caotica e faticosa, con grandi distanze da coprire, difficile per regolare i propri tempi di vita. Ma da amare profondamente.

Pensava a questo mentre, con calma, usciva di casa.

Era una bella giornata di tarda primavera. Ancora meno di un mese e sarebbe arrivata  l’estate, la stagione più desiderata dell’anno per la promessa di vacanze che cela dietro le sue giornate.

Oggi e’ un magnifico sabato: e il sabato non si lavora.

Aveva deciso di dedicarlo a tutta salute, indossò dei pantaloni da tuta, una felpa  e scarpette da trekking.

Così, a passi misurati si avviò all’auto e poi verso il parco poco lontano, una bella corsetta nel verde era proprio quello che ci voleva, un lusso da concedersi nel fine settimana.

Arrivata nei pressi dell’ingresso parcheggiò la macchina e scese  a passi veloci addentandosi nel parco, uno dei più belli della città, forse il più bello e grande d’Europa, anche se poco curato. Un grandissimo polmone verde ricolmo di alberi secolari, strade sterrate, antichi laterizi.

Faceva parte di un progetto più ampio chiamato Parco Regionale dell’Appia Antica,  circondato da antiche mura e dagli archi  degli acquedotti: un vero patrimonio per la città intera.

Correre lì era come fermarsi nel tempo, ed era frequentatissimo dai residenti, vicino a lei c’era anche qualche altro “ginnasta della domenica”, altri a passeggio col cane e,  un paio di coppiette mano nella mano.

Lì il bello non era solo il contatto con la natura, ma il tuffo nella storia coniugato con la vita moderna. Una vasta oasi ecologica nella città, dove  i rumori arrivano attutiti ed è ancora possibile respirare quiete a pieni polmoni cullati dal lontano fischio del treno che  percorre la ferrovia che lo attraversa.

Sfilavano veloci altre persone, giovani e meno giovani, anche loro in pantaloncini e maglietta, altri pedalavano in bicicletta.

La domenica successiva era prevista una maratona che lo avrebbe percorso in lungo ed in largo: quest’anno voleva parteciparci e, per questo, si era allenata tutto l’inverno percorrendo sempre lo stesso tratto su strada sterrata sfiorando gli acquedotti.

Aveva passato ore intere a leggere i messaggi incisi sulle antiche mura, alcuni decisamente simpatici, altri erano lì oramai da decenni.

Con tenerezza e curiosità s’immaginava le passeggiate  dei romani nelle varie epoche.

Era stata, ed in piccola parte ancora lo è zona contadina, di pascolo e coltivazione.

Il terreno era stato di proprietà dei  Gerini, ramo della più famosa famiglia  Torlonia;  negli ultimi decenni era divenuto, in buona parte, proprietà pubblica, e il resto fruibile anche se sempre privato.

Chissà di quanti eventi nascondevano i segreti quei laterizi, che pure non potevano raccontarceli, duemila anni almeno.

Così pensava mentre correva a passo sostenuto.

Ad un certo punto vide in fondo alla strada, tra gli alberi e le mura, un gruppetto di persone che avanzava: si fermavano, guardavano, parlavano e poi  di nuovo riprendevano ad avanzare per poi fermarsi ancora.

Incuriosita guardò meglio e si accorse che avanti a quell’assembramento di sei sette persone, c’era una sua amica: Ginevra.

Era concitata, parlava e spiegava, poi si chinava e spiegava di nuovo, rispondeva a domande e con ampi gesti mostrava ora le mura ora gli alberi, ora guardava verso il cielo indicando non si sa bene cosa.

Non ci si poteva meravigliare, lei faceva parte di un’associazione ecologista che collaborava con l’Ente Parco e la domenica organizzavano visite guidate al suo interno, girandolo per lungo e per largo.

Gli argomenti erano vari e tutti deliziosi, a volte il tema era storico; altre prettamente naturalista; altre ancora semplicemente una visita ai luoghi che sono stati  in passato luoghi di set cinematografici (ed erano molti).

Oggi il tema era l’Acquedotto, cosa non semplice visto che a Roma ci sono ben 11 acquedotti e sei  di questi  traversano il luogo, più un settimo che è poco distante.

Sono opere di ingegneria incredibile, longeve e perfette, quasi un miracolo se si pensa che ancora oggi, dopo più duemila anni, in parte alcuni sono  ancora funzionanti.

Antichi come il Colosseo, ma addirittura più imponenti.

Non solo, qui vivono una vegetazione ed una fauna impressionanti, con centinaia di varietà viventi assolutamente uniche.

Decise di avvicinarsi per salutare Ginevra, senza fermarla.

Lei era  concentrata nella sua spiegazione e la guardò di sottecchi, allora decise di accompagnarli per una parte del percorso.

