Calendario perpetuo

È perpetuo il calendario
che rivela e fa sapere
solo l’apparente forma
di quel giorno che verrà.

Appagato fa il curioso
ma delude quel cimento
inguaribile alla mente
di conoscere il futuro.

Al passato e in cuore puro
si rivolga solamente
l’interiore sentimento
a discioglier il dubbioso.

Quel reticolo… cadrà!
Del di venturo l’orma
non fu data nelle sfere
di saper, ma di un sudario

certo a tutti è in calendario!

Gennaio – Capodanno al verde

Uomo quasi prete – congiunge parole
a donna,
battonamancata lei grissinigùrgita.
Io bevo vin rosso.

Addobbi – passatonatale –
toh! “Figliacapriccio”
papàrla con “figliadovere”.
Moglie – rompibusta –
appagatacibo,
dialoga con tutti.
Vai! Egemonizza parola.

Anpasti melmosi tagliere salame
(con peli?)
(capelli – di bionda avventora?)
È buono mangiare!
“Comunque” è parola chiave.

Mio figlio in amore
è “mangiapennette”
– con gusto,
erotico gusto –
felice fa moglie:
Buon Anno!

Febbraio – Passa il Carnevale

Mia strada coriandola di gente
divertimento fingono
uomini-donne, espongono glutei
uomini scimmia fannarti dementi
frastuono suonano mura domestiche
mi chiudo persiana-chiudo me stesso.

Passa qui il politicarro.
Passa il grande musicarro.
Passa banda banderuole.

Giovani alti sbandierano il volo.
Naneggiano rivestite coatte
donne, con finto sorriso espongono
volti sfatta stagione.

Rientro con un diffuso malessere:
“val dunque la carne quel tanto?”

Torna tu sottile mia mente a tessere
neumi di atavico canto.

Fiore di Marzo

Venni al mondo fiore di Marzo
in un presto mattino
di sole, pungente di brina.

Fin dal primo respiro
di roseo fu tinto il mio volto,
di miele il mio tronco interiore.

Cinquanta e più cinque gli anelli
intride lo spirito e m’erge.

Torna!, mio pensiero, all’infanzia,
in quella mia casa castello
di pane, di vino odorava.

Con canti e passi l’allegravano
fatemarìe affaccendate.

Tutto quel gineceo era per me,
sì sempre ne portai nel cuor
[l’incanto,
per sempre fanciullo beato e… Re!

Aprile di festa nazionale

La mia canzone canto,
l’orgoglio laico e santo.

Andammo alla Gran Sala
“O bella ciao” cantammo
in concertar di voci partigiane.

L’Uomo Buono con noi divise il pane

Contro i soprusi della boriamala
le nostre voci alzammo
di luce si segnò per noi il cammino

L’Uomo Buono con noi divise il vino

Aprile insieme unisti
la Pasqua e i comunisti.
La Croce e i fiori,
[le falci e i martelli.

L’Uomo Buono così fe’ noi fratelli.

“Marina di Maggio”, proverbio

T’ho visto, stercoraro
che sulla rena tiepida
al tuo rifugio ascosto
paziente in gran tenacia
la sfera trasportavi
per più di cento passi.
T’ho visto, mio collega,
tu, mio nemico, tessere
tue trame occulte e invise.
(Dolor mi fanno ancora!)
A fugar d’empio in Maggio
al Mar di Vasto venni.

La fata Verdebrina,
del ben di luce l’Angelo,
tutti in compagnia,
ai miei pensier, Maria
sì m’ispirar conforto,
dall’alto dello Spirito,
d’unir quelle due vite:
lo stercoraro e l’uomo
che in lor necessità
pur proni vanno a coglier
ciò che in rifiuto va.

Giugno e la fine della Scuola

Il profumo dei tigli
del tuo viale ombroso
s’accompagnava al fremito
d’infanzia in libertà.

Senza fatica alcuna
noi dunque s’otteneva
d’uscir dai banchi scomodi
ai fiori all’erbe ai giochi.

Così arrivava Giugno
le membra vive ai sensi
a ben goder di un transito
che, troppo poco assunto,
si stemperava a un trepido
vociar in contrappunto.

Luglio di partenze.

A Luglio fu
che terminai gli studi.
A Luglio fu
che sen’ morì mio padre.
A luglio fu
che io partii soldato
A luglio fu
che s’incendiò il mio cuore.

