C’ERA UNA VOLTA LA PIAZZA

D’accordo!
Da tempo immemorabile non era più ammantata di verde, perché gli uomini – chissà poi per quale ragione! – con la loro mania di costruire, il verde hanno preso a cancellarlo per far posto al grigio dell’asfalto…
E con tutti gli svantaggi del caso, s’intende!
Perchè il “Signor Asfalto”, nell’estate si fa rovente (troppa esposizione al sole! Forse non cono-sce bene le regole della “protezione A, B, C…) e ti rimanda le sue lame di fuoco che sembrano in-cendiarti mentre contribuiscono a farti sudare ben oltre il dovuto; mentre nella stagione dell’anno che più si addice alle piogge (…e qual è, ora questa stagione? Qualcuno saprebbe dirlo?), intriso com’è di grigiore e di tristezza, tutto si bagna diventando scivoloso col rischio che tu vada a finire seduto dove meno avresti desiderato…
La piazza non era più verde, l’abbiamo detto.
Ma intorno intorno si affacciavano certe aiuolette gentili, certi fiorellini e gerani che ci teneva-no a farsi notare attraverso gli alberelli e le piantine ben curate, ed era sovrastata da un gigante buo-no, un magnifico cedro del Libano, con il quale – nemmeno a dirlo – la nostra protagonista aveva stretto amicizia e se la intendeva a meraviglia.
E che altro avrebbe potuto fare, in fin dei conti, ora che il suo verde era rimasto solo un so-gno?
E ricordava perfettamente – lei, la piazza – quando, ancora terra buona e generosa, le crescevano in grembo teneri fili d’erba e corolle minute… e aveva nostalgia di quelle rugiade deliziose che tutta la accarezzavano e la davano ristoro.
Col tempo aveva finito con l’adattarsi, ma la nostalgia era tanta… e durante la notte, quando tutte le cose facevano silenzio (finalmente!), la piazza si intratteneva amichevolmente col cedro, ri-cordando… e se la notte era serena, e le stelle si facevano vedere, anche il cielo, improvvisamente più vicino, e gli astri, dialogavano con la piazza.
Ma poi l’alba tornava sempre troppo in fretta, e con l’alba il rumore del giorno, e la confusio-ne prendeva il sopravvento, e tutto ricominciava da capo.
La povera piazza, a volte, non ne poteva proprio più!
Ma le sue giornate erano ancora passabili.
“In tutto si finisce col fare l’abitudine – era solita dire – ma l’abitudine non è un qualcosa di molto bello da acquisire, soprattutto per gli umani, che con il loro adattarsi a qualsiasi situazione compiono ben pochi sforzi per ritornare alla freschezza e al canto delle loro origini”.
C’era anche una fontanella, lì, nel suo spiazzo, una fontanella d’acqua fresca e buona che, col suo canto, le teneva compagnia. La piazza, il cedro e la fontanella, insomma, erano buoni amici.
Andava tutto a gonfie vele, fatta eccezione per qualcuno di passaggio, poco rispettoso degli al-tri, che, senza porsi tanti problemi, lasciava cadere di proposito certe cartacce e abbandonava i rifiu-ti non dandosi minimamente pensiero di collocarli negli appositi contenitori.
Questo dispiaceva e faceva soffrire i nostri tre amici.
La piazza, la fontanella e il cedro, infatti, non gradivano molto queste “presenze”, ma riusciva-no ancora a sopravvivere.
Il peggio si verificava sempre in occasione di una grande festa che gli umani – non si sa bene perchè, erano soliti solennizzare con tanto fracasso che proveniva da certi strani oggetti in movi-mento…
La povera piazza non ci capiva più nulla!
Il suo amico cedro scompariva alla sua vista, soffocato dal metallo colorato in movimento; il chiocchiolio della fontana non si udiva più… e nemmeno il profumo dell’erba poco distante riusciva a pervenire, superato da altri strani odori di cose che gli umani divoravano con apparente gusto e soddisfazione.
