Sorriso Vietato

Da giorni

Dalla lunga notte

Degli occhiuti

Voi tristi

Non ridete più

Perchè non sapete

Sorridere di niente

Ha! Ih! Buu! Buu!

Alghero 5 agosto 2014

Il vice premier turco sostiene che le donne non dovrebbero ridere. In pubblico


 

Il mare colore del vino

Voi non conoscete

il mare colore

del vino

Voi non avete mai visto

il mio mare colore

del vino

Voi grigi del mondo

non avete mai

pianto per il

mare colore

del vino

Voi neri della notte

non avete mai

intuito le stelle

pronte

sopra il mare colore

del vino

Voi uccidete nel

vostro mare

d’inferno

LASCIATE

lasciate il

Mio mare colore

del vino.

Alghero 18 settembre 2014

per non dimenticare la strage in mare di 366 migranti, 182 ancora oggi senza nome, a

Lampedusa, il 3 ottobre 2013­ 3 ottobre 2014.


 

Io non ho nostalgia

m’incanto se torno

scelgo l’andata

disperdo

il presagio

mi espongo

nell’algido

troppo fermo

presente

che amo

per quel tenue

di buono

per quel tanto

di bello

che mi tiene.


 

Andàre e tornare

nuoto come chi ha imparato

da sola nel mare aperto di Platamona

come in un tornio andavo al largo

mi giravo e tornavo a terra

ogni volta più lontano

il tamburo era la paura

mi volgevo al sole

cuocevo fino a diventare nera

rientravo in acqua per il sale

secche di cozze aguzze

da trovare su cui posare

rientrare venire via

dallo spettacolo della terra dal mare   

trasformata cambiata

riuscita

pronta mi riconduco

sola al largo

col ritmo sordo del tamburo

riporto un carico sempre più da nave

nuoto come chi ha imparato

nel mare aperto di Platamona

                                  Roma 14 novembre 2013


Frammenti di Atlantide. Frammenti di isole sommerse.

Atlantide è tutto ciò che non esiste più e che tuttavia regge il mondo.

I segni delle civiltà, i simboli dei culti dei popoli legati tra loro da fili

sotto il mare ed emergenti nei volti, nelle mani, negli oggetti, questo è

ciò che noi cogliamo. Nella letteratura, nell’arte. Scrivere è come

aprire la porta di casa e uscire in giardino e andare a giocare. E

invece l’odore della terra venuto da lontano, l’odore delle Cicladi,

avvolge i sensi e fa respirare la storia dell’aria; e invece il fruscio del

passo delle donne di Sardegna sposta la scia del pane appena cotto

dalla cesta sulla testa allo stupore per quelle bellezze austere

dondolanti. I loro piedi non posano sulla terra, non spostano polvere.

Lasciano il segno dello sguardo. Il giardino sfogliato come un libro, la

vita che vi è scorsa letta a prima vista, i punti dei passi messi fermati

in uno dei tanti rammendi della miriade di frammenti di quell’isola che

siamo: Atlantide è sotto la terra che calpestiamo e, oggi, implode.

2006


                                      

Approdi

La nave arriva in vista della costa,

la prua fende l’acqua

come una signora sorridente

che si avvia al palazzo

dal viale centrale del giardino.

Il vestito blu chiuso da un manto bianco

lascia aperto davanti

l’ampio gioco delle colonne di zaffiro.

Il sereno copre la fronte

e Tavolara le cinge le spalle.

Approdo nella doppia isola

sulla quale sono naufrago e paesaggio,

corpo e sabbia abbandonata appena

nella tiepida spiaggia

da un leggero colpo di risacca,

e invece incontro

cristalli di sale

dove il mondo scotta.

Mi accolgono musiche diverse,

falsi rifiuti e vere accoglienze.

E avverto sicura sulla mia pelle

l’orma ricevuta di abitudini definite

che entrano nella valigia,

l’odore di costa vicina

nei cuscini di ginepro e rosmarino.

Ti riconosco,

salgo su per il profumo delle tue coste,

fino a questa voce che mi incanta.

Finalmente il ventre

ormai cavo di Tavolara

ha partorito il piombo della scrittura.

L’aria odora forte di mirto e timo

appena passata la notte in Sardegna, quando

quando sopravviene l’alba e il primo sole.

Dal mare prepotente e fresco

s’apre a un tratto un vento

che alza il respiro.

Da domani le ombre degli ulivi

baceranno anche la terra del mio giardino.

E non è solo un sogno.

Come racchiudere un balenio

per riserva di notti troppo buie?

C’è forse il segreto nell’istante,

nello strappo del vento

che s’infrange contro la finestra, a San Giovanni.

Per lasciare nella loro ombra e nel silenzio

i naufragi lenti di nuove meduse

moribonde verso le spiagge.