Tu, Luglio!, gran vertice,
vettore a mie vertigini,
più volte a un grande giro
[m’hai portato.
Al tempo ti fai mezzo del cammin,
eppiù, per me, di valico sei stato.

Sì Luglio a me è l’addita
di quel che amaro è in sorte:
che il culmin della vita
riduce tutto a morte.

Agosto tentatore

Le mura antiche di un convento
ardean di sete alla canicola.
Un frate obeso e stravagante
s’innamorò col sottoventre.

Tentò sedar sue voglie, pria
con un feticcio ad arte fatto,
essì estinse sol il ben rimasto,
all’orgia allor si fe’ di pasto:
a molestar andò fanciulli,
finanche vedove e poi suore.
D’ossesso armato fin se stesso
ritorturò all’infinito
acché, di stringer, fu sfinito.
Chi pensi tu fu il vincitor?
Il tentator o malnatura?

Passò l’Agosto e la canicola,
di voglia infame al frate svenne.
Fu pace in quelle antiche mura.
Tornò impunito l’empio frate
eppiù beato alla sua cura!

Settembre in caserma

Più trent’anni son trascorsi!
Con lo zaino pieno pieno,
col feroce mal di testa,
di Settembre venni a Roma.
Aria di casa mia, aria di libertà
sì cantava la canzone.
Tutto men che casa mia
tutto men che libertà
Cecchignola si parò.
Roma, dolce alla campagna
Laurentina, dall’altana,
sentinella mi guardavo
dentro e dentro e mi dicevo:
“Ma io qua, che ci sto a far?”
Quando scesi dall’altana
un vociare dappertutto:
“nudo Stefano ha sparato
alle ruote di quel camion
l’han trovato muto in branda
niuno sa che cosa far!”
Seppi allor perché ero là!
Mia dolcezza (forse Settembre!)
consigliò a quei colonnelli
d’usar sol d’umanità!

Ad Ottobre si fa il vino

L’uva in pesta è già nel tino!
Ben ricordo da bambino
di quei detti popolani
di sapienza forti e sani,
or desueti e pure strani.
L’homo sapiens più non è
diventato è “tecchenologo!”
Mamma mia!, che passo lasso,
tutto ormai è uno sconquasso,
anche “per” … è lì il sessuologo!
Pace e amore non ce n’è!
Non sia mai tirarsi indietro!
Sempre avanti, sempre avanti!
Sol che… deve usarsi il metro
che ci fece geni e santi!
Se ad oriente nasce il sole
l’uomo giusto ne convien
conseguenze e sue decenze.
Basta! Mondo di parvenze!
Fatto a nostra tasca il pien
ci hai ridotti a vecchie suole!
Venga Ottobre Autunno saggio
al profumo del buon vino,
all’umanità coraggio,
con delizie ancor di fino!

Novembre Sapiente

Novembre
i morti
saluta.
Comparando,
ai viventi
si riannoda
la dolce intrista
memoria, corda
d’uccelli in volo.
Nella nebbia ascendono
dei morti l’anime,
tremolando fluttuano.
Mi fermo a misurare
qual senso abbia il migrare.
È tutto solo un sogno!
Quella nebbia novembrina
è il respiro del buon Dio
tutto sale, tutto danza.
La vita è un dovere e prepara
La morte è un diritto che assolve.
È a noi quel comprendere in sorte.
Novembre, d’un Tutto Sapiente mostra
il sogno di Dio
[ch’innebbia e giostra.

Regalo di Natale

Dicèmbreottàntasèttestaziónecentràle
milànofreddattésatrènoperilsùd
mangiopìzzatèrzoboccóne
arrìvitùafricànoocingalésenonsobène
fràsedìcitùalìnguaòcchisgrànilumanàti
frasescùsapertùogèstoinlàcricìglia
stàcchipìzzadàmiabóccadamìamàno
fùggivèrsogràndescàlaguàrdiretro
cérchivóltomìosconvòlto
mìovicìnodàsentènzdirincuòro
dìced’òvviochelafàmetihadecìso
mìaméntecuòresbàlzasiraggrùma
suònid’ànceprimordiàlifànnol’èco
noncapìscolanatùradicheaccàde
nonèunfùrtononèunfùrto
queéloquélloèunmìofratèllo
sonoìochestorubàndodachenàcqui
iochemàngiobèvoedòrmo
eppòipàrlodicazzàte
gràziegràziefratèlmìogràzieancóra
èunregàlodinatàlevéroegrànde
discoprìrediquelfùrtoilségnofòrte:
quàntoamàr’èmìafortùnall’altruisorte.