Neanche durante la notte alla povera piazza era dato riposare! E sì che si sentiva tutta rotta dal continuo calpestio di piedi niente affatto gentili che tutta la trapassavano, incessantemente, per ore ed ore…
Di fronte a quegli strani congegni, in un andirivieni da far girare la testa anche al ponte più so-lido che possa esistere, gli umani sembravano divertirsi.
Mah! La piazza non ci capiva proprio niente!
Forse per quella strana, acuta nostalgia, che le accendeva sempre più forte il desiderio dell’erba, dei fiori, del profumo della rugiada e del silenzio…
La prima notte fu davvero faticosa… ma era buio, e la piazza non poteva accorgersi di come la stessero riducendo; sentiva, è vero, uno strano pizzicorino, come un punta di bruciore, che, ora qui, ora là, con brevissimi secondi di intervallo, la raggiungeva in tutta la sua estensione; ma a respirare fino in fondo tutta la sorpresa, le ci volle il risveglio del giorno.
Si sentiva stranamente stanca, pesante, come se addosso le avessero rovesciato chissà quali cose!
Si ritrovò – povera piazza così mal ridotta! – a dover sopportare il fastidio di decine e decine di mozziconi di sigarette… e non era che l’inizio!
Perchè nei tre giorni successivi, quel triste preludio si trasformò in una aggressione vera e pro-pria, e della piazza si riconosceva ben poco…
Carte unte ovunque, e lattine, quali schiacciate quali no, ancora mozziconi di sigarette, bocco-ni di cibo scivolati dalla mano (o dalla bocca!) di qualcuno più distratto del solito; sacchetti di pata-tine o di altri simili pasticci, cannucce, coppette di gelato private del loro contenuto ma ancora in compagnia dell’amata palettina con cui erano state rigorosamente svuotate…
Davvero uno sguardo da fare inorridire – non stiamo a dire chi è maggiormente raffinato – ma anche tutti coloro che hanno un minimo di buongusto!
Del grigio fedele era rimasto alla piazza solo un minimo sentore… e si ritrovava tutta in uno stato da non dirsi…
Il grande cedro, poi, che dall’alto della sua magnificenza tutta la dominava, proteggendola e re-galandole il ristoro della sua ombra fresca e riposante, non poté fare a meno di esclamare: “Povera amica mia, come ti hanno ridotta! Chissà quanto ti ci vorrà per ritornare ad essere quella di pri-ma!…”.
La fontanella gentile, poco più in là, ai margini della strada, sempre disturbata dai motori delle macchine, riprese a chioccolare… ma era un canto triste, perchè nelle giornate trascorse era stata quasi soffocata, non unicamente dai rumori, ma dal miscuglio di oggetti tra i più svariati che invano le avevano fatto desiderare di assolvere al suo compito benefico: dissetare!
Nessuno, infatti, poteva accorgersi di lei!
Adagio adagio, con un lavoro nemmeno troppo accurato, la piazza ritornò all’aspetto consueto e fra i rami più alti del cedro si poté nuovamente udire il canto degli uccelli, disturbati, nelle loro melodie da altre canzoni e altri ritornelli, monotoni, uguali, sempre quelli, ripetuti fino allo stordi-mento.
La piazza fu felice di poter accogliere ancora il passaggio dei bambini, perchè amava i bambini come tutte le cose semplici, anche se i bambini, naturalmente, non potevano sentirla e comprender-la.
Nel cuore, però, le rimase la tristezza della povertà degli uomini che si sono lasciati invadere il cuore da tanta confusione, rinunciando allo stupore e alla meraviglia, al sapore tutto domestico del-la propria “casa”, dei luoghi ove ancora può scorrere la linfa vitale e rigenerante delle gioie pure e semplici, fatte di piccole cose…