Per frantumare lo specchio feroce

che mi rimanda indietro in copia

la faccia brutta di questo mondo.

Rompiti qui vento, alla sera, in piena faccia.

Così mi porterai anche l’odore della menta

e la luce di un pioppo rovesciato in una pozzanghera.

Piano rompe quella luce

parla ma senza parole

sfolgora sopra il mio capo

come messaggera

alata del cielo

in pieno sole   

i campi di lucore

versano sulla terra fiumi

di giallo  e blu

e gli uccelli finita la notte

spingono al silenzio

i troppi latrati alla luna.

La nave veleggia

varcando lente nuvole

nel grembo dell’aria

e dell’acqua.

La mattina di lavoro e di letture

prepara le passeggiate

in cui si parla e parla,

col sale e il vino

per il viaggio,

e una musica non facile.

So bene

che in quel momento

nessuno ci sarà,

nella mia strada.

E non so

se troverai nei libri prestati

le tracce

delle parole che dico. Che forse ancora dirò.                              

                                                                                                      da  Viaggio in Sardegna


estate 2006 La caldera di Santorini

Da queste spiagge nere

Dalle pietraie senza più voce di fiumi

Dalle bocche cicladiche fumanti e silenti

Dai grandi fianchi della bella Thera

Dai sacelli sacri di Delo

Da dove nascano gli uccelli

Con nel becco le perle

Dimmi Atlantide

In che terra nascono i fiori che portano da soli

I petali a mia madre

Con sopra scritti i nomi non dei dolori

Dimmi è tempo

per chi ormai dai prati sopra il cielo è accolto

di rivelare quali Muse in terra riposino

e se intorno al mio cuore

il sangue s’agghiaccia

dimmi Ichnusa

perché mi piacciono i venti

e il sapore dei mari ignoti

e i frutti ancora segreti del mondo:

l’armonia che schiude all’abbraccio

                                                                         da Viaggio alle Cicladi 2006


…e non ti sei lasciata rubare i sogni

Tu figura lontana

In sette lunghi anni

Nascondi in te

Avventure e viaggi

Tu formula mitica

Nata da racconti

Tracciati in sete scritte

Fastosa giovane donna

Di cosa vuoi essere dea

Di acque mari boschi o monti

Scegli la tua isola segreta

Sei colei che cela

Tu fiume turchese

O scia danzante di Oceano

Divina e sacra al tuo mistero

Sei colei che custodisce

Nasconditrice di speranze

Oggi denuncia il ladro

Di sogni

Che non si è lasciata togliere

A me.

Fino a quando non dirai

Il saccheggio del tuo sogno

passato

A te.

Presto. Alza energico il tuo canto

A scoprire forza di madre

Piantata in te

Brillante in acute lame di

diamante

Fenderai ogni buio

Rinascerai alla tua parola

Liberata calda gocciola di lacrime

Lascerai il tuo bugiardo specchio

E andrà col tuo fardello

Di cartone disegnato

Obbligato a cedere il suo passo

Frenante

A te che scorgi aperto

Un velo di orizzonte

E già distingui un altro

Incedere di amante.

                              Un pomeriggio di settembre 2007 a Parco San Paolo

  


Monte d’Accoddi

                                

Respira la terra al battito placato      

promettono le stelle queste sponde

sacre

origlia puro il mito nitido del sasso

vive non più silente l’intimo presente

ogni baia prende vagando

le nicchie sonore

e sopra i mortali

in limpide leggi chiare

colme di segreta sorte

feste sventure

scalpella in luce e selce

il segno del sogno

più forte del male.

                                                          Roma maggio 2011


Luce dalla pietra

                                  

Luce dalla pietra

acqua dalla vena

al chiarore della luna

i nostri occhi

affilano le menti

le parole accendono

l’aria

Le luci dalle pietre

ammoniscono

gli ippopotami

che si lessano

nella loro acqua

La luce dalla pietra

a suo tempo

consigliava fermezza

anche nella bufera

Oggi con la luce della roccia

saliamo le scale in processione

guardiamo nudi e muti

gli orizzonti

senza alcun confine

abbracciando

i sapienti di ogni ora

Lasciando svernare altrove gli stolti

cantiamo fieri

sotto ogni pietra

sopra ogni fiore

dentro ogni testa

questa terra sacra                      

che sempre ci ricorda

che se i brutti anni presenti

non fanno sbocciare

la bellezza di ognuno

noi possiamo mettere a dimora

altri e nuovi tempi.

                                                                                                       Roma gennaio 2011


Il gioco del Paradiso

Salta sul piede destro,

ma prima lancia la pietra.

Non cadere sul segno,

non sfiorare la lunetta.

Torna indietro,

solo un piccolo riposo.

Lancia la pietra,

tre volte.

Ora incrocia il salto,

a due piedi,

disegna la X.