L’altra la guardò e sorrise divertita, sapeva che la domenica e il sabato lei veniva al parco per correre, ma non pensava che si inoltrasse fino a quel punto che è un luogo isolato e con qualche pericolo, rappresentato  soprattutto dai cani, sia i randagi che quelli da pastore intenti a vegliare il gregge o – più semplicemente – per qualche umano malintenzionato, che anche quelli ancora oggi ci sono.

Dopo un cenno di saluto riprese a spiegare: “Questo è l’acquedotto Claudio, voluto dall’imperatore Tiberio nel 38 secolo d.c. e terminato dall’imperatore Claudio nel 52 secolo d.c.. Portava a Roma un’acqua altrettanto buona come la famosa’acqua marcia che passa per un altro acquedotto vicino, e serviva la gran parte della città e dell’agro. Questo tutt’oggi è il più grande acquedotto d’Europa, lungo ben 91 km..

Qui ci sono i resti di alcune antiche ville, tra l’altro  ben conservate come la villa dei Sette Bassi, la villa delle Vignacce e, poco distante, la villa dei Quintili, vicine in linea d’area, tanto che si può raggiungerle anche a piedi tagliando da quella parte – disse indicando il verso –  non solo, ma sotto questi alberi, anche grandi scrittori, come Goethe  sono venuti qui a trarre ispirazione, facendosi ritrarre all’ombra di un albero con un libro in mano. Egli stesso, nel 1789 ha scritto:’… Rovine che sembrano foreste e piante indigene di una terra composta dalla polvere dei morti e dei ruderi degli imperi…’.

Come lui, altri altrettanto importanti ne hanno scritto e parlato nei secoli.”

La visita durò per altre due ore.

Li voleva seguire per un pochino, ed invece rimase fino alla  fine della visita guidata.

“Conoscere tutto questo è bellissimo – disse – mi prenoto per la prossima visita” sorrise a Ginevra facendole  l’occhiolino, “è tra quindici giorni” rispose l’altra, “bene” disse correndo verso la macchina.


 

Un’amicizia per caso

 

 

Erano le cinque della mattina, pochi minuti ancora e si sarebbero riaperti i cancelli della Stazione metropolitana di Piazza Vittorio. Oggi era di  turno all’apertura.

Gli orari erano sempre quelli: apertura alle cinque della mattina, prima partenza dal capolinea in turnazioni consecutive fino alle 23 della sera, ora dell’ultima partenza. La roteazione era  – dalle 5 alle 15/dalle 11 alle 19/ dalle 15 alle 21 e dalle 17 alle 23.

A volte capitava di doppio turno, e la cosa era alquanto faticosa, sembrava d’essere talpe, lì sotto, illuminato come era solo e unicamente dalla luce artificiale.

Con una metodica maniacale, la scena  quotidiana si svolge senza impedimenti apparenti, sempre uguale.

L’utenza umana trasportata da un capolinea all’altro di quella linea varia di ora in ora: dai pendolari  che affollano la linea all’alba, agli studenti e impiegati della fascia oraria che si snoda dalle otto alle nove del mattino, per poi alleggerirsi alle dieci fino a mezzogiorno/l’una, ora, generalmente dedicata alle spese.

In genere il pendolarismo giornaliero è così, sin dall’apertura di quel treno particolare a linea breve, chiamato metropolitana, treno che trasporta gente chiassosa che si sposta e attraversa la città più o meno velocemente.

Petro e Lucella sono amici da sempre, in realtà parenti.

Prima dell’apertura della metro A avevano fatto il concorso, uno dei tanti che  erano usciti, e tutti e due erano risultati vincitori: lui macchinista e lei agente di stazione.

Lo stipendio non era male, anzi decisamente buono visto il compenso medio degli altri lavori, gli orari però faticosi ma non impossibili. Di veramente antipatico, ma tanto, solo quel disagio legato ai lavoratori che non hanno il giorno fisso di riposo, per cui spesso sgobbano quando per gli altri è festa e si riposano quando per gli altri è giorno lavorativo.

Un disagio non da poco in realtà, visto che contempla anche le feste comandate, quelle in cui fa piacere stare in compagnia e in famiglia, per non parlare delle domeniche. C’era sempre stata, e perdurava, questa difficoltà  di organizzare la propria vita seguendo scadenze ed orari obbligati.

Il padre di Petro era stato a sua volta autoferrotranviere e, come lui, aveva vissuto i disagi di chi non ha, per contratto, orari settimanali fissi e  fine settimana liberi, così come per le feste comandate.

Petro era abituato ai disagi del mestiere sin da bambino. Lucella, era più giovane, e lui l’aveva presa in simpatia.