 

Poesie di viaggio

Ho preso due fogli
di carta da un cesso
per scriver poesie,
su fondo di grigio
chiostrate di blù.

Rimbalza la vita
rotaia di treni
follanti di ansie
colori sbiaditi.

Un palpito rosa
dall’Arco dei Monti,
“Corri mio treno,
portami a casa!”

È lì che mi aspetta,
con fremito dolce,
la donna che amo.

Al giovane violinista

(9 777 898 79 79)

Nelle mani il suono s’incorda.

Vola all’acuto armonico,
riannoda gli universi,
cadenza di metafore.

S’inerpica al chiaroscuro,
respira – fino all’impossibile –
la mente erotica fluttua.

Dal timpano interiore
fino al diapason invisibile,

tra spazio e tempo è l’arco:
dilata – da terra – il Cielo.

Aria del mattino

Il caffè, ha già gorgogliato. Stanca
è rimasta nella coppa una crosta.

La cenere cade, dal tuo balcone,
mentre guardi un po’ in alto.
Aspiri in tabacco e d’aria pungente
le tue primavere abortite e lente.

T’intravedo mentre scendo le scale
veloce e fugace
[il pensier t’immagina.

Va in alto il tuo sentire
povero, di poco appena, e calmo.
Metti in insieme
[ la vita e lo smacco
pensieri d’aria crostati a tabacco

….parole ultime

Io, benedetto frutto del tuo grembo
ti guardo, mentre l’avvizzito tuo
rivestimento s’ingrinza a corticola
Parli poco. Ormai son pochi
[gli argomenti,
pur anche il sentire è duro per te
Stanca ti posi sul letto di spilli,
un gemito appena all’acqua sorsata,
a gocce,
[da un conchiglino, il grosso
lo prende il braccio di flebo servito.
Le forze tue, un tempo inesauste,
popolano la mia memoria, quando
pure scavammo duri solchi, forza
della mia carne, del sangue mio tuo
Ora parto. Per tornar dove io
di prossimo domani sarò appassa
mollezza, – o forse, –
[disfatta cenere.
Lontan da te trasmigro
[ad altri debiti.
Il Vento mi riporterà i tuoi gemiti,
nel cuor, d’infanzia i miei ricordi,
[tremiti.


 

Vecchi sandali

O vecchi sandali! di più non siete.
In un cassonetto vi ho consegnato,
e a voi d’insieme le ore più liete:

la gioventù, l’andare spensierato
che distraeva i sensi
insieme al riso
sfronto e quei consensi

al gioco del conoscere.
(veder le ansie pascere
sol nell’altrui recinto!)

Or che
[d’anziano incipio ad esser cinto
saporo l’età triste
che aggruma nei pensieri,

doloranti, le mie piste,
traversate o sol sperate
di speranze o d’atti fieri,

che come voi, miei sandali
consunti e deformati,
si fanno al tempo pendoli

trapunti e disarmati.
Per voi profondo affetto
per sempre porterò

ma pur quell’ansie inganni,
estremi slanci al giovanil difetto,
per sempre ritrarrò.

O buoni sandali
[dei miei begli anni!
Tenete pur con voi nel cassonetto
tutto quel giovanil
[che in vita ho stretto.

Profezia di un Angelo semplice

La mia mano stretta a complice
tu mi consegnasti il nome:
“Angelo”, infelice e semplice.
Con pioggia di rosso in terra
la fronte facesti spacca.
Sfrontatezza giovanile!
(poco accorta per gli abusi –
tossicomane evidente -)
la discesa a scalinata
pedalar in voglia desti.
Ti raccolsi rantolante
“non portatemi dai medici”
sbianco in volto in sudorpianto
già in premorte sussurasti:
“perché mai ho fatto questo?”
In quel detto fosti Segno
profetando dell’umano
che si getta d’incosciente
giù nel baratro d’abisso.

“perché mai ho fatto questo?”

Duro è il tento di ragione:
dal tuo gesto pur raccolsi
nostr’amara condizione.