Fiore di Luna

Era nato, il mio fiore, agli inizi della primavera, quando l’aria, ancora frizzantina, non aveva dimenticato del tutto i rigori dell’inverno e non poteva regale ancora il caldo intenso dell’estate.

Era un fiore bianco, luminoso, un fiore sconosciuto da quelle parti.

Per lungo tempo – ben più a lungo che per gli altri fiori – era rimasto un bocciolo serrato, come impenetrabile ai raggi birichini che continuavano a bussare al suo calice, quasi a dirgli: “Svegliati, è l’ora!”.

Ma il fiore continuava a rimanere chiuso.

Gli altri fiori lo guardavano stupiti: “Ma perché non vuole aprirsi? È forse diverso da noi?”.

Essi, infatti, già inquieti nelle capsule sigillate dei loro calici, non ci avevano pensato due volte quando i primi raggi li avevano accarezzati e si erano dischiusi senza esitazione; un poco incauto, qualcuno, perché le prime avvisaglie del caldo non erano poi state il segnale convenuto dalla primavera per il loro risveglio, e troppo in fretta ci avevano rimesso la corolla, intirizzitasi anzi tempo in quell’altalenare di tepore e di gelo.

“Incauti e sprovveduti” — aveva commentato Primavera — “Non tutti i miei fiori hanno imparato la meraviglia dell’attesa”. E si era allontanata, un po’ triste, di fronte a quei petali precocemente caduti su una terra ancora dura per il gelo non completamente disciolto.

Il mio fiore, invece, nonostante tutte le insistenze e le ripetute provocazioni dei vicini del prato – non tutti ugualmente malevoli, in verità! – continuava a rimanere sigillato, tutto racchiuso nell’attesa.

Nel suo cuore, però, misterioso e profondo, si intesseva tutto un dialogo d’amore con il Sole.

Era questa la sua meraviglia, infatti!

Egli, più degli altri amava il Sole, anche se non lo aveva ancora potuto conoscere con i suoi petali.

“Quando mi devo aprire?”, gli domandò un giorno, ed ebbe come un fremito d’intensa commozione che lo fece tutto vibrare. “Guarda, guarda!”, osservò qualcuno, “sta succedendo qualcosa”.

Ma ben presto fu tutto di nuovo silenzio e gli altri fiori non si accorsero più di nulla.

“Ti aprirai nella notte”, rispose il Sole. “Ti invierò una raggio di luna a schiuderti le porte sigillate, e la tua corolla sboccerà in tutta la sua magnificenza. Ti chiamerai Fiore di Luna”, aggiunse infine.

“E poi, nel giorno, ti vedrò?”.

“No”, rispose il Sole.

“Perché?”.

“Perché la tua vita deve essere un dono nel silenzio e nel nascondimento. Tu dovrai regalare la tua bellezza alla notte, dovrai accogliere in te la rugiada che, poi, ai primi raggi di luce, bagnerà la tua zolla e, per lei, ogni altra zolla. Ti ho creato per questo.

Soltanto quando tutto il tuo mistero sarà compiuto, potrai, con la tua bellezza e la tua grazia, appartenere anche al giorno. Ma ci vorrà molto tempo”.

Fiore di Luna non aveva capito molto, e tutto quel mistero cominciava a farlo soffrire.

“Quando accadrà tutto questo?”, osò domandare.

“Questa notte stessa. Ormai sei pronto. Ti puoi finalmente aprire”.

Trascorsero più lunghe del solito le ore di quella giornata, e al tramonto, quando il cielo si accese di colori ancora più belli, Fiore di Luna cominciò a tremare tutto di commozione e di gioia. Non sapeva cosa lo attendesse, ma capiva che qualcosa di grande, di ineffabile, di infinito, stava per avvolgerlo.

Interminabili gli parvero quelle ore, e la luna, sempre puntuale a fare la sua comparsa sul palcoscenico della notte, sembrava non arrivare mai. Finalmente l’oscurità si fece totale e la luna riapparve, in tutta la sua magnificenza, come splendido diamante incastonato nel manto scuro della notte.

Anche se poco potevano vedersi, il Sole, spegnendosi al tramonto, aveva consegnato alla Luna il grande compito per quella notte.

Fiore di Luna prese a tremare ancora più forte quando i primi raggi si posarono sul suo involucro verde e si lasciò possedere interamente da lei. “Cosa devo fare?”, le domandava.

“Niente, rispose la Luna, devi solo lasciarti raggiungere da me”.

E le si offerse tutto, mentre un dolore intenso l’attraversava: i Raggi di Luna stavano bruciando i suoi sigilli, e davanti agli occhi stupefatti della notte apparve una magnifica e irresistibile corolla bianca: Fiore di Luna, appunto! Era di una bellezza inconcepibile, tale da non potersi raccontare.

“Cosa devo fare, adesso?”, domandò.

“Semplicemente “guardarmi” e trasfondere in quello sguardo tutto l’amore che possiedi, tutto l’amore che ti ho dato”.

“Tutto qui?”.

“Sì, tutto qui, ma non è poco!

Attraverso il tuo sguardo discenderanno in te le rugiade notturne che poi, domani mattina, quando sorgerà il Sole, tu dovrai lasciare cadere sulla terra, e il tuo calice nuovamente si chiuderà. E sarà così ogni notte”.

Non era molto chiaro tutto quel discorso, ma Fiore di Luna comprese la verità fondamentale: non c’era proprio nulla da capire, c’era solo da amare e da ubbidire, tremante eppure nella gioia.

…E trascorsa la notte, Fiore di Luna tornò ad essere il bocciolo sigillato, oggetto delle chiacchiere e dei vuoti commenti di tanti fiori del prato. Questo gli faceva un po’ male, a dire il vero, ma sapeva bene cosa volesse da lui il Sole.

