Prosimetro

A Marina c’è una sabbia grigia e scura che in inverno si fa pelle e si screpola sui passi sotto il vento: l’uomo con il sigaro acceso nella sera che scioglie le ultime ombre, salutato il tabaccaio stanco ancora con la serranda aperta per i viandanti delle terme leopolde (come fosse la vecchia provincia balneare d’un impero austriaco ormai dismesso), va verso la sabbia e affonda almeno un po’ pesantemente — cerca freddo e duro sotto i piedi il punto in cui non sono passati cani e padroni, coppie di giovani amanti d’anziani allo iodio di velisti mai presi dall’onde; nel buio vieppiù forte, aspira dolorosamente il puzzo di vaniglia e di salsedine, aspira e aspira col timore che le luci scompaiano e a cui volge le spalle, fino a che trova una traccia. Cammina in tondo per non perderla, la sabbia non toccata dall’estate, ormai come un vetro per le piogge ed i venti che l’hanno temprata: fuma, l’uomo, nel buio; sigaretta non sarebbe possibile — è la misura dei nervosi e dei condannati; fuma il sigaro corto dei disperati, dall’aroma dolciastro per incantamento per l’angoscia del bruciore nella gola dello stordimento in testa e alla fronte; una pipa da gaudente non sarebbe possibile — è lo strumento dei mistici e dei santi, la pipa è di chi ha perso il mondo e non se ne rammarica; fuma l’uomo il sigaro, senza giochi fino a farsi male, per lasciare la sua voce alla donna lontana cui svela la sua malinconia, non fino in fondo, per carezzare il non detto e cullarlo. L’ha vista bellissima e ridente, più donna del solito e tranquilla, a pochi metri da lì, pochi mesi prima, una sera, ultima sera di vita; le ha visto il petto ondoso e forte, l’ha vista più desiderabile di sempre, elegante nei suoi fiori blu e gialli e rossi nel casto occhio di mandorla sul petto fra i seni, lieve ferita che non ha saputo non guardare, veleno come le sue labbra che non ha saputo non ricambiare nel sorriso. Ora la fuma in silenzio, con la macchina poco lontano sotto un lampione d’un tempo, dalla luce arancione, vuota nel freddo di un autunno marino; la macchina lo porterà al caldo a dieci minuti, nel buio del viale alberato; lì a Marina c’è il mare lontano e distratto senza risacca, il sigaro illumina un punto danzante nel vuoto: l’uomo ha paura d’assalti imprevisti; in qualche modo non può tardare, non può approfittare del tempo.

Questa spiaggia occultata in estate

da un nulla di sirene, ora è piena

di te: e un vuoto silenzio avvolge

dal mare ovattato che smorza la sabbia

e un filare di cippi e di sterpi.

Piega la barra lontano un bastimento: un’isola

di nuvole sommuove la pioggia sul mare,

il resto del cielo è striato di richiami

di sole — ed io con te, amica mia complice

aggrappata a un silenzio fra noi, amore.

Da una scotta di nubi si sfila il tuo viso,

chiede lasco e frescura, mi ride:

e ha gli occhi grandi al ritorno, e un bagliore

di cose affacciate ed impresse e svanite.

La donna lontana ha un sorriso tanto triste, una pelle tanto astratta tanto bella tanto dolce tanto lontana, che pare bruciarsi ad ogni respiro nella mente dell’uomo: chissà cosa le direbbe, adesso sulla sabbia, se non passeggiassero fino al cavallo rampante, fino al lido dei carabinieri, in su e in giù soli e famelici e allegri di non saper restare insieme. Chissà cosa le direbbe se avesse coraggio di dirlo; l’uomo fuma per avere una voce più roca e somigliare ad un nervoso rigurgito di desiderio da non accettare; per puzzare e non essere accolto e accettato; per dirsi che è questo il motivo del loro non trovarsi, e dare la colpa al tabacco e all’umido freddo: perché l’altra ragione è più dura più vuota più triste, non avere lo stesso tempo, non avere la stessa occasione da rimuginare nel freddo.

È tutta una pelle immobile che langue

il lago di luce che freme attorno alle labbra

e si chiude alla fronte: hai una ciocca

più lunga vicino alle orecchie, sei stanca,

e mi pare di miele ogni istante, quasi

che non ci fossimo persi un giorno e trovati.

E mi chiama a svolare sul salso

una tua frase notturna, un saluto al mattino,

un tuo aprire il cuore a me solo,

che non ti avrò e che dono

l’inutile tempo del cuore al tuo cuore,

la vera età di accendermi ancora.