Íncubofóscolo

partitomezz’orapiùtardi
mangiosnacksalato
montantepressione
eccouomocuffiamobile
ascoltaradiosestesso
coppiaessemmeessetrattienenervoso
brusiosommessofabuonotrascorrere
trenorallentastazioneimportante
ricordo traversate notturne
MilanoBolognaPescaraAvezzano
AvezzanoPescaraBolognaMilano
Milano-Bologna-Pescara-Avezzano
Avezzano-Pescara-Bologna-Milano
berrettolanasugliocchiprontecibarie
aranciatabirracokaaaa!
paaaniniiiibirraaaa!
aranciatabirracokaaaa!
umanitàvaria variaumanità
riflessocondizionatobigliettoprego!
Traumanotturno:cambioaPiacenza!
nebbianebbia, cinque sottozero
orezerotrecinquantadue
traumaferroviereleghistanebbiamante
traumatrauma trauma
donnavecchiafapiedino/a me!piedino!
Trenoadessovaveloce correcorre
correrecupera correrecupera
buonobuonofaricordo
quasiacasa quasiacasa
dopooredieci/dodici
dopoore sbalzi notturni
fortirumoriconmaleodori
fumieumori umaniumori
Foscolo, Ugo tu,
tuo scriver sa poco di treno.
Mio treno sa molto di te.