Lei, pur essendo una donna le capitava spesso di dover  effettuare l’apertura alle cinque della mattina, o la chiusura alle due di notte, il che significava alzarsi alle quattro per arrivare in tempo in stazione che non era propriamente sotto casa o, viceversa, andata a dormire alle tre di notte.

Insomma, gli orari della propria vita decisamente stravolti e scanditi dal lavoro.

Lucella questo lo riteneva giusto, era una convinta assertrice della parità fra uomo e donna, e quindi considerava un atto paritario anche questo disagio.

Altri le facevano presente che le donne, soprattutto quelle giovani come lei, erano le più esposte ai pericoli e agli abusi, per cui un orario più sicuro sarebbe dovuto essere obbligo per l’azienda.

Nonostante ciò, lei per prima (che pure si occupava di politica e sindacato) non ne voleva sapere. Lo stesso capitava all’orario di chiusura. A volte conviveva con   la paura di essere assalita da qualche malintenzionato, anche se nei turni è prevista la presenza fissa di un vigilante.

Tutto questo in barba alle norme sulla sicurezza sul lavoro sia per gli uomini che per le donne. E in questi casi non c’è parità che tenga ancor oggi.

Petro aveva spesso, anche lui, turni faticosi, ma era agevolato dal fatto  che per contratto la permanenza alla guida della vettura era di sole quattro ore, questo per la sicurezza dei passeggeri e di se stesso. Mentre si guida bisogna essere ben vigili, e fare avanti e indietro per quattro ore filate sotto un tunnel buio non è  cosa che facilita di più la veglia. Gli occhi si stancano alla luce fasulla che si diffonde in quei sotterranei.

Tra loro spunta Sauro, che invece è un assiduo frequentatore della metro sin da quando l’avevano aperta. Comoda, comoda, comoda.

Oramai non sapeva quasi più cosa volesse dire prendere la macchina, girava quasi sempre così: col mezzo pubblico. Riteneva, spesso a ragione, di averne guadagnato in tempi di vita e in diminuzione dello stress.

Tra questa umanità variopinta, fatta di utenza e di personale viaggiante  pare dipanarsi un universo a parte. Eppure è l’universo sotterraneo di Roma, dove le persone assumono connotazioni diverse rispetto a ciò che appaiono in superficie.

I tratti somatici, a seconda dell’ombra o della luce, assumono le espressioni più disparate che vanno dalla contentezza d’una comitiva scomposta in visita scolastica o una di turisti; alla faccia scocciata della signora perennemente in ritardo che anche oggi arriverà in ufficio qualche minuto dopo l’orario stabilito: “La metro ha tardato” è la scusa ricorrente, anche se quasi sempre è realtà e non scusa, consapevole che al cartellino del proprio ufficio poco importa il motivo, segna il ritardo e basta.

La quiete turbata dai  frequenti litigi per motivi di spazio, dall’insofferenza per qualche strusciata che viene scambiata per spintone, gente impaziente e frettolosa che vuole entrare per forza anche se la vettura è strapiena e si respira a fatica.

Il maleducato, che vede la signora in avanzato stato di gravidanza, o quella col bambino in braccio o il vecchio che si regge a malapena in piedi e non ci pensa nemmeno lontanamente ad alzarsi per cedere il posto: “Chi me lo fa fare – pensa tra se e se – ad alzarmi e immergermi nella bolgia?” e  si gira dall’altra parte fingendo di non averli visti, cosa che capita anche ai meno egoisti nei giorni di grande stanchezza, soprattutto al ritorno dopo una giornata di lavoro.

Umanità variegata e roboante che ogni giorno osserva, fingendo un’attenzione che non ha, ammiccanti poster sui muri di pubblicità o spettacoli di vario genere, dimenticando il tutto appena esce da quel tumulto.

Le città di per se, si sa, sono a misura di macchina e non di persona, quindi spesso snervanti, ma il buio del sottosuolo spesso peggiora i caratteri che si ricompongono, quasi riprendendosi dall’asfissia forzata solo risalendo in superficie.

Come se all’aria aperta perdessero quel senso innaturale di oppressione che i tunnel di per loro danno, creando impazienza e nervosismo che a volte si tiene a bada con fatica.

Le stazioni affollate percorrono la vita di molti di noi.

Nei vagoni, ma anche negli androni, lo spazio è invaso da nugoli di venditori ambulanti con coloratissime chincaglierie; suonatori di chitarra; gente che corre affannata anche sapendo che al massimo l’attesa sarà di tre minuti, ma tant’è l’abitudine.