I primi Raggi intanto spuntati, si affrettarono a rubargli le rugiade che racchiudeva in grembo, per regalarle alla sua zolla. Nessuno si accorse di quel minuscolo prodigio; nessuno, all’infuori di un’umile violetta che in tutto quel tempo era stata ad osservarlo in silenzio. La violetta aveva ben compreso che in quel grande bocciolo si celava tutto un mistero d’amore, ed era decisa a scoprirlo. Non si era mai pronunciata, infatti, mentre tutti gli altri fiori commentavano, più o meno a sproposito, tra una incomprensibile curiosità e una scarsa benevolenza, quell’inutile quanto insignificante resistere alla luce.

“Io vorrei vederti! Io vorrei sapere qualcosa di te. Ho capito che tu racchiudi un grande segreto. Mi puoi sentire?”.

“Certo che ti sento! – rispose Fiore di Luna – Io ho sempre sentito tutto quanto dicevano gli altri fiori, non sempre buoni, in verità… ma… io devo obbedire all’amore!”.

“E non ti aprirai mai, tu?”.

“Io mi sono già aperto, ma posso schiudermi soltanto nella notte, per un dono d’amore che il Sole mi ha chiesto. È il mio profondo segreto e soltanto il Sole e la Luna lo conoscono”.

“E io non posso?”.

“Lo potrai se saprai avere paziente attesa, perché chiunque entri nel mistero della mia notte, ci può arrivare unicamente attraverso l’attesa e il silenzio che si fanno preghiera e adorazione di fronte ad una segreto che non può essere conosciuto e capito da tutti”.

“Io ho visto le tue rugiade, sai! Risplendono come cristalli, ma… sembrano lacrime di sangue… perché?”.

“Perché il Sole mi ha chiesto questo dono e quando il Sole domanda un dono ad un fiore, quel dono non può essere altro che amore, e amore è sempre dolore…”.

“E anche a me potrebbe chiedere un dono tanto grande?”.

“Anche a te, piccola viola! Sì che può chiedertelo! Se lo vuoi! E te lo chiederà, ne sono sicuro!”.

“Lo voglio, con tutte le mie forze! Ma dimmi: quando ti potrò vedere?”.

“Presto, molto presto, se sarai fedele; però… dovrai vegliare lungo la notte: te la senti?…”.

“Sì, mi basta sapere che ci sei tu accanto a me, e il resto…”.

“Il resto lo farà il Sole, lo farà la Luna”.

Nessuno degli altri fiori del prato si era accorto di quel misterioso colloquio, di quella rugiada di sangue, di quel calice che racchiudeva in sé la più grande meraviglia, l’amore, anche se in apparenza sembrava una corolla chiusa e irraggiungibile.

L’amore, oltre ai suoi tempi, ha anche i suoi misteri. Non si potrebbe dire quanto sia stata lunga l’attesa della piccola viola sempre più divorata dalla sete bruciante di vivere l’amore in una di quelle notti prossime a manifestare il mistero. E quando finalmente il tempo giunse, Fiore di Luna si rivolse alla sua violetta:

“Riposa, oggi, devi essere pronta per questa notte. E sarà fatica, anche se poi proverai una gioia indescrivibile”.

La violetta cercò di addormentarsi un pochino reclinando sullo stelo la piccola corolla all’ombra di un ramo, ma non riuscì a riposare perché troppo grande era il desiderio del suo cuore. Anche per lei, come per Fiore di Luna, la notte sembrava non voler giungere mai! Quando tutto fu buio, Fiore di Luna le sussurrò:

“È l’ora! Ecco, la Luna sta comparendo nel cielo…”.

“Ma come farò? Sarò capace di guardarla e lasciarla fare, come già tu? E lei lo sa?”.

“Sì, violetta, la Luna sa già tutto! Gliene ha parlato il Sole. Ecco, ti sta già guardando.

Apri più che puoi la tua corolla, lascia penetrare fin nel profondo i suoi raggi, ti sembrerà di morire, ma il tuo cuore si struggerà d’amore”.

Anche la violetta ebbe lo stesso dono dalla Luna, ed ogni notte, come il suo grande amico, quando ogni cosa taceva intorno intorno, sprofondava in un colloquio segreto e misterioso con il suo astro adorato; poi, ricca del suo dono, attendeva l’alba, colloquiando d’amore con lei, e il Sole, giungendo coi suoi primi bagliori, ne sigillava la corolla perché potesse dare rugiade di sangue alle zolle circostanti.

