ALLEGORIA DEL GRANCHIO

Quando mi hai raccolto sulla spiaggia ero nudo. Il mio guscio era andato in frantumi con la risacca del mare, portato chissà dove dai flutti marini. Ero arenato da anni nelle sabbie mobili dell’inedia e della noia. Non riuscivo a muovermi. Ero stato corazzato per anni, solo per proteggermi dal dolore di aver perso l’amore, quello che ti fa crescere, vivere, appassionare alla vita. Ero stato scaraventato da solo in mezzo al mare. Credevo di essere stato abbandonato da tutti, dal destino e dal cielo. Poi sei arrivata tu. Gentile, amorevole, con le tue mani, mi hai risollevato, mi hai dato speranza, hai creduto in me, hai visto qualcosa che nessuno aveva mai visto, nemmeno io, nemmeno il mare che mi aveva vomitato sulle sue coste. Con difficoltà mi alzai sulle mie esili gambe, spolpate di ogni fibra muscolare. Tu mi porgesti una mano ed eccomi in piedi. Zoppicai quando iniziammo a camminare. I miei piedi affondavano nella sabbia umida, mentre tu quasi non lasciavi impronte. Iniziasti a parlare di te, del tuo mondo, della tua vita, del tuo passato e delle speranze per il tuo futuro e in me si accese una luce.
Mi facesti visita ogni giorno per molte settimane e non facemmo altro che parlare e condividere idee ed emozioni. Magicamente mi rimisi in piedi più velocemente di quanto avessi creduto. Guardando i tuoi occhi notai che avevano una luce diversa. Mi dicesti che ti avevo cambiato, che anche io avevo acceso una luce dentro di te, che da quando mi conoscevi qualcosa era cambiato pure in te. Per me era una rivelazione. Anche io, forse, da qualche parte, possedevo una scintilla della bellezza del mondo? Anche io potevo vantare di essere d’aiuto, di sostegno per qualcuno? Il mio cuore si riempì di gioia e non solo di gioia. Il cuore era stato trafitto, i nostri cuori erano stati trafitti.
Cominciammo non solo più a camminare, ma anche a sfiorarci, toccarci, incrociarci.
Le nostre tempie scottavano come la sabbia al sole sotto i nostri piedi, ma noi sentivamo solo il calore dei nostri cuori, uno nel petto dell’altro. Se prima eravamo soli in cammino, ora potevamo sorreggerci a vicenda. Anche le nostre impronte sulla sabbia si erano fuse e ora erano solo due. Guardandoci indietro scomparivano appena avanzavamo. Davanti a noi l’orizzonte era sconfinato e ogni possibilità era aperta al nostro volere, al nostro desiderio, alla nostra sfrenata ambizione.
Ma come la sabbia nasconde insidie e animali, anche la nostra strada era lastricata di dossi, buche e paure. Anche se avevo perso la mia corazza, il mio cuore era sempre impaurito, spaventato dal nuovo e dallo sconosciuto, sempre attento a non uscire dalle proprie certezze per non perdere il terreno sotto i piedi. Tu, invece, eri sempre pronta a cambiare, a percorrere nuove strade, a solcare nuovi sentieri, mai doma della novità e dell’avventura.
Avevamo nature diverse, lo sapevamo dall’inizio, ma credevamo di poterci sorvolare. E per un po’ è stato così. La felicità aveva animato il nostro amore, ma in fondo, forse, sapevamo che qualcosa avrebbe interrotto l’idillio. Nessuno dei due voleva ammetterlo, ma le continue divergenze, i forti ritorni di fiamma e ancora le divisioni e i riavvicinamenti logoravano lentamente il nostro rapporto. Il cuore, quando si ama, apre la breccia a Cupido, ma anche al dolore e più soffri e più questa ferita si allarga, fino a non poter più rimarginare i lembi lacerati e ricuciti più e più volte.
Lentamente il contatto, lo sguardo, l’intesa sfumò. Gli allontanamenti erano sempre più frequenti e i riavvicinamenti sempre meno intensi. Si era rotto qualcosa. Le mie impronte sulla sabbia era tornate ad essere profonde e le tue meno evidenti e, soprattutto, eravamo tornati a camminare in due, due corpi e due anime separate. Se io rallentavo tu non mi aspettavi e la distanza si faceva sempre maggiore, fino al giorno in tu scomparisti ed io caddi in ginocchio. Eravamo cambiati, io ero cambiato, ma la nostra natura era incompatibile, per quanti sforzi avessimo messo in atto per legarci. Forse eravamo e siamo spiriti affini, ma tendiamo a due strade parallele che viaggeranno vicine, ma non si incontreranno mai. Io ero solo un granchio senza più corazza, tu una sirena.