Dietro i tornelli Lucella e i suoi colleghi e colleghe sorridono, danno spiegazioni in varie lingue, si arrabbiano con i ‘portoghesi’, scherzano tra di loro e con i ‘vigilantes’ (altra fauna selvatica che garantisce la sicurezza delle stazioni) e, ancora, poi il personale delle cooperative di servizio che puliscono i corridoi ‘ alla romana’ tra una chiacchiera, un brontolio e una risata.

Migliaia e migliaia di persone indistinte affollano a tratti, e a tratti si ‘godono’ il trasporto. Come la ragazza impiegata ad Ottaviano che prende la metro ad Anagnina e da capolinea a capolinea si siede e ne approfitta per leggere proprio quel libro che a casa non riesce mai a finire, anche se ci si chiede come fa a concentrarsi in quel trambusto. Petro e Lucella, amici da sempre, quella sera hanno il turno di chiusura insieme, cosa che non capita di frequente, e per di più stanno rimettendo a posto la linea per cui la chiusura è anticipata alle 21, cosa meravigliosa da gustare fino in fondo.

“Ci vediamo all’uscita di Anagnina, ci mangiamo qualche cosa e poi ti riaccompagno io” aveva detto Petro, incontrandola all’inizio del proprio turno, prima di scendere in galleria per arrivare al capolinea dove avrebbe preso servizio.

Proprio quella sera, la stessa  che Sauro, di ritorno da una riunione di Partito in Federazione, deve scendere al capolinea per andare a dormire da un amico che abita fuori città, verso i Castelli Romani un po’ fuori Marino.

E’ tardi, il suo amico gli ha detto che lo avrebbe aspettato proprio fuori alla fermata con la sua macchina.     

Oramai è ora di chiusura, Lucella si avvia col metronotte per chiudere i cancelli di Anagnina, Sauro, sceso di corsa si attarda un pochino appena sente una voce che lo sollecita: “all’uscita prego. Si sbrighi che dobbiamo chiudere. Rischia di rimanere chiuso dentro fino a domani mattina” è Lucella che lo sollecita.

“No . ride Sauro – per carità, non mi solletica per nulla l’idea di rimanere chiuso qui dentro” e veloce si dirige verso l’uscita. “Buona sera” gli dice, “buonasera” risponde lei.

Fuori l’aria è frizzante, il suo amico non è ancora arrivato, Sauro si appoggia alla balaustra dell’entrata nel mentre che la ragazza col metronotte adempie alle operazioni di chiusura dei cancelli.

“Ancora qui?” lo apostrofa divertita mentre il collega va via di corsa,“si.. aspetto un amico. Ma vedo che anche lei…”, “io attendo il mio collega che è andato a prendere la macchina, per cenare insieme e andare a casa”. “Anch’io non ho ancora cenato… certo che così tardi.. forse non ho nemmeno più fame”, “in verità è abbastanza normale che quando arriva la stanchezza ed il sonno la fame scompaia” rispose Lucella, ed erano in una sintonia come se si fossero già conosciuti da qualche parte.

Ed in effetti così era, non conosciuti propriamente ma visti più volte in riunioni di partito, ma ambedue ebbero bisogno di qualche minuto per rendersene conto.

Fu Lucella, per prima, a fare la fatidica domanda: “Ci siamo già visti da qualche parte prima di oggi? Mi pare che il suo sia un viso conosciuto”, “Si, è vero, anche a me pare di averla vista da qualche altra parte… ma in questo momento non ricordo dove. Un attimo – e Sauro ebbe come un’illuminazione improvvisa, gli torno in mente il viso – ma si… il Comitato Cittadino del Partito Comunista Italiano, ecco dove ci siamo visti”.

Lucella lo guardò sbalordita e poi sorrise. Cavoli, era vero, ecco dove si erano visti più volte senza mai conoscersi se non per la comune appartenenza.

Il resto fu velocissimo, passarono automaticamente dal lei al tu, con una confidenza quasi antica,  tipica di chi è accomunato da qualche cosa di profondo,.

Si trovarono così persi in un’accesa discussione, l’argomento era il proseguimento del passato Comitato Cittadino, che era stata un’assemblea molto discussa e che non aveva potuto terminare i propri lavori e quindi aveva dovuto aggiornarsi proprio per le grandi differenze di opinione che ne erano scaturite. Nel mentre arrivò Petro, e poco dopo anche l’amico di Sauro.

Buttandola lì Petro propose di andare tutti insieme in una pizzeria lì vicino per continuare la discussione e i particolari della riunione del pomeriggio a cui loro non erano potuti andare ma quella a cui  Sauro aveva assistito Acconsentirono, e la stanchezza si tramutò in una bella, animata e allegra serata.

 

(Tratto da ‘ I racconti di Sauro’ dal libro ‘Il suonatore di Pianola’ di Paola Oliva)