Era la via misteriosa dell’amore. I colloqui notturni con la Luna divennero sempre più intensi e prolungati: non si dà dono agli altri, pienezza d’amore, non si dà meraviglia alcuna che non scaturisca dai silenzi dell’ascolto e del soffrire. Anche la perla, nelle profondità marine, trae vita dal dolore.

Lungo e nascosto doveva essere il tempo dell’attesa, prima che venissero levati per sempre i sigilli dalle loro corolle. Ma accadde!

Nemmeno Fiore di Luna e Violetta ne conoscevano il momento; sapevano, però, che per essere “regalati” totalmente agli altri, sarebbero dovuti passare per quel lungo ed intenso silenzio che si affacciava sul loro mistero e di cui essi solo custodivano il segreto, vigili sentinelle su di una realtà che non potevano violare prima del tempo stabilito.

…E la vita nel prato diventava ogni giorno più difficile perché, quando non si riesce a comprendere qualcosa di diverso che ci sovrasta e sembra contravvenire alle comuni regole di vita, pur senza infrangerle, si rischia di pronunziarsi, di formulare giudizi poco pertinenti e non buoni.

Sarebbe stato quello il mattino designato per la loro totale epifania.

Fiore di Luna e Violetta non avevano timore, non si preoccupavano più di nulla: erano ormai trasformati totalmente dall’intensa comunione dei colloqui notturni con la Luna che aveva scolpito amore a caratteri indelebili fra le striature luminose dei loro petali.

L’alba, sorgendo radiosa, trovò le loro corolle tutte intrise di rugiada, essenza di luce e di armonia, intessute di sete purissime e trasparenti, e s’incantò a guardarle, e quando i raggi del Sole, risvegliando uno dopo l’altro tutti i fiori del prato, si posarono su di loro, non poterono fare a meno di fermarsi a contemplarli.

I fiori, poi, che non si erano ancora accorti di nulla, già pronti ai loro commenti quotidiani, rimasero senza fiato…

“La vera bellezza nasce dal di dentro”, disse, calmo e pacato Fiore di Luna; “nasce dopo lunga e paziente attesa… Non sono le parole a dare vita, non gli sprovveduti entusiasmi di un istante, ma il costante contemplare le cose con attento sguardo interiore, anche quando gli altri, attorno, senza sapere nulla, si esprimono in base ai loro limiti immediati e non alla speranza che dovrebbero nutrire e alimentare.

Solo Violetta ha compreso, e per la sua umiltà ha ricevuto lo stesso dono, quello che ha condiviso con me fino ad oggi. Tutto ciò che è stato donato ora torna, moltiplicato, sublimato, sconfinato…”.

I fiori ammutolirono tutti, pensosi.

Di fronte ad un prodigio di bellezza così grande, scaturita, si può dire, dal nulla di una notte (così pensavano i fiori inesperti, ma noi sappiamo i lunghi momenti di attesa, di silenzio,, di ascolto, di macerazione interiore…), non si poteva che custodire gelosamente il dono del mistero ricevuto, accarezzandolo e amandolo nel proprio cuore, perché l’evento meraviglioso di cui erano testimoni dettasse sapiente accoglienza e sublimazione d’amore in ogni nuovo istante della loro esistenza.

Nei notturni colloqui con la Luna avevano attinto tutto il dono possibile: non era più necessario tenere sigillata la corolla. Ora i loro petali potevano risplendere per tutti!


L’Ape e il Girasole

Era sempre la prima a svegliarsi.

Nella sua minuscola celletta, dove si concedeva riposo solo per poche ore, si muoveva sempre con la soavità della seta, per non fare rumore e non disturbare le sorelline ancora addormentate.

Poi se ne usciva, in punta d’ala, per andarsene in giardino.

Oh, non per lavorare già! – era ancora tutto buio intorno intorno – ma per recarsi accanto al suo fiore prediletto – un magnifico girasole – che, naturalmente, dormiva ancora.

Si sentiva dentro, nel suo piccolo cuore, un che di struggimento che le dava gioia e dolore ad un tempo, e aveva sempre più bisogno di quel silenzio del mattino per guardarsi profondamente e alimentare sempre più l’amore. Oh, l’Amore! Quanto ne stava gustando!