dalla raccolta “I Cinque pani”
due racconti poetici

Cantastorie Siciliano

– Trascinavano i piedi stanchi e gonfi,
da una marcia già lunga
più di trenta chilometri. –
Era un giorno afoso di prima estate.
Si conoscevano da pochi mesi.
Già dall’addestramento
s’erano confidati,
dicendosi le cose più intime.
Sapevano tutto l’uno dell’altro,
ricchezze miserie aspirazioni,
quelle reali e quelle impossibili,
e infine, anche quelle quotidiane,
da vivere in caserma,
da soldati di leva.
Mancavan loro otto mesi al congedo.
Fantasia giovanile
già volava oltre i muri
sulle cinte e le altane.
Mentre marciava, Stefano inventava,
per l’amico Francesco,
versi, veri, di vita innamorati,
senza erudito, semplici,
con la sintassi dei vicoli poveri.
Della sua città, Palermo, quei versi,
dicevano, di mondane e di sesso,
d’amori eterni e d’amori incestuosi.
Francesco era di buona famiglia,
comunista, da suo padre avvocato
aveva ereditato,
in sostanza e cultura,
amore e passione per l’arte e il bello.
Pur virtuoso del flauto,
finita la naia avrebbe indossato
la toga a Treviso, da magistrato.
Era figlio di pescatore, Stefano,
per quasi l’intero anno imbarcato,
primo di sei fratelli.
Il sole era lì per tramontare.
Tra un verso e l’altro Stefano
dava vita a strane mitologie.
Francesco l’ascoltava
insieme al dolore inflitto dalle piaghe
che la dura marcia apriva nei piedi.
Stefano apriva – angoli diversi
dove regno animale trasmutava
in alberi e in rocce.
Da vagine di mondane ferite
partorivano fiori
d’arancio – e di pesco.
Braccia di pescatori
si facevano pinne,
ventose di muschio e alghe intessute,
a pietre che raccontavano storie.
Un sereno distacco
dalle parole – fantasticamente –
diveniva in pura semplicità
– sempre riconoscibile e tenero –
Era un tramite puro, per Francesco
quella sensibilità del suo amico.
Sapeva riannodare
le corde più intime,
mettendo a nudo – dolorosamente –
i suoi drammi interiori,
la consapevole infelicità
della vita futura,
che inesorabilmente lo aspettava,
con la toga a Treviso.
– Stefano! – Le sue alchimie poetiche! –
Francesco si chiedeva
donde l’amico attingesse quel mondo
magico e di riflessione profondo,
dolce per la sua anima,
d’inquietudine e pace.
Estroverso e sincero,
in ogni suo atto Francesco lo amava.
Geniale istintivo ingenuo creativo
Libertà! – che solo da povertà
nasci – fioriva “in Spirito”
Stefano, la vita beatificando.
Nei postriboli imbevuti di mafia
le mondane diventavano madri,
d’assassini sorelle,
raccontando quotidiane miserie,
di dolori che vanno oltre la cronaca,
penetrando la storia.
Francesco ammirava e invidiava Stefano,
le sue ferite gioiose – che mai
lui avrebbe conosciuto o provato –
di un’umanità triste e desolata
eppur anche sapiente.
Calava il sole ma non la calura.
Il giovane ufficiale comandante,
Daniele, sotto ai suoi stessi comandi
vacillava in malessere.
Stefano sapeva farsi giullare
per poter tutto dire.
S’accorse che Daniele stava male.
Davanti al plotone prese a danzare
e sguaiato cantò:
Ohi Tenente! Tenente!
Hai mai visto un sole pieno di vermi?
Ohi Tenente! Tenente!
Ascolta il vento che grida d’orrore
alla morte dei vermi,
mentre le carni vive,
tutte a brandelli, fanno l’amore
con l’ossa dei teschi, come gli estranei.
Ohi Tenente! Tenente!
In Inghilterra… è l’ora del tè!
Qui sulla terra… è l’ora dei vermi!
Ci restituirà mia madre i danari,
rifiutando il suo corpo
per sempre, ai suoi clienti maiali?
Ohi Tenente! Tenente!
Ne vuoi un po’ anche tu?
Un po’ di vermi anche tu un po’ di corpo?
Il tuo male morire
vedrai morire! Morire! Tenente!
I soldati si fermarono increduli.
L’ufficiale interdetto.
Le gambe e i piedi sembrarono al giovane,
in quegli istanti, ammassi di pietra.
Comandò il riposo, senza pensare.
Sfiniti per il caldo
tutti a terra crollarono.
Non così fu per Stefano.
Cantò ballate siciliane e antiche,
a quelle epiche storie mescolando
l’iniziazione erotica
di Paolo – il suo fratello minore –
Il flauto di Francesco,
con dolce melopea,
si mescolava all’eloquio di Stefano.
Daniele da terra tentò di alzarsi.
Il dolore lo trattenne nell’erba.
In silenzio ascoltò.
Ha dodici anni mio fratello Paolo
Mamma fa la puttana.
Mio padre non esiste.
È andato in fiore Paolo
quando le dita sue
erano segnate dai primi calli
dei sacchi della calce.
Mamma allora l’ha portato con sé.
Nel letto, quello grande!
Mamma è bionda e a Paolo piace la birra!
Sì! Sono stati due ore sul letto.
Ha dato il latte a Paolo,
mamma insieme alla birra!
A mamma mia un uomo che non c’è
ci ha lasciato Paolo
l’amore a mamma mia
ce l’ ha ridato Paolo.
Daniele stava male.
Francesco se ne avvide.
A rimetterlo su
provò, chiedendo aiuto a Giovanni,
infermiere aggregato
da pochissimo tempo al battaglione.