Il paese di Cuccagna

E’ l’unico paese, quello di Cuccagna,
dove meno si lavora e più si guadagna.

Ogni mese, infatti, ha ben sei settimane infilate,
con le feste quasi ben raddoppiate.

La strada che percorrete per arrivare al villaggio,
è piastrellata da saporite forme di formaggio.

Nei fossi, per addolcire i pellegrini sfiniti dal camminare,
fioriscono come funghi nuvole di zucchero da filare.

Lungo un argine scorre pure un fiume di vino bianco,
per toglier la sete a chi è assetato e stanco.

Giunti infine nella via principale,
si sente un odorino di arrosto e maiale.

E poi grasse oche sugli spiedi che da sole si girano,
in attesa di essere assaggiate dai viandanti che arrivano.

Lungo le strade e nella piazza ci sono tavole imbandite,
dove ognuno può mangiare tutte le pietanze assai condite.

Non c’è limite a quanto uno possa assaporare o ingurgitare,
basta solo che stia attento a non scoppiare.

Ad ogni porta di ogni casa trovi ospitalità e un pasto caldo,
perché, non solo il cibo, ma anche l’accoglienza è sempre in saldo.

Qualcuno potrebbe dire, non avendo mai visitato il paese di Cuccagna:
“sarà gente triviale, rozza, cosa ci si aspetta da un villaggio di campagna!”.

Sbagliato, amici miei con poca fede, gli abitanti son assai gentili,
non rozzi bifolchi, ma pieni di vino dolce come barili.

Ho detto prima, che tutti i mesi han due settimane in più,
e si può dire con certezza che la vita è più lunga laggiù.

Con quattro Pasque, Befane e Carnevali
non ci annoia mai, se ci aggiungiamo anche quattro Natali!

La vita è lenta e goduta in allegria,
bisognerebbe proprio stare là per vivere in armonia!

Direte ancor, “saran grassi e ben pasciuti e quasi morti tutti,
vi sfido, allor io, a cercare negli ultimi anni i manifesti di lutti.

Paradossalmente qua più si magna e si beve,
più si guadagna e in virtù, vita e fede.

I campi coltivati non conoscono il periodo di maggese,
non per niente si semina e si raccoglie ogni mese.

Non c’è mai stata carestia o un periodo meno ricco,
ogni pannocchia di riso o mais aveva più grande ogni suo chicco.

C’è sempre la scusa per una nuova sagra o festa,
perché non ci si annoi neppure nel periodo della siesta.

Anche il meteo concilia lo scandire del dolce far nulla,
piove solo di notte e di giorno il tiepido Sole ti culla.

Non ci sono mai state neppure guerre o morti in battaglia.
Ogni volta che si iniziava si metteva una tovaglia,

e così anche i più vendicativi e arrabbiati
lasciavano spazio allo stomaco e agli sformati.

Anche le risse nate per inutili storielle
finivano a tavola con birre e risate a crepapelle.

Esiste anche il periodo di Quaresima ogni vent’anni,
perché ogni tanto si risparmi allo stomaco dal cibo gli affanni.

La gente digiuna, infatti, senza vergogna e ben volentieri,
per liberarsi dalla fame per alcuni giorni interi.

Ma questa pratica non dura davvero quaranta giorni,
per non perdere l’abitudine con manicaretti e forni.

Ma la cosa più incredibile che ho avuto modo di vedere,
è la pioggia di cibo che scende su tutto il vasto podere.

Piove su tutti, calvi, brutti e belli,
con abbondanza per tutti i fornelli.

Anche agli ospiti che come me l’hanno visitato,
qualcosa da mangiare,
o anche solo sgranocchiare,
viene sempre dato.

Ogni piatto che pensate di voler mangiare,
qua l’hanno inventato anni fa durante il digiunare.

Chiedete e vi sarà preparato, questo è il motto all’ingresso,
perché ogni pancia possa essere riempita molto e spesso.

È maleducazione rifiutare un invito a pranzo,
vi saran dati sicuramente otto primi e un manzo,

non mangiate almeno due giorni prima, se resistere volete,
e di tutto quel ben di dio, vi dico, godete!