L’uomo è andato via: sotto i piedi dei vecchi sampietrini, l’asfalto bucato dai semi di palmette nate per caso negli anfratti e poi spuntate agli angoli dei marciapiedi curvi di radici dei pini marittimi; arriva alla macchina, dovrà preparare da mangiare e ha negli occhi quei seni e il sorriso e l’allegria che non ha mai visto sul volto della donna, rilassata, raminga e libera; il sorriso ha incuriosito tutti, ha rallegrato tutti, ha imbevuto tutti per un attimo di gioia; poi ognuno ha mangiato per sé, scherzato per sé, giocato e ballato per sé; lei è rimasta lontana, il tavolo è enorme, la sera troppo breve, le parole troppo da non dire dinanzi a tutti, gli sguardi da tacere; ha negli occhi quel vestito di mesi prima, col calore di giugno già arroventato. Non la rivedrà più così, né quella sera potrà dimenticarla, o fumare il suo sigaro in casa; il sigaro è il mare o non è, è la spiaggia deserta nella sera d’autunno, o non è. La sua donna lontana è più triste, ed il mare non ha più onde: chissà cosa avrebbero detto se si fossero visti sul duro silenzio della spiaggia, girando in tondo per non perdere un ricordo.

Nove meridiane hanno il timore

di scandire su te l’ultima ombra, e una lieve

sfilacciata ragnatela senza preda

sposta il peso del vento verso oriente:

torna il rumore, s’apre il cielo

e dal Giglio a Caprera s’ode il fischio

del niente, del mio amore non innocente.


In fondo agli occhi

Ci sono sere in cui tutto scompare, sere di mezza settimana, silenziose come a settembre conviene ed al suo clima incerto e pendente; sere a cavallo del nulla, come questa già segnata, sere senza una giornata degna di nota, nuovamente umide e opache, sere senza risate in fondo alla via, all’angolo del bar.

Ci sono sere in cui scompari anche tu, mobilitate tutte le energie per il silenzio, la comprensione del mondo, delle eterne sfere inconoscibili dell’amore e dell’odio, di come s’alzi e si prema la pancia sulle costole, di come spuntino al mattino lividi e graffi ed altre inezie che legano il corpo allo spirito con nodi misteriosi; in cui scompari in cerca di giustizie e di felicità, in cui sorreggi il peso della terra e del cielo—in cui vuoi che solo una mano sorregga il tuo d’ora in poi, e ti armi per trovarla.

Al telefono Bill non parla, respira leggero: ha detto tutto, forse troppo, deve ricaricare la miccia per le polveri—sa che il colpo migliore potrebbe mancare da un momento all’altro; dipende da quanto silenzio opporrà coi suoi pensieri Nancy, da come se ne uscirà dall’angolo alle corde, richiamando il sonno, il mal di testa, le sue ragioni di donna, la voglia di sbagliare ancora e il suo diritto. Sono stanca di fare la brava, capito?… una volta, aveva detto.

Certe volte sono così lunghi i silenzi che Bill si concede di ripassare gli argomenti: lui o pensa veloce come il fuoco, o si blocca. Nancy è più flessuosa: e poi parla di meno. Chi sia più filosofo dei due adesso è difficile da dire—è una questione di miccia e di polveri, appunto di fuochi e spari: Nancy mira dritto o elude il tiro, se la concentrazione le fa difetto, specie al telefono; Bill ha i fuochi d’artificio, non mira quasi mai per uccidere, specie con Nancy. Non più.

Poi tacciono tutti e due, e tocca a Bill sacrificare la posizione, e quando non riesce a stanare Nancy dal suo buco, meglio sarebbe di certo il silenzio netto e definitivo del non essersi trovati, del telefono che squilla a vuoto: non li hanno inventati per questo i telefoni, per decidere di non rispondere? Alla finestra si sa bene chi è, alla porta lo spioncino fa il suo mestiere anche di notte a volte: ma da un capo della cornetta all’altro c’è il buio, un mondo che si apre o meno, la conferma dell’esistenza, la voce che gracchia e rivela un fuoco o un ghiaccio, la lontananza quando per meno di un secondo la linea tace, di tanto in tanto.

Bill vive da solo, lontano da Nancy, da tutto e da tutti, col lavoro e qualche amico e il suo cane, Argo, ed Hercules il pesce rosso che lo saluta in fotografia—una volta saltò via lontano dalla sua boccia finendo dentro il lavello. Bill lo prese come un monito di libertà, e prese Argo solo perché anche il suo cane stava aspettando un padrone, come lui.

La libertà a volte è avere un padrone che ti faccia sentire a casa.

Bill lo sapeva, per questo avrebbe lasciato Argo alla sua vita: ci sono quelli che certe sere prendono la via di casa, sfamati da un semplice richiamo, e poi ci sono cani che non tornano sin quando il loro padrone non torna, il loro padrone vero, non uno che ti mette la ciccia nel piatto e ti accarezza sul collo e sul capo.

Nancy dormiva già: il respiro era pesante—si addormentava spesso al telefono, sdraiata sul letto, a pancia in giù nelle pose più strane, e col telefono in mano schiudeva la bocca, sino al mattino. Nancy cercava ancora nell’aria il sorriso del mattino dopo: Bill sapeva che non era il suo, non era per lui.

Certe sere scompare ogni cosa, anche le strade scompaiono, le coordinate geografiche, il tempo, il tempo stesso cambia la pelle come si fa d’autunno e le giornate cambiano velocità.

Certe volte scompari anche tu…