Giovanni era abruzzese,
d’immediatezza e intuito,
segno di un’intelligenza istintiva,
alto, bruno e con la forza di un toro.
Parlava poco e stava ad ascoltare
Francesco e Stefano per ore ed ore,
nel silenzio assorto, come a vegliarli.
Francesco lo ammirava.
Giovanni prese il cordiale.
Daniele bevve a sorsi.
Sembrò riaversi un po’.
Stefano s’accostò.
Daniele per un braccio lo tirava.
Giovanni notò nel volto del giovane,
di strano colore, le orbite iniette.
Riprese a star male, di vero male!
Mal sopportò l’indifferenza, Stefano,
degli altri soldati all’erba sdraiati.
Vermi! Voi siete vermi!
parlano e decidono
i capi e i capi dei capi. – E a voi! –
Non ve ne frega niente!
Voi vi appiastrate
Vermi vigliacchi!
Uomini forse siete?
Vermi! Voi siete vermi!
Voi non siete capaci
di far vomitar uno che sta male!
Nemmeno per amore!
Ohi Tenente! Tenente!
Questo male s’è attaccato al tuo sangue!
Tu sudi e ‘sti vermi stanno a guardare!
Ti guardano i vermi che hai comandato!
Come sempre ti guardano,
senza amore e senza odio.
Ohi Tenente! Tenente!
Ti ho odiato anch’io!
Perché hai catturato due stelle, tu!,
per infilzarle su … una divisa
che ha un colore di sterco!
Ohi Tenente! Tenente!
Ora i tuoi occhi guardano alle stelle
per farsi catturare!
Ohi Tenente! Tenente!
Ora ti amo perché male stai!
Daniele trasalì!
Poteva zittirlo, punirlo, ma…
Con l’affetto di Stefano, insieme,
sentì quelle parole
fraterne e poi paterne.
Chiamò per nome Stefano
Poi nel dolore, nonchè nella nausea,
infreddito dal fastidio essudato
a parlare provò:
Qualcosa di avariato ho mangiato
nel sangue mi è entrata, e nel respiro.
Sento l’alito putrido,
non ho forza e non vedo.
Poi afferrò Giovanni
issandosi a mezzobusto in delirio:
Babbo, mio caro Babbo!
Sei forte come sempre!
Sei venuto a trovarmi!
Babbo, mio caro babbo!
Bene hai fatto, sto male!
Aiutami! Come sai fare tu!
Devo, devo, devo farli tornare
al campo, sono io il responsabile!
Babbo, mio caro babbo!
Fammi star bene! Non posso essere debole!
Giovanni lo tenne forte per mano,
pregando, come faceva sua madre,
come gli aveva insegnato sua nonna.
Piano adagiandolo, mollò la presa.
Pose Daniele su tute mimetiche
da Francesco predisposte sull’erba,
asciugandogli la fronte febbrosa.
Francesco contribuiva straniato,
timoroso di assistere al dolore,
ad un fatto imprevisto
che l’obbligava a scegliere.
Ricordò quando alla Sapienza a Roma
una sua compagna vide aggredita,
bastonata da fasci e celerini.
Ricordò con tristezza
la sua ipocrisia, la sua omertà,
tutte le addotte giustificazioni
per non aver soccorso la ragazza,
rimasta venti minuti, nel sangue,
a pochi passi da lui inanimata.
Francesco ammirò dell’animo forte,
in Giovanni, la solerzia istintiva.
Bella! Quella silenziosa presenza!
A lui dava il coraggio
di pensare e d’agire.
S’accorse dei movimenti labiali,
piccoli intensi e rapidi.
Giovanni pregava con sguardo dolce,
ineffabile, più forte del solito.
Con semplicità, anche lui pregò.
In quel luogo in divenire di eventi
gli sembrò giusto e naturale farlo.
Non lo faceva da quindici anni!
Cercò Stefano ma… era scomparso!
Di lì a poco la sua voce s’udì.
Ohi Tenente! Tenente!
perchè esiste l’Amore?
credi tu nei bordelli?
Chi ti darà il suo corpo
anche l’alito suo ti darà,
e con quello il suo spirito!
Ohi Tenente! Tenente!
Il sole scalda le nostre miserie!
Nelle notti di stupro
ci fu sempre la luna!
Ohi Tenente! Tenente!
Il male ora hai mangiato!
Ora chiedi a tuo Padre
Aiuto aiuto aiuto!
T’ha insegnato a guarire
quando t’ha fatto nascere, Tenente!
Ohi Tenente! Tenente!
Restituisci al tuo Cielo le stelle!
Ohi Tenente! Tenente!
A mo’ di fronde antiche
Stefano aveva cantato quei versi,
facendo scaturir l’intonazione
in modi ancestrali, come un rapsodo.
Prese da parte Francesco e Giovanni.
Lesto li comandò.
Francesco accese il fuoco.
Govanni andò nel bosco.
Stefano stette vicino a Daniele,
poggiando le mani sotto lo sterno.
Scendeva la sera d’umido fredda.
Il campo distava ancora,
lontano, tra i sentieri di pietraia,
nell’Abruzzo montano,
nella zona della Forca Caruso,
terra fascinosa, infida inospite,
tempio dove la natura s’incanta
color di vergine in abito sacro.
Di quella natura era Giovanni,
integralmente facendone parte.
Di sapienze, dagli avi ereditate,
egli aveva imparato
efficaci erborismi,
medicamenti magici.
Tornò portando erbe profumate
da macchie e da fusti scelte e raccolte.
Ne fece un infuso in una gavetta.
A Daniele dette il tutto da bere.
Un leggero rossore nelle gote
fu segnale di speranza per tutti.
Francesco, ben usando le mimetiche,
a mo’ di portantina,
aveva legato giacche e calzoni
a lunghi e forti rami.
Coricato Daniele sul quel trespolo
ripresero a marciare,
di lena verso il campo,