E ancora donne bellissime, oro e diamanti in abbondanza,
nessuno soffre di alcun mancanza.

Tutti i piaceri saranno a voi soddisfatti,
ma non c’è il rischio di diventare matti.

Ancora una cosa, quasi dimenticavo, c’è da dire
e, forse, questa cosa molti farà impazzire.

Oltre il villaggio, nascosta, c’è la fonte della giovinezza eterna,
ma l’elisir si trova in qualsiasi e ben fornita taverna…

…loro ne bevono tutti i giorni come fosse acqua naturale,
ed è la cosa più ovvia per loro in generale.

Addio amici increduli, ma se non mi credete,
anche solo per togliervi qualche sfizio o solo la sete,

fate un salto qua, dove vivo già
mangiando e divertendomi in quantità.

Forse tanti anni fa c’era un posto come Cuccagna,
ma non credo esista più… si chiamava Romagna!


La tredicesima costellazione

Sulle sponde del lago d’Argento sorgeva un castello sfarzoso, ricco e
imponente, ma la sua fama non poteva superare la nobiltà d’animo e di
cuore che il suo re, Ofiuco, aveva impresso in quella regione e nel regno.
Egli era, infatti, giusto, generoso e misericordioso con i suoi sudditi, leale
con i suoi amici, ma tenace e risoluto con i nemici della corona. Tutti ne
lodavano le doti, i poeti cantavano le sue gesta in battaglia riempiendo
interi manoscritti con miniature d’oro; gli scultori imprimevano i suoi
lineamenti nel marmo bianco che come cera si lasciava modellare,
cesellare e rifinire. Sembrava che la pietra, a prima vista inerme, potesse
racchiudere in sé, ancora allo stato grezzo, le fattezze di Ofiuco e il
risultato finale era stupefacente. Quadri, affreschi, arazzi, stucchi erano i
soli lussi di cui amava attorniarsi. La ricchezza eccessiva e lo sfarzo lo
lasciavano indifferente. L’unico privilegio era l’amore incondizionato e
totale di sua moglie Cassandra. Ofiuco, non avendo figli, era dedito
completamente a lei e il cuore della regina donato completamente al re. Ma
questo, un giorno, finì. La regina, che amava passeggiare lungo il lago
rimirando le sue acque specchiate, argentate come il cielo di primavera
prima di una tempesta, si sporse troppo per vedere un’ombra appena sotto
il livello dell’acqua. Nuotava sinuosa come una sirena, ma non era così
aggraziata come la ninfa dell’oceano.
Questo incuriosì a tal punto Cassandra che quando si chinò per
avvicinare il viso al pelo dell’acqua, perse incredibilmente l’equilibrio e,
senza che potesse emettere alcun suono o lamento d’aiuto o urlo,
scomparve sotto le acque color argento che l’avvolsero come le sete che
amava indossare per Ofiuco, l’amato marito. Quando il re non la vide
tornare prima della calata delle tenebre, ordinò alle guardie di cercarla
presso il lago, poiché sapeva che amava camminare là. Per tutta la notte la
ricerca andò avanti, ma invano. Ofiuco pianse tanto e senza tregua per tre
giorni e tre notti e tutto il reame pianse con lui. Le piante rifiutarono il
nutrimento dal sole, gli animali placarono la loro aggressività, i fringuelli
tacquero il loro canto di ringraziamento alla vita, tutti ebbero compassione
del dolore del loro re. Dopo una settimana di lutto, i funerali vennero
officiati, ma il cuore di Ofiuco straripava con immutato dolore. Il re non si
sapeva dar pace e decise di sostare perennemente presso le rive del lago
che l’aveva visto crescere sin da piccolo, poi da principe, e infine da re.
Ora lo poteva vedere anche da vedovo. Passato un mese, durante una notte
di luna piena, triste anch’essa per il dolore, mentre un poco di sonno si era
impadronito del re, qualcosa scosse la superficie dell’acqua e questo lo
destò.
“Chi va là?” disse Ofiuco.
Nessuno gli rispose.
Si addormentò di nuovo e ancora una volta fu destato dal rumore
dell’acqua.
“Chi va là?” disse più deciso. “È il re che vi parla, rispondete”.
Nulla, silenzio.
Il re allora si nascose dietro dei rami e osservò attentamente qualcosa
sorgere dalle acque. Era una dea, pensò Ofiuco. Solo i raggi della luna la
vestivano e i suoi capelli la coronavano come una regina. Il re poté notare