E sempre più cresceva, e sempre di più il suo cuore si andava dilatando… Amava tutti, ormai, di un amore tenero e purissimo, libero e sconfinato, ma incapace di ritirarsi di fronte a qualsivoglia rifiuto o mancanza di bontà. Le sorelline la guardavano stupite: non la capivano più!

Non che pure loro non avvertissero lo stesso amore, no, questo non si poteva dirlo davvero! Ma… era stranamente diversa, ecco tutto! E con quello sguardo perennemente sognante ad inseguire chissà chi, chissà cosa! Sempre la prima ad alzarsi, sempre l’ultima a raggiungere la sua celletta, quando già era notte. Dopo aver dedicato anche quegli ultimi momenti della sua lunga, faticosa giornata, all’incontro con l’amore.

E quando finalmente poteva ritirarsi nel suo minuscolo lettino, non riusciva facilmente a prendere sonno, perché il suo cuoricino era tutto occupato nell’amore, e pareva le volesse scoppiare dentro.

Ma quanto più crescevano la sua pena ed il suo affanno, tanto più voleva amare.

Usciva, dunque, quando regnava ancora l’oscurità della notte, per recarsi accanto al suo fiore, il suo “amato”, come le piaceva definirlo.

Il suo girasole dormiva, perché, si sa, la vita di un girasole sta tutta nell’inseguire il sole con lo sguardo, contemplarlo, nutrirsi della sua luminosità e dei suoi raggi, lasciarsi rapire totalmente dai suoi fasci di luce.

La piccola ape se ne stava lì, silenziosa e adorante. Era il suo grande amore! Non avrebbe saputo nemmeno dire se il girasole avesse compreso quanto lo amasse… ma a lei bastava rimanere lì, in silenzio, a guardarlo; più con gli occhi dell’anima, però, perché non si vedeva proprio nulla, con il buio non ancora lontano dalla vita.

…E intanto gli regalava palpiti, e struggimento, e mute implorazioni d’amore.

Quando finalmente spuntava il sole, il girasole si accorgeva di lei, e la salutava sorridente:

“Buon giorno, mia piccola amica! Già al lavoro?”.

“Buon giorno!”, rispondeva l’ape, gentile e affascinata, incapace a dire di più.

“Mi racconterai anche oggi il tuo amore per il Sole?”.

“Certamente, se lo vuoi! Ma ricordati che non devi fare troppo tardi! Hai da suggere il nettare da tanti fiori, e poi volare e volare, tra il tuo alveare e il prato, tra il prato e l’alveare, per depositare la preziosa ricchezza che si muterà in miele dolcissimo… Ma ti renderò felice, parlandoti di lui…”.

“Oh, sì, mio grande amico!”, gli rispondeva, “ma stai tranquillo, non perderò tempo. Stare ad ascoltare te è già un lavoro, perché è amore”.

Possibile che egli non avesse ancora capito?

“Ma io ho un grande sogno”, riprese. “Io non desidero più andare di fiore in fiore a visitare tutti i calici del prato, io desidero suggere da te il nettare prezioso e buono.

Puoi permettermelo? Puoi concedermi questo tuo dono? Non farmi più attendere, ti prego!”.

Quando all’alveare aveva manifestato questo suo struggente desiderio, nessuno l’aveva capita.

Qualcuna si era anche burlata di lei; un’altra aveva scosso il capo con un’aria da compatimento; un’altra ancora, invece, più attenta e riflessiva, l’aveva rispettata senza fare commenti; ma c’era pure chi l’aveva scoraggiata:

“Tu? Ma che cosa pensi di fare, tu? Sei minuscola e insignificante!

Come puoi ardire di avvicinarti al girasole?

È vero che ne sei innamorata, ma è tanto più grande di te che non riusciresti nemmeno a sfiorarlo con la tua minuscola proboscide, altro che suggerne il nettare!”.

“Ma io ci voglio provare lo stesso!”, aveva pensato nel suo cuore, e da allora aveva tanto sperato.

Non sapeva più come fare! L’attesa le stava facendo sempre più male, ma non riusciva a trovare le parole per rivelare al fiore il suo grande sogno. Finalmente quella mattina ci riuscì.

“Davvero?”, interrogò, meravigliato, il girasole.

“Davvero tu rinunceresti a tutti gli altri fiori del prato, per me? E se io ti deludessi?

Se io non rispondessi più alle tue aspettative? Sperare, desiderare, infatti, è una cosa, ma la realtà potrebbe essere molto diversa da come ce l’eravamo sognata…”.

“Non avrebbe nessuna importanza! Perché io ti amo!