a passo di campagna.
C’erano in testa Giovanni e Francesco
che saltellava, il flauto suonando
con ricche e belle invenzioni melodiche,
parafrasando un Canto popolare
“Solo l’amore consacra… e onora”.
A lui faceva il discanto Giovanni,
cogliendo scelti fiori,
e intrecciandoli, con abilità.
Tutta la truppa rispondeva al Canto,
via via, con gran pazienza, imparandolo.
Un’unica gavetta,
per le mani e le bocche,
tra i soldati passava.
Il vino di Giovanni,
per l’occasione posto nello zaino,
così fece il suo giro.
Gallette e pane fresco
s’unirono in comune.
Senza più dolori ai piedi e con l’ali,
tra l’erbe il corteo oscillando andava.
Navigavano di qua e di là.
Chi cantava più forte.
Chi un po’ s’allontanava
e inghirlandato tornava di steli.
Nessun più bestemmiò.
Non fu più anche il gergo di caserma.
La sera s’avanzò.
Daniele migliorava,
sempre meno soffriva.
In coda al corteo Stefano urlò
Ohi Tenente! Tenente!
Dà un bacio alla fontana
dove ci hai bevuto
il male e quel dolore,
come fa una puttana!
Guardalo, quell’ascesso!
Ti purifica, quello,
con il succo dell’erba
che è umile e guarisce!
Ohi Tenente! Tenente!
La terra – adesso – si fa baciare
dalle stelle e dal cielo!
Ohi Tenente! Tenente!
Ora lo sai! Che non devi infilzarle,
come vagine di madri puttane!
Ohi Tenente! Tenente!
Sei morto morendo, e adesso: vivi!
Ti fanno tutti festa!
Ohi Tenente! Tenente!
Anche per noi si fa festa, Tenente!
Avventurandosi, tra erba e sassi,
il corteo respirava
suoni e canti amorevoli,
ordinati dai versi
di quel poeta scomposto e fantastico.
Senza fatica arrivarono al campo.
Daniele, guarito, scese dal trespolo.
La sera stava per addormentarsi,
vogliosa della luce delle stelle.
Daniele le sue due stelle staccò,
dalle spalline rapide passarono
tra le mani di Stefano.
Voglio ridar la luce
a queste moribonde,
belle stelle tradite!
Una canzone Stefano cantò:
Ohi Tenente! Tenente!
Mettile in terra e guarda!
Stanotte un mago dal cielo verrà
e lassù per te le riporterà!
Come sempre con le lucciole fa
Che ridiventano stelle si sa!
Perché qui sulla terra
Hanno dato la luce
Pure alle serpi, pure!
Ohi Tenente! Tenente!
Ti chiamerò per nome!
Ohi Daniele! Daniele!
Anche mio padre ha un nome?
Ohi Daniele! Daniele!
Un nome ce l’ha ma io non lo so!
Ohi Daniele! Daniele!
Nome che a mezzogiorno,
a mezzanotte, aspetto,
a tutte le adunate!
In terra le stellette
Stefano stava lasciando cadere.
Giovanni lo impedì.
Risistemò i gradi sulle spalline
rassicurando in silenzio Daniele.
L’accompagnò alla Tenda-Ufficiali.
Francesco rimase solo con Stefano.
Stefano ebbe una crisi di pianto
convulso e protratto, strano ma atteso.
Così ancora e tremando,
con la bava alla bocca,
lo vide Giovanni quando tornò.
E cullandosi Stefano,
tra gemiti e sospiri,
ricominciò a cantare,
accovacciato in braccio
a un materno Francesco
Madre, Madre puttana!
Perché a Paolo solo
Ci hai donato il tuo frutto?
Solo un nome mi hi dato
con un padre di carne!
Io, che ho il cielo negli occhi,
non ho potuto al tuo
mescolare il mio sangue!
Madre, Madre del Cielo!
Padre, Padre del Cielo!
La parola riprendimi
Prima che io bestemmi!
Parola! Che parola!
Che parola puttana!
Ti fai soldo, te stessa
insultando, Puttana!
Ma in cielo pur sai stare!
E là porti con te
puttane purulente,
la merda di un tenente,
i froci d’Inghilterra,
tutti i democristinani,
fascisti e comunisti,
e pure i cardinali!
Chi ci rimane allora,
con noi, qui sulla terra?
Una madre puttana,
un fratello felice
e un fratello che piange
facendo… il soldato!
Giovanni l’ asciugò
sulle labbra e le palpebre.
Tra le braccia lo prese.
– come è esile Stefano! –
Lo portò nella tenda
Lo depose all’addiaccio.
Lo segnò con la Croce.
Con lui il sonno aspettò
che arrivasse sereno.
Velocemente uscì.
Vide Francesco vagar su e giù,
la piana misurando, con tristezza.
Era annullato da quanto accaduto.
A malapena riusciva a reggersi.
In quel giorno di naia
dai contorni inquietanti,
sentimenti e affetti in lui ridestavano
dolorosi pensieri
vocati da quegli eventi trascorsi.
Ecco ai piedi il dolore!
Riprendeva a pulsare.
Tolse lesto gli anfibi.
Provò a staccare dai piedi le calze.
Venne via la sua pelle.
Livido e tumefatto
trovò infetto il tallone,
flagellata la carne.
A quella vista Giovanni imprecò.
Dilaniato Francesco
al dolore rinvenne.
Sedette, e i piedi nudi lasciò
nell’erba, come non fossero i suoi.
Le sue piaghe guardò,
di saliva spalmandole
con amore di madre,
carezzandole piano.
Aveva a memoria il volto di Stefano.
Intuì la fraternità amorosa
tra quelle piaghe e i versi
dolorosi e sapienti
del suo amico fraterno.
Ne parlò con Giovanni.
Questi sorrise porgendogli il flauto.
Per quasi mezz’ora suonò Francesco
mentre Giovanni diceva il Rosario.