una straordinaria somiglianza con Cassandra. Non ebbe timori di mostrarsi
a lei, che di risposta non si spaventò. Il suo cuore batteva come alla
prematura morte di Cassandra.
“Chi sei, visione celestiale?” La donna non parlò. Ofiuco le sfiorò le
braccia e i capelli e le gote e le labbra. La baciò. Venne colto da
improvvisa passione e le strinse le mani in segno d’affetto, ma la ragazza
le ritrasse.
“Ti amo, ti voglio rivedere”, le disse bramoso d’amore e di desiderio.
“Tra una settimana e per tre settimane se sarai qui, quando la luna
splende alta nel cielo, mi vedrai”.
“Mi troverai come è certo che la luna sosti in cielo tutte le notti,
anche con le nuvole ad oscurarla”, le disse in risposta.
Ofiuco fu colto così da un insostenibile sonno e si accasciò a terra
dove rimase fino al mattino seguente. La ragazza dalla pelle di perla e dai
capelli argentati scomparve così com’era venuta. Chi vide il re nei giorni
seguenti ebbe l’impressione che il dolore per la morte della sua regina
fosse scomparso come la patina di grigio sull’argento da troppo tempo non
lucidato. Era solare, il sorriso era tornato a incorniciargli il volto e gli
occhi avevano ritrovato la lucentezza di un tempo.
Nelle settimane seguenti Ofiuco non mancò mai agli appuntamenti
con la sua amata donna del lago. Quando la luna era alta nel cielo e
rischiarava tutta la valle e il regno, l’amato attendeva sulla riva del lago e
dopo essersi addormentato la vedeva comparire al proprio fianco con la
pelle di perla e i capelli d’argento. Alla quarta settimana, il giorno
precedente al loro incontro, Ofiuco annunciò a tutti i suoi sudditi che
avrebbe presentato una nuova regina a breve e che la felicità, come la
conoscevano prima, sarebbe tornata.
Indisse dieci giorni di festa reale e tutto il popolo poté usufruire della
gioia del re. Ofiuco, la sera, prima di dirigersi al lago, guardò il cielo, ma
la luna non gli sorrise. Non c’era. Pensò di essersi sbagliato, forse la troppa
gioia l’aveva distolto dalla promessa fatta. Quella notte dormì
profondamente e il risveglio fu altrettanto riposante.
La mattina seguente vide i preparativi avanzare con velocità e il suo
animo si rallegrò. Arrivò sino al lago e ne toccò le acque chiare e calme, il
suo spirito entrò in simbiosi con la Natura. La sera, Ofiuco si recò al lago
in attesa di incontrarla, come promesso. Questa volta la luna era
incastonata nel cielo stellato.
Ma quando arrivò capì subito che c’era qualcosa di diverso e
qualcuno steso a terra esanime. Era un’enorme serpente morto con la coda
che galleggiava in acqua, mentre il corpo deforme era adagiato sull’erba
bagnata. Tra le fauci stringeva capelli d’argento.
Quando si inginocchiò notò qualcosa che non si sarebbe mai
aspettato. La coda, o quella che credeva tale, iniziò a trasformarsi in piedi,
poi in ginocchia e gambe. Anche il busto cambiò forma e infine il volto
divenne quello della ragazza di cui si era innamorato. La pelle, prima
squamosa, divenne candida come la perla e liscia, mentre i capelli ne
adornarono il viso. Ofiuco la strinse a sé e pianse. Il dolore era
insopportabile.
Per il troppo amore, morì di crepacuore senza però lasciar cadere il
corpo della ragazza.
La dea del lago, sentendo prima il pianto di Ofiuco, e ora il grande
dolore che si spandeva sulle sue rive, prelevò i due corpi e chiese una
grazia a Madre Natura affinché il loro ricordo durasse nei secoli e nei cuori
di tutti gli amanti che in futuro avrebbero guardato il cielo.
Lei acconsentì e trasformò i due amanti in costellazioni, nella fascia
che viaggia tra lo Scorpione e il Sagittario, per ricordare che l’amore può
far soffrire come il pungiglione dello scorpione, ma raggiungere alte mire
e vette come la freccia scoccata dall’arciere. Da quella notte tutti gli
amanti poterono vedere Ofiuco sorreggere un grande serpente morente,
simbolo dell’amore fuggevole ma eterno e redentore.
La nuova costellazione, la tredicesima, fu chiamata “del
Serpentario”.