Perché io non desidero altro che amarti, amarti, amarti e ancora amarti per darti gioia e renderti felice!”.

Beh, in fondo in fondo, il girasole lo aveva anche capito, ma non voleva dargliela a vedere… lo sapeva benissimo che l’ape si era innamorata di lui, che avrebbe rinunciato persino a vivere pur di restargli accanto, ma era, il suo, il modo di metterla un po’ alla prova…

Egli pure, però, aveva desiderato con ansia quell’istante, se n’era sentito bruciare tutto nell’attesa, e non gli pareva vero che finalmente la piccola ape avesse trovato la forza ed il coraggio di svelarsi totalmente a lui…

“Sai, mia piccola amica?! L’ho sempre saputo che tu mi ami, e desideri solo me nella tua vita!”.

“Dici davvero? E perché non me ne hai mai parlato?

Perché non me lo hai detto prima? Avrei sofferto meno in questa lunga attesa…”.

“Perchè attendevo la risposta del tuo cuore, perché desideravo che fossi tu a capire che più nulla era importante per te all’infuori dell’amore per me. E quell’istante è finalmente giunto…”.

La piccola ape si sentì pervasa da indescrivibile felicità: ora, finalmente, poteva amare il suo grande amico senza timore, svelata interamente a se stessa e a lui, concessa interamente all’amore e abitata totalmente da lui.

“Accostati pure, mia piccola amica. Non avere più paura! Non guardare alla mia grandezza, non confrontarla con la tua piccolezza, perché… è grande solo ciò che è amore…

È grande veramente ciò che noi rendiamo grande col nostro dono e il nostro sacrificio, senza mai arrenderci, senza mai stancarci, felici solo di donare e amare”.

“Allora poso posarmi e riposare tutta su di te? E per sempre?”.

“Sì, ma non dimenticare il nettare! Il nettare che tu mi ruberai – ed io, complice tuo mi farò, lasciandoti “rubare” tutto il mio prezioso tesoro! – non è per te, ma per il tuo alveare, per tutto il mondo ove tu dimori”.

“Non lo dimenticherò mai, mio Amato! Puoi permettermi di chiamarti così?”.

“Certamente che lo puoi! Tutto tu puoi, ora!

Vieni a me, piccola amica, entra profondamente nel mio cuore dorato, abbandonati senza più tremare…

Ricorda, però: l’amare è infinita meraviglia, ma è anche sconfinato dolore… Sei disposta, tu, a questo?”.

“Qualche timore ce l’ho ancora, ma con te… Mi basta amarti e lasciarmi amare da te…”.

“È questa l’unica strada. Ma non sarai mai sola! Ed anche quando ti sembrerà di non vedermi più, perché il mio cuore è tanto grande che tu, attendendo al tuo prezioso compito avrai la sensazione dell’immensità e ti sembrerà di non essere più in me, ricorda che io sono.

Più ti addentrerai nei segreti e nel mistero del mio cuore, più scoprirai l’amore, e più te ne sentirai pungere, e sempre più ti struggerai del desiderio di me, e grande nostalgia ti farà piangere, come se mi avessi perduto; ma non sarà mai così. Perché tu sarai in me ed io tutto nel tuo cuore e nei tuoi sogni…”.

Il girasole adagio adagio smise di parlare, e la piccola ape, tuffata nella sconfinata bellezza del suo cuore dorato, continuava a penetrare più profondamente in lui, sempre attingendo nettare, come da una miniera inesauribile di bellezza e di grazia.

Ed era proprio come il girasole le aveva preannunciato: immersa nella sua occupazione d’amore, non scorgeva i confini di quel cuore tanto grande, ma ne era sicura! Il suo girasole era in lei e lei in lui…

Quando giunse la sera di quel primo giorno tutto interamente abitato dal suo girasole, e non più soltanto come una nostalgia lontana, tornando all’alveare, le sue piccole sorelle la guardarono stupite.

Non l’avevano vista per tutto il giorno, e avevano una gran voglia di interrogarla, di rivolgerle tutte quelle domande che già avevano sciorinato dentro di sé…

“Ma dove sei stata tutto il giorno? Non ti sei fatta vedere per nulla!”.

“Ma sì, ha perso ormai la testa per quel suo girasole! E lui, invece, niente! Non se la fila proprio!”.

“Ma lasciatela, intervenne una terza, non vedete quanto è stanca?”. E la guardò con compiacenza, quasi con uno sguardo d’intesa…

“Sono stata per tutto il tempo col mio girasole…”.