Morte di un barbone

Stazione Ferroviaria di Sesto S. Giovanni.
Ore venti.
Giornata piovosa.
Tempo d’attesa mezz’ora circa.
Sala d’aspetto
insolitamente affollata.
Primavera…
non ancora risolta.
Donne
donne aspettano
masticano
leggono
donne comunque annoiate.
Umanità pollaio.
Dilemma: piangere o bestemmiare?
Altoparlante
rompequilibrio
umanità caotica.
Tutti escono.
Rimango solo
con l’altoparlante.
Uomo quasi grasso sul marciapiede.
Dilemma: pensare a mia madre o bestemmiare?
Silenzio.
Dialogo con quadri a parete
Tavolo squadrato tavolo
pronostica mio obitorio.
Silenzio.
Tomba si apre
entro cadavere?
Uomo quasi grasso
indeciso
entra.
Altoparlante
rompesilenzio
dolore timpani.
Ferroviere passa chioma canuta
verso contrario treno merci trenta vagoni.
Tito Livio
avresti mai scritto mia storia?
Passa treno
stesso verso uomo casco giallo.
Donna
entra
sedicenne blùgins
rotonda
studentessa.
Uomo
quasi licantropo fuori
scorteccia narici chiastrate fumo.
Tempo d’attesa quindici minuti circa.
Dilemma: pensare mio pianto o bestemmiare?
Altoparlante
rompeordine
studentessa fa rumore
con pennequaderni.
Altoparlante
rompemente
licantropo entra
merci millevagoni
licantropo sfoglia appunti.
Donne
entrano
due
madrefiglia occhialutecalzescure
Donne due parlano.
Licantropo scrive.
ascissa ordinata ascissa ascissa ascissa.
Altoparlante
rompeascissa
rompeordinata
rompequilibrio
rompe
isterico
rompe.
Donna
entra
quasi di classe
giovane
impiegata – forse impiegata –
Altoparlante
************************************
Dilemma: chiudere gli occhi o pregare?
Treno passeggeri
stesso verso uomo con ombrello.
Tempo d’attesa otto minuti circa.
Palazzi bianchi
fuori
in costruzione
sedicenne annoiata
respirazione obesa
mio stomaco in disordine
malessere
spirito contrappunta benessere
sedicenne aggiusta capelli
borsa cercadentro
infila impermeabile – anzi no – giacca.
Esce
su scarpe ginniche verdi verdi
Tempo d’attesa quattro minuti.
Uomo
ripassa con ombrello
sedicenne passeggia fuori
Transita treno trenta-tre
Tempo d’attesa due minuti
passeggiatori fuori
tre quattro cinque
Tempo d’attesa un minuto
scompare vista
sedicenne
saluto donne
saluto amico licantropo
saluto uomo con ombrello
Altoparlante finalmente tace
ecco
mia morte.


dalla Raccolta “Nonostante tutto… è stato un piacere”

Tu, Venezia, un ponte… sull’acqua!

Venezia!
Città teatro d’immagini sospese,
un ponte…
a nostra storia pervasa d’amore
sull’acqua
incessatamente soffia al profondo.
Venezia!
Un saluto diurato a cangianze,
un ponte…
al salmastro lagunare dell’alito
sull’acqua
si allarga ad onde-sfere saturnee.
Noi due
come gondole di ricordi antichi,
ad acque spirituali illucinati
rimontiamo a lontano
sorpresi ai sorrisi.
S’allontana il greve triste ghermiglio,
dolce avvicina le mani segnate
Venezia!
La bellezza fa rifugio d’antico.