Torna indietro,

passa la pietra.

Sei fuori,

il piede in brucio.

La gonna ondeggia.

Si è visto tutto.

Ma cosa è “tutto”?

Il Paradiso.

Da Il grande Libro dei Giochi  2007


Su jogu de su paradisu

Brincat cun su pe ‘eretu (destru)

ma innantis betat sa pedra.

No rues in su signu

no tzirighes sa lunedda.

Torra insegus

e pasadi unu pagu.

Betta su zinziri

tres bias.

como brinca a rughe

a duos pedes,

pinta sa X

torra insengus

passa su zinziri.

ses fora,

su pe in bruju

Bantzigat sa ‘unnedda

s’est bidu totu.

Ma ite est “tottu”

Su Paradisu.


Sa gioga

Dietro la tenda a quadri Peppina la franzesa fa all’amore, di primo mattino. Non sono ancora le dieci e il corridoio in fondo  è scuro. Nella penombra una figura esile e piccola apre la porta ed esce per andare a giocare: nessuno si oppone e il vento è dolce. Pochi passi e uno stelo d’erba freme sotto la goccia di rugiada, ondeggia  obliquo e così mostra una bava d’argento che la percorre fino alla cima. Proprio in quel punto il segno si fa perpendicolare e arriva a terra, dove opaca e lucida, a tratti velata e trasparente la scia ambrata pare indicare e seguire a ritroso un percorso, la strada sin lì fatta. Lo sguardo attento, chino sull’erba, indiano delle tracce di via, l’occhio di bambina non perde quell’impronta podaria, armonia breve di un interminabile universo. Il giardino senza segreti e pieno di eroi la porta con lenta e pacata sicurezza alla tana aperta sotto la pietra di tufo e ad uno stelo secco di grano mietuto dove abbarbicate come chicchi, fitte e strette fra loro, stanno copiose lumachine bianche, cria di altre bianche madri. La lumaca a terra solleva i pallini delle corna ormai allungate e caracolla e volteggia, come a mostrare sinuose linee e morbida pelle con sulla schiena un fardello leggero… Quell’essere porta a spasso la sua solitudine e il peso della sua casa vuota. Il sole all’improvviso s’è  fatto troppo alto, l’ambra grigia colpisce ancora il muretto di cantoni e il suo profumo di muschio sale dai piedi della spalletta; una striscia di verde segnata d’argento inerpica  su quel mondo e lo tinge appena. La lumaca si ritira nella fessura e nella sua casa. Domani forse si vedrà dove la trascina quel desiderio ignoto, se sarà un muro o un palazzo d’argento, frutto di uomini indecisi tra la morte e l’amore.

Roma 27 agosto 2006-8 settembre 2006

In palas de sa tenda a cuadros Pepina sa frantzesa est amorende, a s’impuddile. Non sunt galu sas deghe e su passiziu in fundu est iscuru. In s’iscuridade unu corpus istrizile e minore aberit sa janna e essit pro andare a giogare: nemos narat nudda e su bentu est durche. Pagos passos e unu filu de erva si movet in suta  de unu butiu de lentore, andat e torrat  a tortu e gasi mustrat bae  de prata chi curret finas a cucuru. Propiu in cussu puntu su signu falat deretu e arrivat a terra, in ue a bortas sena lugore e a bortas lughida, a mamentos imbelada e tralughente sa trata indeorada paret chi cherzat inditare e sighire unu caminu a tortu, su caminu fatu finas a in cue. S’ojada atenta, incrinida in s’erva, indiana de sas  tratas de caminu, s’oju de pitzinnedda non perdet cussu signu podariu, armonia minore in un’universu eternu. Su giardinu sena segretos e pienu de eroes la giughet cun segurantzia lenta e chieta a s’istichidorzu in suta de sa pedra de cantone e a una foza de trigu messadu in ue atacadas comente ranos, medas e istrintos intre issos, sunt giogas arvas, cria de ateras mamas arvas. Sa gioga in terra pesat sos pallinos de sos corros giai longos e tortos e si girat comente chi cherzat mustrare lìnias moddes e pedde diliga cun unu pesu lebiu in s’ischina…Cuss’essere jughet  a passizu sa soledade sua e su pesu de sa domo sua boida. Su sole tot’in d’unu est altu meda, s’ambra murra iscudet galu su mureddu de cantones e su fiagu bonu de sa  pedralana  pigat dae sos pees de sa palighedda; unu signu birde manciadu de prata altziat in cussu mundu e lu tinghet pagu pagu. Sa gioga si nche torrat a s’istampa e a domo sua. Forsis cras s’at a bìdere in ue nche la giughet cussu disìziu disconnotu, si at a essere unu muru o una domo manna de prata, frutu de omines pienos de dudas intre sa morte e s’amore.

Roma 27 de austu de su 2006 –de su 2006