Non aggiunse altro! Non poteva aggiungere altro!

La terza ape, quella che l’aveva un po’ difesa dalle aggressioni e dall’invadenza delle altre (e meno male fosse intervenuta in quel preciso momento, perché tutte le domande erano già li, pronte a sgranarsi, come le perle di una collana dal filo spezzato… che tortura, altrimenti, per il suo piccolo cuore!), le si fece accanto con una carezza dolce nello sguardo: se ne sentì tutta confortata, perchè, cominciava a capire, amare così non era certo facile, e tanto meno se non si avverte comprensione!

“Ho anch’io il mio girasole!”.

Fece ritorno ogni giorno dal suo grande amico, penetrando sempre di più nel suo mistero, nel suo buio e nel suo silenzio, nell’ascolto dei suoi palpiti e nell’abbraccio struggente che il suo cuore gli dava… e cresceva nell’amore, sempre più innamorata di lui e delle cose sue, attenta a conoscerlo, ad entrare nella sua vita e nella sua esperienza, e così, pure lei, prese ad amare il Sole con tutte le sue forze, fino a che il sole e il girasole non divennero per lei un’unica, grande realtà; un unico, grande cuore, un unico, solo, e sconfinato amore…


Numeri…
Numeri…
Numeri…

Ce li portiamo addosso da sempre, fin dalle radici, dal primo istante del nostro esistere, quando siamo ancora un punto invisibile che prodigiosamente si moltiplica… perché allora sono 15, 33, 60… i nostri giorni.

…Poi veniamo alla luce, e subito veniamo “denunciati” (per quale reato, poi?!) all’anagrafe del Comune che ci “registra” con tutta una serie di numeri:

nell’anno… nel… mese, il giorno… è nato/a… la cui famiglia risiede in Via… al numero

… E subito prendiamo posto in una bella serie di numeri dei nati in quell’anno.

…E così prosegue la nostra vita!

Andiamo a scuola e nell’elenco alfabetico abbiamo un numero d’ordine, per essere chiamati più rapidamente durante le interrogazioni, per esempio; e se il nostro cognome inizia con la lettera “O”, l’insegnante apre a caso un libro e capita la pagina “157” (1+5+7=13), noi che appunto ci chiamiamo “Orlandi”, dobbiamo saltar fuori e subire il “supplizio” dell’interrogazione, proprio in una giornata in cui di interrogazione non ne vorremmo proprio sapere, perché il giorno prima abbiamo tirato fino alle due del mattino con i nostri amici, sfidando le ire della mamma…

Ma il nostro cognome inizia appunto con la lettera “O” che, nell’ordine alfabetico corrisponde, precisamente, al nu-mero 13.

(Dio ce ne scampi! In questo caso la “sfortuna” èdoppia).

La nostra vita procede, così, tutta “tempestata” di numeri:

libretto sanitario, carta d’identità, tessera del circolo sportivo, patente, codice fiscale… quando non anche il “nu-mero” del letto in ospedale (non certo piacevole!) o del posto in aereo o in treno. Insomma, che ci piaccia o non ci piaccia, questi numeri ce li abbiamo proprio attaccati addosso, e non finiremmo più di elencarli!

Pensiamo anche al numero di scarpa, al numero di taglia per gli abiti che indossiamo, al numero telefonico e a quello – ben doloroso per il nostro borsellino – che rappresenta il costo dei libri di scuola (su cui non ci dilettiamo davvero!), e se poi i libri hanno un numero di pagine troppo elevato, poveri noi! Tutta “roba” in più da studiare!!!

Eh sì, cari miei: tutta la nostra vita è piena di numeri!

Attenzione allora!

Fra tanti numeri che ci spingono, schiacciano, scoppiano dentro e fuori di noi, attenzione: c’è il rischio di diventare pure noi dei “numeri”, “senza arte né parte”, cittadini senza meta e senza sogni in un pianeta che non ci conosce…

Ma il rimedio c’è, ed è alla portata di tutti: essere se stessi, con la propria identità, con tutta la meraviglia della propria unicità, con quello splendore di personalità che nessuno mai potrebbe etichettare con un numero di serie.

Occhio allora: ognuno di noi può essere davvero se stesso, e in modo stupendo!

Non è poi così difficile!

Basta volerlo senza uniformarsi alle mode, alla corrente che trascina tutti verso lo stesso mare, uccidendo l’identità e l’originalità di cui il Creatore ci ha fatto dono…